Vale più una targa o uno studio? La memoria della shoah e delle foibe in un dibattito al Consiglio comunale di Arborea, di Alberto Medda Costella
Uno dei punti all’ordine del giorno dell’ultima tornata del Consiglio comunale di Arborea riguardava la discussione della mozione presentata dai consiglieri del gruppo “Progetto Arborea”, circa la memoria di alcuni degli eventi più tragici della seconda guerra mondiale: la shoah (cioè lo sterminio del popolo ebraico nei campi di concentramento nazisti), le foibe (le cavità carsiche dove vennero uccisi più di mille italiani, che più probabilmente furono molte migliaia, i cui corpi non vennero ritrovati) e l’esodo dei giuliani e dalmati dal confine orientale.
Associando le due date evocative del 27 gennaio e del 10 febbraio, la minoranza consiliare proponeva di impegnare il sindaco e la giunta a rendere omaggio alle vittime con commemorazioni formali e intitolando loro una via o piazza di Arborea, o erigendo, secondo la stessa intenzione, un cippo evocativo…
In quanto consigliere civico che, per studi (a Trieste soprattutto) e per vicende familiari (in particolare nel Trevigiano), ha potuto approfondire le vicende storiche richiamate della mozione, il mio approccio alla questione è stato più complesso. Non tanto ad una lapide potevano e dovevano ridursi le cure della comunità arborense, ma piuttosto alla conoscenza mirata delle mille pieghe di quella immane duplice tragedia, anche per alimentare il senso umanitario e democratico della cittadinanza e delle più giovani generazioni. Questo il mio punto di vista.
Ho creduto di dover esporre in una breve relazione, argomentandole, alcune considerazioni in proposito, così anche sostenendo il dibattito in municipio. Ecco di seguito il testo del mio intervento.
Ebrei, fascisti, infoibati e la “snazionalizzazione” dell’Italia orientale. Le contraddizioni d’una storia.
Intervengo sui temi suscitati dalla mozione dei consiglieri Pinna e Montisci, offrendo almeno qualche accenno di riflessione su come la nostra comunità possa partecipare al più generale movimento ideale che, onorando le vittime della prepotenza materializzatasi tragicamente nel XX secolo, rilanci la civiltà della tolleranza, base di ogni progetto pedagogico e formativo delle nuove generazioni e della civile convivenza dentro una società matura.
Personalmente non ho nulla in contrario ad intitolare una via o piazza alle vittime della Shoah e delle Foibe. Ritengo però che questa decisione del Consiglio avrebbe maggior valore se fosse la conclusione, non la premessa, di una serie di incontri, o conferenze di approfondimento, di più anni promossi dallo stesso Comune, in cui tutta Arborea possa interrogarsi su queste vicende complesse che trovano spiegazione in fenomeni di lungo corso e non da episodi evenemenziali, sia per ciò che riguarda la persecuzione degli ebrei sia relativamente alle vicende occorse nel confine orientale italiano. Anche una piccola realtà con una vita così breve come la nostra avrebbe, almeno credo, molto da dire sulle grandi tragedie della storia.
Pensiamo a Camillo Hindart Barany, agronomo della SBS e anche tra i fondatori della nostra Unione Sportiva, capo della milizia ed organizzatore dei fasci giovanili, lui di origini ebraiche, morto per l’impero in Abissinia ancora prima della promulgazione delle leggi razziali; o pensiamo, ancora, al Commendator Alessandro D’Ancona, il reclutatore dei fattori toscani di Arborea, colpito dalle leggi antisemite insieme alla figlia, come confermano le carte del nostro archivio storico.
Pensiamo ancora a quei pionieri di Arborea, che, dopo esser stati alle dipendenze della Società Bonifiche Sarde, sono partiti alla volta dell’Istria. In quelle due stampe che vedete appese in aula – si tratta delle due stampe dei pionieri della bonifica -, la famiglia di mio nonno per un’errata trascrizione è stata inserita con un altro cognome. I Costella lì fotografati sono solo dei nostri lontani parenti, che vissero nell’allora Mussolinia appena quattro anni, per poi rifare fagotto e partire alla volta di un paesino vicino a Pola, utilizzati come strumenti inconsapevoli della politica di snazionalizzazione portata avanti dal regime fascista in quelle terre. A parte le donne, nessun altro è sopravvissuto e tutti gli uomini di quella famiglia hanno pagato con la vita colpe non loro.
