Il suffragio universale inclusivo del voto femminile, 70 anni fa. E a Cagliari, Crespellani dopo Pintus, di Gianfranco Murtas
Viaggio affascinate di Gianfranco Murtas nella testimonianza umana, politica e civile del suo mo9dello di riferimento: Cesare Pintus.
Novantasette anni dopo l’approvazione della costituzione della gloriosa Repubblica Romana (che pur non aveva potuto vedersi attuata, per l’intervenuto sanguinario contro-golpe papalino e francese), il suffragio universale davvero pieno si realizzò in Italia nel marzo 1946, alle amministrative comunali che anticiparono di tre mesi il voto referendario e per la Costituente. Era stato il governo presieduto dall’azionista Ferruccio Parri, ormai al suo tramonto per l’annunciato ritiro delle componenti moderate (liberale e democristiana), ad esitare ed a trasmettere alla Consulta Nazionale – come recita la scheda parlamentare – «lo schema di provvedimento legislativo sulla legge elettorale per l’Assemblea Costituente e quello relativo alle elezioni amministrative con l’estensione del suffragio universale alle donne». Era il 22 novembre 1945.
A Cagliari si votò domenica 17 marzo, e il risultato delle urne – certamente per il decisivo apporto dell’elettorato femminile, più soggetto alle influenze di un clero e di un associazionismo cattolico letteralmente scatenato per la conquista della rappresentanza – fu ampiamente favorevole alle formazioni centriste e della destra monarchico-qualunquista.
Ai democristiani andò una significativa maggioranza, poi condivisa, nell’espletamento effettivo del governo municipale, almeno per qualche tempo, con la sinistra social-comunista (attestandosi su posizioni attendiste il gruppo sardista). In municipio cessò, dopo giusto un anno e mezzo di fatiche inenarrabili, l’amministrazione guidata da Cesare Pintus – legittimata da nomina prefettizia su indicazione dei partiti della concentrazione antifascista – e prese avvio quella presieduta da Luigi Crespellani.
Da lì, attraverso varie formule a loro volta riflesso delle alleanze o delle avversioni nazionali (si pensi alla rottura del patto governativo DC-PCI-PSIUP nel 1947, alla scissione socialdemocratica di Palazzo Barberini, alle stesse vicende interne al PSd’A con l’uscita dei lussiani nel 1948 ed alla loro confluenza nel PSI l’anno successivo, alle evoluzioni del magma reazionario fra il Fronte dell’Uomo Qualunque, i partiti monarchici nazionale e popolare ed il sorgente MSI), la Democrazia Cristiana sarà la vera protagonista della storia amministrativa di Cagliari per un lungo mezzo secolo, appena temperato, dagli anni fra ’70 ed ’80, da un crescente protagonismo del PSI che, per qualche tempo, assumerà per un suo uomo anche la carica di sindaco.
Raccolsero oltre 13mila voti e conquistarono 17 seggi su cinquanta i democristiani (Crespellani ricevette ben 5.538 preferenze personali), al Fronte popolare andarono quasi 9mila voti e 11 seggi; ben più di 4mila suffragi si riversarono sui qualunquisti e quasi 4mila sui liberali, ottenendo ai primi 6 seggi e 5 agli altri. Nessun seggio per i circa 400 voti dei demo laburisti (poi confluiti fra i liberali). I sardisti guidati da Emilio Lussu e Cesare Pintus (ai primi posti della lista, per il rimanente presentata in ordine alfabetico) ebbero 8.514 consensi e 11 seggi . Ben 4.813 furono le preferenze al nome del leader, 1.563 al sindaco uscente. (In Consiglio i sardisti portarono anche Ambrogio Pintus, Gio.Maria Angioi, Giuseppe Asquer, Giuseppe Sarigu Congiu, Antonio Picciau,Gerolamo Mainas, Antonio Tinti, Lorenzo Trudu, Salvatore Sole).
