Il governo amico non esiste (Reprise). Della serie, mandiamoli (serenamente) al diavolo, di Franciscu Sedda

 

Su alcuni ha fatto molto scalpore la richiesta fatta ieri da Paolo Manichedda di “mandare al diavolo” il Governo italiano. Cosa curiosa visto che Paolo è indipendentista e dunque al diavolo – per presupposizione logica – ha già mandato l’intero Stato italiano.

Forse ciò che fa scalpore è il tono commisurato al ruolo. Ora, al netto della scrittura personale sul blog di “Sardegna e Libertà” (un nome che già dice tutto), andrebbe capito che in questi tempi strani se non usi certe parole nessuno ti sta a sentire. E soprattutto che davanti ad una serie di comprovati misfatti (o non-fatti) italici rispetto alla Sardegna una sferzata indipendentista è doverosa. Tanto più che se si fa politica per fare politica, e non per gestire l’esistente, si sta in un’alleanza per convincere gli alleati a spostarsi sulle proprie posizioni, a cambiare convinzioni e modi di fare, in una parola a cambiare per cambiare il mondo. Come rinunciare, davanti alle ennesime slealtà italiche, alla tentazione di ricordare ai propri alleati che si ha ragione? Che non si può essere italiani se non a prezzo di beffe e umiliazioni come sardi? Che anche se non si è indipendentisti bisogna iniziare a pensare e agire da sardi, secondo un nuovo modo di essere sardi, vale a dire non più questuanti, assistiti, blanditi, circuiti, ma come esseri umani pienamente responsabili di sé e della propria terra?

Ecco. Questo si sta dicendo. Avanziamo insieme. E avanziamo agendo fin d’ora da Stato sardo, ricordando a noi stessi che un’azione di governo buona e onesta (che c’è certamente più del passato e c’è certamente più di quanto non si veda) non basta per cambiare la realtà se la nostra ricerca di una qualità istituzionale e politica non è al contempo ed esplicitamente una pedagogia della responsabilità, dell’emancipazione, dell’autodeterminazione.

Ora, la cosa bella, è che non c’è bisogno di diventare indipendentisti dal giorno alla notte – convincimento sempre sospettabile di andarsene via com’è arrivato, dal giorno alla notte appunto – per iniziare questo cammino. Si può iniziare ad esempio riconoscendo tutti insieme – come in una collettiva seduta di auto-terapia – che il concetto stesso di “governo amico” è perverso, che va eliminato dal lessico e dal pensiero politico sardo. A meno che, ovviamente, non ci si stia riferendo al governo sardo, che deve saper essere amico dei sardi, al servizio dei suoi cittadini e della propria terra.

A tal proposito ripropongo qui in allegato un testo – parte di un testo più esteso scritto e pubblicato nel luglio 2011 – che credo sia ancora attuale e ancora utile. Non perché non si siano fatti passi avanti ma perché, proprio perché se ne sono fatti, ora se ne possono fare di nuovi e più decisivi.

A innantis!

Franciscu Sedda

Segretario Nazionale Partito dei Sardi

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Il governo amico non esiste

Ora, ipotizzato che il riconoscimento del nostro auto-disconoscimento in quanto nazione non avvenga, e che dunque il concretizzarsi di una politica nazionale sarda rimanga un orizzonte ancora troppo vago, fumoso, sentimentale, estemporaneo e strumentale come è stato fino ad oggi, resterebbe comunque un’altra possibilità concreta di riconoscimento comune: riconoscere che l’idea del “governo amico” è un’idea dannosa e per certi versi perversa, che rischia di perpetrare frustranti prese in giro e drammatiche situazioni sociali.

Potremmo passare anche pagine ed ore a fare la conta dei governi italiani un po’ migliori o un po’ peggiori, ma il punto è un altro, meno opinabile e più decisivo: l’idea di “governo amico” implica una fiducia a priori, una disponibilità a sopportare e scusare lo Stato italiano, che è stata rovinosa ed è politicamente assurda. Il fatto stesso di ammettere l’ipotetica esistenza del “governo amico” implica l’attesa di un cambiamento dall’alto e dall’esterno; un’attesa del cambiamento e la conseguente soluzione dei problemi sardi come risultato dell’agognato avvicendamento a Roma (o alla Regione come succursale di Roma) fra il governo “nemico” e quello “amico”.

Il concetto stesso di “governo amico” è insomma la perfetta sintesi fra l’ingenuità politica e la paura di prendersi responsabilità dei sardi. Oppure è segno di malafede e asservimento preventivo. Ma soprattutto, se siamo e vogliamo essere popolo, l’idea di un governo amico che non sia un governo sardo al servizio dei sardi, del loro benessere e del loro protagonismo nel mondo, è paradossale e superflua. Insomma, a me pare che già oggi, sulla base della nostra esperienza condivisa come sardi, potremmo quantomeno concordare insieme sul fatto che non ci possono essere governi italiani (o statali, se preferite) considerabili come “amici”.