Ho vissuto alcuni anni a Trieste e mi sarebbe facile confessare qui anche motivi personali che mi porterebbero a una più intensa partecipazione a vicende remote eppure presenti ancora, per le loro conseguenze, nell’animo di tanti giuliani, alcune delle cui famiglie ho potuto conoscere.
La storia dei reduci dei campi di concentramento, degli infoibati e dei profughi è ormai nota. L’Italia repubblicana ha dimenticato volutamente queste storie, anzi, in certi casi ha dato copertura perfino a numerosi gerarchi fascisti, soprattutto in Sardegna, il territorio italiano dove l’immagine del regime si era sporcata meno, tanto che Mussolini ci tornò nel 1942 per ricevere un’accoglienza che in quell’anno non avrebbe trovato da nessun’altra parte d’Italia.
Ricordiamo che la stessa Arborea non è stata immune da questo fenomeno. Sono diversi i fascisti che, in quegli anni calamitosi, sono qui venuti a svernare. Il più in vista di tutti il triestino Aldo Vidussoni, prima segretario del Gruppo Universitario Fascista (GUF) dell’ateneo giuliano, poi segretario del Partito Nazionale Fascista. Una figura di primo piano e che ha esacerbato gli animi delle popolazioni di cultura slovena e croata. Dai diari di Galeazzo Ciano sappiamo cosa pensava degli slavi della Venezia Giulia. Il genero del duce scrive infatti nel 1942: «Viene a vedermi Vidussoni. Dopo aver parlato di piccole questioni contingenti, fa alcuni cenni politici e dichiara truci propositi contro gli sloveni. Li vuole ammazzare tutti. Mi permetto di osservare che sono un milione. Non importa – risponde deciso – bisogna fare come gli Ascari e sterminarli tutti».
La sua figura storicamente non può essere certamente considerata ambasciatrice di pace. Anzi, egli pare sia stato scelto in quanto in linea con i più radicali ideali fascisti. In una anonima del tempo viene definito “perfetto campione della gioventù fascista: mutilata, ignorante e scema”. Per la cronaca era un reduce della guerra civile spagnola, quella guerra che dal 1939 ha proiettato i suoi effetti nel tempo, imponendo alla Spagna la cappa della dittatura fino alla morte del generalissimo Francisco Franco, avvenuta nel 1975. 36 anni di dittatura.
Vogliamo commemorare e rendere omaggio alle vittime della Shoah e delle Foibe? Facciamolo, ma portiamo avanti queste iniziative liberi da qualsiasi retropensiero di convenienza, da qualsiasi pregiudizio ideologico e dopo un approfondimento serio ed accurato di conoscenza dei fatti, delle cause o degli effetti, potremo anche dedicare loro una via. Lo voglio dire meglio: onoreremo le vittime oneste e innocenti della prepotenza politica più con lo studio dei fatti, coinvolgendo la nostra umanità nel vissuto terribile dei caduti, più che “scaricando” ogni memoria in una targa di prammatica o di circostanza. Anzi, invito i consiglieri Pinna e Montisci sottoscrittori della mozione a collaborare per organizzare insieme queste giornate di studio comunitario, ed evitare quindi che le date del 27 gennaio e del 10 febbraio scadano a feticci ideologici da sventolare a seconda della convenienza partitica.
Oggi viviamo, oltreché in democrazia – e la democrazia non può che essere antifascista e, per valori, l’opposto anche del comunismo titoista – in un contesto in cui finalmente ci si è riappropriati del concetto di memoria come dovere sociale. Ricordare è necessario non per restare ostaggi del passato, ma per evitare che la tragedia subita dai nostri fratelli, di qualsiasi provenienza e credo religioso, possa ripetersi, perché la razza è – secondo la celebre battuta di Albert Einstein – una sola, quella umana.
Le recenti guerre balcaniche, africane e mediorientali, ci hanno dimostrato come siamo lontani da un mondo libero dalla discriminazione etnica, dal nazionalismo esasperato e dall’intolleranza religiosa. Il mio auspicio è che la diversità non sia più motivo di scontro, ma di arricchimento culturale, almeno secondo quanto teorizzato dall’antropologo francese Claude Levi-Strauss in quel bellissimo suo libro “Razza e storia”.