Si trattò, sul piano politico più generale, della preparazione del successo cattolico e centrista consacrato dal voto di giugno. Nella provincia di Cagliari allora i consensi alle liste democristiane superarono il 36 per cento, quelli cumulativi alle liste del PSIUP e del PCI si fermarono al 25; la destra qualunquista e quella liberale (dell’Unione Democratica Nazionale) raccolsero il 14,9 e il 5,6 per cento; i sardisti sfiorarono i 40mila voti, per una percentuale del 15,2. Date tali dimensioni degli schieramenti politici e le dichiarazioni circa l’opzione istituzionale emerse la netta propensione monarchica dell’elettorato democristiano (oltreché liberale e qualunquista). Il voto repubblicano infatti quasi toccò il 40 per cento in provincia, e fu poca cosa, quanto era il peso cumulativo di PCI-PSIUP e PSd’A, forze dichiaratamente repubblicane, a fronte di un certo agnosticismo democristiano (piuttosto repubblicani i vertici, ampiamente monarchici gli elettori). Ancor più mortificante, per la causa della Repubblica, il voto del capoluogo: appena il 27,8 per cento.
Per Cagliari dunque iniziò una storia nuova e, ho detto, si chiuse la parentesi nobile e ingrata della sindacatura Pintus.
Ho dedicato a questa figura, che resta fra le eccellenze della democrazia sarda del Novecento – studiata fra i primi da Manlio Brigaglia ed Aldo Borghesi, oggetto di qualche bella tesi di laurea (come quella di Francesco Atzori, che punta soprattutto alla sua esperienza amministrativa) – molta fatica, ricavandone esaltazione civica.
Ne ho stampato più volte, in varie edizioni, il profilo biografico mirato alle diverse stagioni della sua vita (quella giovanile repubblicana e di corrispondente da Cagliari de La Voce Repubblicana), quella di antifascista gielle e di detenuto nelle carceri della dittatura per un intero quinquennio (con a seguire altri otto anni fra vigilanza di polizia e permanente esclusione dall’ordine professionale), quella di fondatore del Partito d’Azione in provincia di Cagliari, quella di redattore capo de L’Unione Sarda dalla ripresa delle pubblicazioni nel novembre 1943, quella di segretario del CLN provinciale di Cagliari, quella di sindaco del capoluogo, quella di esponente del sardismo lussiano.
Nel 2001, nel centenario della nascita stampacina, pubblicai un quaderno che donai (con liberalità impensabile dai ricchi) al sindaco Floris, alla sua giunta, all’intera assemblea civica, nella generale indifferenza (eccezioni Comandini e Farris). L’auspicio era che la rappresentanza municipale sapesse tenere, nell’amministrazione politica, la barra nella moralità che era stata di Pintus. La confusa barbarie valoriale dei berlusconiani non poteva però capire cosa scrivessi allora.
Rimane la mia testimonianza. Che rinnovo oggi, nel settantesimo dell’esordio civico del suffragio universale, che fu battaglia antica dei democratici mazziniani (ricorderei fra le suffraggette, eroina dell’antifascismo repubblicano ed azionista, Bastianina Martini Musu – nominata dal governo Parri consultrice nazionale alla vigilia della prematura scomparsa –, ma con lei ricorderei anche, a me carissima, Ines Berlinguer Siglienti, e molte altre donne della democrazia autonomista, dalle sorelle Marianna e Ignazia Bussalai a Mariangela Maccioni e alle sorelle Elena ed Ottavia Melis, da Margherita Bellieni a, naturalmente, Joyce Lussu).
Storia di un democratico, sindaco di Cagliari dal 1944 al 1946
Incontriamo qui una grande personalità che ha onorato la democrazia cittadina in una fase cruciale della sua storia recente, e la cui memoria rimane ancora, purtroppo, episodica o marginale fra i cagliaritani.