Dal punto di vista pratico questo significa che i governi sardi (e più in generale l’intera classe politica sarda, eletta in Sardegna o al parlamento italiano) dovrebbe vedere il governo italiano di turno, in prima istanza, come una controparte del popolo sardo (non sarebbe del resto questo l’atteggiamento conseguente all’idea, continuamente sbandierata, di una “vertenza Stato-Regione” che dovrebbe restare costantemente aperta?!). Una controparte può dunque essere il soggetto di una negoziazione, se questa è minimamente e realisticamente conveniente e fattibile. Ma se questa controparte agisce contro gli interessi dei sardi essa diventa un puro e semplice avversario.

Ancor più produttivamente l’idea che lo Stato sia una controparte dovrebbe servirci a convincerci che la migliore abitudine che possiamo prenderci fin d’ora è quella di fare “come se lo Stato italiano non ci fosse” (per parafrasare la massima di Grozio, e poi di Bonhoeffer, “Etsi Deus non daretur”). Come dimostrano lo scandalo della vertenza entrate, la farsa dei fondi per la Sassari-Olbia, del G8 de La Maddalena, dei mafiosi che si vorrebbero rispedire all’Asinara e in mezza Sardegna [Nota 2016: qui ovviamente, il lettore tenga a mente, i risultati ottenuti dal nostro Governo – in primis in materia di Vertenza Entrate, inversione dei flussi, costituzione dell’ASE, investimenti in infrastrutte ec. - ma al contempo le nuove beffe del Governo italiano denunciate proprio ieri da Paolo Maninchedda e dal Partito dei Sardi], per ricordare solo alcuni dei casi più assurdi, è urgente che i sardi e il loro governo pensino prima di tutto a fare da sé, rimboccandosi le maniche e riportando la politica sarda (di qualunque livello) al servizio dei cittadini sardi.

È tempo di riportare la politica che conta in Sardegna, fra i sardi, per i sardi. In questa seconda forma di riconoscimento dunque chi è chiamato a governare la Sardegna, tanto come maggioranza quanto come minoranza, dovrebbe essere valutato dai sardi (e sentirsi legittimato ad agire per essi) sulla base della sua capacità di difendere sempre e comunque gli interessi contingenti e di lungo periodo dei sardi e della Sardegna.

Questo significherebbe coltivare, formare ed eleggere una classe dirigente che sappia compiere quantomeno un ballo a tre passi: 1) avere il coraggio di opporsi allo Stato, con determinazione e senza paura, ogni volta che è necessario; 2) saper lucidamente girare a proprio vantaggio i provvedimenti dello Stato senza soffrire della sindrome del “favore ricevuto” da ricambiare con eventuali nostri sacrifici, dato che lo Stato non fa doni (se non “cavalli di Troia”) ed è già ampiamente in debito nei nostri confronti; 3) trovare la volontà di affermare politiche positive per la Sardegna senza aspettare lo Stato o senza pensare di dover chiedere il permesso.

Con il terzo punto, come si vede, siamo già alla sovranità agita, dentro (o a un passo da) una politica nazionale sarda, e dunque nuovamente davanti alla questione di un maturo e pratico (auto)riconoscimento collettivo come nazione. Il secondo punto presupporrebbe, per non diventare controproducente o pericolosamente ambiguo, una malizia che l’attuale classe dirigente sarda non sembra possedere perché esso funziona se si è interiorizzata una convinzione così profonda della propria alterità da nutrire un astuto e fermo pragmatismo (un po’ come quei politici catalani che magari non si dicono ancora indipendentisti ma non hanno dubbi a dire di non essere spagnoli). Tenendosi dunque al livello più basso, più elementare, più semplice di distinzione e riconoscimento, si tornerebbe al primo punto. Qui non si chiederebbe alla politica sarda di essere capace di porre in modo maturo e consapevole il tema della sovranità nazionale, e forse neanche di iniziare a sentirsi sarda e non italiana, ma quantomeno di smetterla di giocare sulla pelle dei sardi a favorire questo o quel “governo amico” a Roma o ad anteporre le logiche di partito (italiano) al benessere nostrano (sardo). Si chiederebbe e valuterebbe la classe dirigente sarda sul coraggio di entrare in attrito o in conflitto, ogni volta che sia necessario, con il governo e con lo Stato italiano, e dunque con i propri referenti di oltremare, laddove questi malauguratamente perdurino.

Si tratta evidentemente di un conflitto politico, nonviolento, va da sé, ma senza sconti, fino alla possibilità di unirsi trasversalmente per chiamare e guidare i sardi a forme aperte di disobbedienza civile, dimostrando così che la classe dirigente sarda non piega la testa davanti alle decisioni ingiuste o dannose portate avanti dallo Stato italiano nei confronti della Sardegna. Sarebbe un buon modo per dimostrasi quantomeno “nazione in pratica”, o più modestamente, classe di governo organica ad una collettività che non si arrende né si rassegna davanti a ingiustizie e prese in giro. Insomma, se ancora non si riesce a trattare il governo italiano come un “governo straniero”, lo si inizi a trattare quantomeno come un “governo forestiero”; e se i nostri cuori, siccados che pabassa quando si tratta della Sardegna ma patriottici quando si tratta dell’Italia, proprio non ce la fanno ancora, almeno lo si tratti come un “governo statale”, di uno Stato rispetto a cui la nostra fiducia come sardi non può che stare a zero. (…)  Franciscu Sedda

 

 

 

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