Cesare Pintus cagliaritano classe 1901 – nato il 4 agosto –, domiciliato nel corso Vittorio Emanuele n. 52: «statura 1,70 – corporatura robusta – capelli castani lisci calvizie frontale – viso bruno pallido forma ovale», ecc.: così nella scheda “connotati”, una riservata della prefettura di Cagliari del 30 novembre 1937, quando sta ancora scontando il triennio di libertà vigilata, dopo i cinque anni di galera, fra Regina Coeli e Civitavecchia; scheda che così conclude: «andatura disinvolta; espressione fisionomica seria; abbigliamento signorile; segni speciali: porta occhiali per miopia».Egli è figlio del cav. Giuseppe, originario di Siliqua, primo ufficiale di Ragioneria all’Intendenza di Finanza di Cagliari, e di Beatrice Dessì, che sarà sino alla fine il suo vero grande e più intimo affetto;
Cesare Pintus mazziniano, corrispondente da Cagliari della Voce Repubblicana dal 1923 al 1925 e segretario della sezione “Mazzini” dello stesso capoluogo che celebra nella sede del Solco sardista, – in via Sonnino 19 –, con Silvio Mastio e gli amici e alleati dei Quattro Mori, nel 1925, l’ultima ricorrrenza mazziniana in libertà;
Cesare Pintus antifascista, che si consegna, nel tempo, ad una successione di esperienze di militanza sul filo coerente di una devozione all’ideale democratico incarnato dall’Apostolo repubblicano e di una fraterna, quasi filiale, solidarietà a Emilio Lussu: e dunque, secondo gli eventi compiutisi degli anni fra 1929 e 1948 (l’anno della sua morte), Giustizia e Libertà, Partito d’Azione, Partito Sardo d’Azione (in cui confluiscono gli azionisti sardi nel settembre 1944), Partito Sardo d’Azione socialista;
Cesare Pintus segretario del comitato di Concentrazione antifascista della provincia di Cagliari, fra primavera ed estate 1944, e dall’ottobre del medesimo 1944 fino al marzo 1946 sindaco di Cagliari nominato dal prefetto su unanime proposta delle forze politiche del CLN provinciale;
Cesare Pintus giornalista per giusto un anno (cioè fino all’assunzione della sindacatura) dell’Unione Sarda risorta nel novembre 1943, dopo la sospensione delle pubblicazioni causa i bombardamenti e lo sfollamento, sotto la diretta gestione delle forze dell’eptarchia antifascista (comunisti-socialisti-azionisti-sardisti-demolaburisti-democristiani-liberali) protrattasi fino all’indomani delle elezioni della Costituente, nel giugno 1946;
Cesare Pintus candidato, con Lussu, nella lista del PSd’A, alle prime elezioni amministrative dopo vent’anni di regime autoritario (e anche, più immediatamente, dopo i 18 mesi della sua stessa sindacatura), e candidato – comunque sempre soccombente – sia alle elezioni per la Costituente, il 2 giugno 1946, che per il primo parlamento repubblicano, il 18 aprile 1948;
Cesare Pintus infine – lo si ricordi – avvocato, portatore peraltro di una esperienza professionale gravemente condizionata dalle sue vicende politiche di cospiratore, di detenuto, di vigilato speciale, fino al gennaio 1944, fino cioè alla sua reiscrizione all’albo dei procuratori e avvocati.
Finalmente nell’albo degli avvocati
E da quest’ultimo episodio – per ripercorrere sia pure in velocità la storia umana, privata e pubblica, di Cesare Pintus civis calaritanus, nostra gloria per la testimonianza resa ai più alti ideali di libertà, giustizia e democrazia – si vorrebbe partire onde dare spessore di vita vissuta, a quella che potrebbe rischiare di rimanere soltanto una pagina di cronaca d’un giornale. E che è un giornale – L’Unione Sarda del 4 gennaio 1944 – a raccontare per filo e per segno riproponendo il testo della delibera appena assunta dal commissario prefettizio del Sindacato avvocati e procuratori di Cagliari, Giuseppe Musio.
La storia è questa: laureatosi in giurisprudenza nel marzo 1925, e impiegatosi a far pratica in diversi studi legali, fra cui soprattutto quello dell’avv. Jago Siotto a Sanluri, Pintus si iscrisse nell’albo dei procuratori il 4 luglio 1928, per esserne cancellato nel 1932 «in seguito – testuale – alla condanna da lui riportata dal soppresso Tribunale speciale per la difesa dello Stato per il reato di complotto contro lo Stato».
Recita la delibera commissariale: «considerato che la imputazione per la quale il dottor Pintus è stato condannato derivava da una situazione politica ormai superata e posta nel nulla dalla scomparsa del regime fascista, onde quella stessa condanna deve ritenersi come non avvenuta» e considerato «che è conforme a giustizia che il dottor Pintus sia per intero reintegrato nei suoi diritti», la sua posizione viene regolata come segue: il quinquennio dell’esercizio professionale, onde considerare maturata la sua iscrizione nell’albo degli avvocati, vien fatto decorrere dalla data della sua scarcerazione, avvenuta il 17 novembre 1935, ed il suo nome è così inserito, collega fra colleghi, dal 1° gennaio 1941. E’ notorio, infatti – precisa Musio – «che egli, sia pure nei limiti impostigli dalla sua qualità di condannato politico e di ammonito, ha esercitato la professione di procuratore ed ha seguito la pratica di avvocato».
Sono stati gli anni in cui Pintus è stato accolto nello studio legale-commerciale Mario Pino – Antonino Lussu, al civico 39 della via Roma, cui hanno partecipato, per qualche tempo, anche il dottor Borghesan e gli avvocati Sanjust e Bitti. Alle soglie dei quarant’anni ha subito l’umiliazione di essere soltanto un collaboratore, un aggregato – e in ragione di un rapporto personale di amicizia con i titolari – ad uno studio professionale.
Condannato politico
Il sindaco della ricostruzione postbellica di Cagliari – dopo Gavino Dessì Deliperi e prima di Luigi Crespellani – viene da questo vissuto di umiliazione – l’emarginazione professionale dopo la cattività carceraria: anzi, dopo l’arresto – il 18 novembre 1930 – ed il processo – il 27 giugno 1931 –, dopo la condanna a dieci anni di reclusione, dopo la detenzione poi ridotta a cinque anni e di cui sono rimaste testimonianze molto belle, sia scritte – come quella di Francesco Fancello – sia orali – come quella di Renato Mistroni, che con lui convisse in cella per lunghi mesi. Tutte sono state riproposte in pubblicazioni a cura dell’Associazione intitolata a Cesare Pintus.
Il ricordo più bello è forse quello di Francesco Fancello, che è poi colui che fu arrestato prima di Pintus, perché la polizia aveva intercettato la lettera (con la dettagliata mappa delle forze repubblican-sardiste di Giustizia e Libertà in Sardegna) che quest’ultimo gli aveva indirizzato affinché la inoltrasse a Emilio Lussu già esule in Francia. In codice: Girolamo (alias Pintus) a Mariano (alias Fancello) per Carciofo (alias Lussu).
Pintus – “Cesarino” – aveva appena subito una operazione chirurgica nell’ospedaletto interno al penitenziario di Civitavecchia, che entrambi ospitava. Si doveva intervenire per sanare, o ridurre, una grave affezione tubercolare contratta proprio in carcere. Un compagno di pena – un poveraccio che col suo lavoro di infermiere un po’ improvvisato riusciva ad aiutare la famiglia lontana – aveva distrattamente lasciato delle bottiglie d’acqua bollente ai piedi del paziente il quale «ebbe per questo a soffrire delle pene dell’inferno e rimase perennemente debilitato. Ma quando egli seppe che ogni sua protesta avrebbe compromesso il colpevole della negligenza, Cesarino preferì mettere il tutto a tacere piuttosto che sacrificare quel povero diavolo».
«La generosità e la dignità furono i tratti salienti del suo carattere», è la conclusione di Fancello che rievoca l’episodio e traccia questo ritratto all’indomani della scomparsa dell’amico, avvenuta nel sanatorio di Pra Catinat, sulle Alpi, il 31 agosto 1948.
C’è poi la testimonianza di Mistroni. «Sveglia la mattina alle 6 (o, d’inverno, alle 7), veloci eppur attente pulizie del camerone (per il pavimento viene utilizzata segatura bagnata), un po’ di ginnastica per restituire tono ai muscoli altrimenti costretti alla immobilità. E la passeggiata nel corridoio del camerone, che si realizza fra le due corsie di letti, i quali vengono piegati e così ridotti di volume. Un corridoio di dieci metri per tre. Viene poi lo “studio”: che vuol dire lettura individuale o conversari-lezione soprattutto di “collettivo”. Quello che è più addottrinato, che ha letto di più e sa di più, s’esercita in una funzione didattica che gli altri salutano ed attendono, e la stessa fede si alimenta di cultura… Alle undici circa passa il pranzo che è anche cena. Un mestolone di brodaglia con patate o con ceci – pochi e crudi – e, qualche rarissima volta, con accenni di carne, in una gavetta. E una pagnotta non buona ma abbondante. Sempre lo stesso menu. Solamente a Pasqua, Natale e Capodanno e nelle classiche festività del regime – il 21 aprile e il 28 ottobre – la brodaglia viene sostituita dalla pastasciutta.
«Nel dopopranzo la ricreazione. Magari il gioco della dama, con pedine realizzate con la mollica del pane (le pedine nere sono colorate dalla carta bruciata apposta per diventare vernice). Così passano pomeriggio e sera, immutabili. Fino alla campana che suona intorno alle 23 ed avverte che nessuno è più autorizzato a restare in piedi. I letti sono riabbassati e le coperte – la dotazione individuale è di due pezzi – vengono, naturalmente nella cattiva stagione, quando il freddo è più pungente (e nonostante ciò occorre tenere le mezze finestre aperte per il ricambio d’aria!), piegate e ripiegate attorno al corpo, così da farne una specie di protettivo sacco.
«L’ora d’aria è eventuale… Un’ora in tutto, comprensiva cioè anche dell’andata e del ritorno in cella (si tratta di scendere al piano inferiore), epperò utile, come diversivo, a bilanciare i 23/24 di penombra cellulare e di aria stantia. E utile anche per le occasioni che offre il pur muto contatto con quelli del turno di dopo. Sul pavimento infatti si lasciano “distrattamente” cadere minuscole pallottoline di carta lucida – quella del tipo oleato – lavorata alla sputacchiera. In essa i messaggi…
«C’è anche un altro sistema per comunicare fra reclusi in celle diverse. (Ogni reparto si compone di quattro celle: due da 18 posti e due da 20. Ai “politici” il carcere di Civitavecchia ha riservato due reparti e perciò otto celle. Gli “ospiti” della sezione politica sono, pertanto, centocinquanta circa). L’ambasciatore è il gatto. La bestiola ha libero accesso nei vari cameroni e dove va a pranzo – …(il messaggio è infilato nel collanino sottopelo) – non torna la sera. E la cena che consuma nell’altra cella la ripaga facendosi postino dell’eventuale e probabile risposta “stesso mezzo”…».
Sono queste le esperienze forse più formative del sindaco che amministra Cagliari nei giorni della liberazione, anno 1945.
Mazziniano già da adolescente
Lui in carcere c’è entrato a 29 anni, nel pieno delle forze. Ne è uscito cinque anni dopo, con la tubercolosi che lo porterà a prematura scomparsa, nel 1948, all’età di 47 anni.
Di dolori ne aveva conosciuto, in casa. Nella sua adolescenza – gli era morta una sorella studentessa alla Normale intitolata a Eleonora d’Arborea, che aveva sede a Castello –, ma aveva anche goduto il bene dell’amicizia ed il trasporto gradevole degli ideali fin da piccolo. Lo ricorda lui stesso, in uno scritto apparso sul Convegno, il periodico dell’Associazione Amici del Libro di Nicola Valle, nel maggio 1946.
Il suo amico del cuore si chiamava Silvio Mastio, coetaneo che incontrò in prima elementare. «Fino all’età di quindici anni la scuola fu per Silvio e per noi, suoi coetanei, quello che fu per tutti i fanciulli spensierati di quelle generazioni: un’altalena di successi e di amarezze, un succedersi di elogi e di rabbuffi, che si componevano nella gaia serenità pomeridiana delle partite di calcio in Piazza d’Armi e delle nostre prime prove atletiche nella palestra dell’Amsicora.
«L’ingresso nel liceo, in piena guerra europea, segnò la fine della nostra spensieratezza. Quanto avveniva nel mondo era un fatto di sì grande portata storica che anche noi, giovanissimi, fummo presi dalla politica e sentimmo il bisogno di approfondire sui libri le nostre conoscenze scolastiche. Le correnti ideali del nostro primo risorgimento ci apparivano vive ed operanti nella guerra dell’Italia contro gli imperi centrali, che esercitava su di noi un fascino particolare in quanto ci sembrava l’epilogo del dramma che aveva avuto l’inizio un secolo prima.
«Fu così che Silvio ed io diventammo repubblicani. La lettura degli scritti di Mazzini, contenuti nei 4 volumi dell’edizione popolare di casa Sonzogno, ci entusiasmò a tal punto da spingerci a farci divulgatori dell’idea repubblicana fra i nostri compagni di scuola». Da lì verrà, appunto, anche la collaborazione alla stampa repubblicana e la fondazione del Circolo Giovanile Repubblicano di Cagliari.
Di Silvio Mastio negli anni fra il 1919 ed il 1921, quando il fascismo già aveva messo piede anche in città, ricorda – Cesare Pintus –, quella certa volta, una domenica, in cui, dopo due arresti da parte delle guardie regie, «mentre più aspra imperversava la lotta tra i partiti e la polizia infieriva contro gli esponenti dell’antifascismo perquisendone i domicilii, procedendo a fermi arbitrari e minacciando sempre più gravi repressioni», egli «insieme con alcuni altri suoi coraggiosi compagni di fede, indossò la camicia rossa garibaldina e attraversò impavido le vie cittadine suscitando allarme e stupore tra i fascisti che però non osarono torcergli un capello. Naturalmente, fu arrestato l’indomani, e trattenuto in carcere alcuni giorni; ma la sua sortita dimostrativa diede coraggio ai pavidi e servì a rinsaldare le fila dell’antifascismo».
Pintus e Mastio sono l’uno specchio dell’altro, punte avanzate di uno schieramento di giovani arcangeli della democrazia cagliaritana che sacrificheranno la loro età, la libertà personale, la salute e perfino la vita, cadendo, pur in circostanze diverse e fra loro lontane, per dare testimonianza a valori che non tramontano: il primo facendosi rinchiudere in una galera fascista e ammalandosi di tubercolosi, l’altro morendo in un’azione rivoluzionaria, tipicamente garibaldina o pisacaniana, per la libertà del Venezuela.
Pintus e Mastio, il repubblicanesimo giovane, minoritario fino all’esiguità estrema, della Sardegna e di Cagliari. Così conclude, Pintus, il ricordo dell’amico a quindici anni dal suo sacrificio e all’indomani, anche, della conclusione del proprio mandato amministrativo compiuto sotto la divisa del miglior sardismo: «I pretoriani di Gomez hanno bruciato il corpo dell’esule caduto combattendo per la loro stessa libertà; ma dal rogo della “Rinconada”, glorificato dalla nobiltà del sacrificio, sale l’ammonimento mazziniano che gli amici di Silvio e suoi fratelli di fede oggi raccolgono e rivolgono alle muove generazioni italiane. “Il martirio non è sterile mai. Il martirio per un’Idea è la più alta formula che l’Io umano possa raggiungere ad esprimere la propria missione”».
Repubblicanesimo antifascista
A fronte di queste parole torna la grevità delle battute di un certo articolo – anno 1924 – del Giornale di Sardegna, organo dei fasciomori, cioè dei sardisti passati al Partito Nazionale Fascista (Endrich, Tredici, ecc.): «A noi risultava che la Sezione repubblicana di Cagliari che con tanto ardore sorregge la candidatura lussiana e ne contraddistingue il vero contenuto politico, era composta di soli quattro gatti. La Sardegna ci corregge ricordando che i quattro gatti sono oggi ridotti a tre… però siamo in grado di dire, senza tema di smentita, che i tre gatti son ridotti soltanto a due poiché uno di essi, in omaggio al culto degli affetti familiari predicato dal verbo mazziniano, ha passato in buona compagnia di due angeli custodi l’arco della torre di San Pancrazio per godere le fresche aure del turrito Buon Cammino».
E un mese dopo: «Un triumvirato giovanile repubblicano regolarmente costituitosi in comitato-segreto per via della famosa reazione trionfante… ha lanciato un nobile (?) manifesto agli adolescenti del repubblicanesimo italiano. Nel capolavoretto letterario e stiracchiatuccio anzichenò, c’è il conto degli augelletti, il ronzio dei maggiolini, l’alitare delle farfalle, il fiammante sole, la rutilante primavera: c’è il significato di ribellione del primo maggio, la libertà della patria, l’Hermada insanguinata, il sole di giustizia, ecc.».
Sono i giorni, le settimane, i mesi in cui La Voce Repubblicana, che da oltre un anno va pubblicando anche le corrispondenze da Cagliari di Pintus, viene puntualmente sequestrata al suo arrivo alla stazione del capoluogo. Scrive il Solco sardista, il 30 gennaio 1925: «Evidentemente il governo, i cui uomini sono stati sempre svisceratamente monarchici, perseguitano in modo speciale la stampa repubblicana, la quale è ritenuta certamente più pericolosa che la stampa comunista. La Voce è stata soppressa e l’Unità, sia pure con qualche sequestro, continua a uscire trionfalmente. Lenin è sempre più gradito di Mazzini».
Sono pagine della vita cittadina, queste, che l’Amministrazione civica – quella del tempo delle violenze e dei sequestri, ossequiente alla dittatura incipiente cioè, era retta da Vittorio Tredici – dovrebbe incoraggiare i ricercatori a riportare alla conoscenza dei cagliaritani, soprattutto dei ragazzi delle scuole, perché l’investimento in democrazia è sempre fruttuoso.
Le corrispondenze da Cagliari per La Voce Repubblicana degli anni fra 1923 e 1925, a firma di Cesare Pintus 21-24enne, sono poco meno d’una trentina. In uno dei suoi primi – porta la data del 2 novembre 1923 – è la cronaca, ironicamente realistica ed amaramente riflessiva, della grande manifestazione per il primo anniversario della gloriosa marcia su Roma. «… In serata poi, s’è tenuta nel Teatro Civico la commemorazione ufficiale: oratore il giovane avvocato Endrich, ex sardista ed ora membro del Direttorio fascista. Il suo discorso, più che la rievocazione della marcia fascista su Roma, fu il tentativo della giustificazione, o meglio della legittimazione dell’accordo sardo-fascista: ma in ogni modo fu accolto dagli applausi dell’uditorio…
«Attorno all’oratore, nel piccolo palcoscenico, tra le bandiere e le autorità, fascisti vecchi e nuovi si liquefacevano in applausi, mirabile esempio di adattamento… contingentale. I mangia sardisti e i divora repubblicani si confondevano e sublimavano con gli uomini del Fronte Unico, stretti oggi in un fascio per la salvezza della Sardegna e per le rinnovate fortune della patria. E tra il frastuono degli applausi, l’ondeggiare dei gagliardetti, e le mani romanamente tese, parve, ai pochi memori dei giorni non lontani, vedere in alto la figura martoriata di un umile martire, più bella nella disfatta, più nobile nel sacrificio, più santa nella morte: nell’atto di gittare il suo corpo come una sfida suprema a tutte le viltà, a tutte le imposture, di scagliare la sua giovinezza nello sdegno sprezzante del morente sorriso. Così il funerale di Efisio Melis poté sembrare un’apoteosi: non era invece che l’epilogo funesto di una vana rivoluzione».
Sarebbe seguita, pochi mesi dopo (4 marzo 1924), un importante intervista, raccolta da Pintus, a Emilio Lussu, a commento della propria candidatura alle politiche di primavera, con il sostegno anche dei repubblicani: «Voi, agitando alta la fiaccola della grande idea repubblicana nel nome dei vostri Maestri e dei vostri Martiri, combatterete con noi la più bella battaglia per la libertà del popolo italiano». Parola di Lussu, che effettivamente sarà rieletto alla Camera, insieme con Mastino, nella legislatura che si aprirà luttuosa a causa del sequestro e la morte violenta dell’on. Matteotti e passerà poi attraverso la protesta aventiniana delle opposizioni ed il successivo provvedimento della decadenza dei deputati ostili al governo ormai mutatosi in regime di dittatura.
S’è detto. In quanto «repubblicano», come è esplicitamente qualificato dal prefetto Canovai nella “riservata” del 30 novembre 1937 –
Pintus affiancherà in vario modo Lussu alle prese con la crescente persecuzione del fascismo: «… prese parte a tutti i movimenti di piazza, provocati dallo stesso Lussu. Nel dicembre 1926 in seguito ai fatti che provocarono l’arresto dell’On/le Lussu fu diffidato ai sensi dell’articolo 166 legge 6 novembre 1926 n. 1648. Dopo l’arresto del Lussu e l’assegnazione al confino di polizia a Lipari, il Pintus continuò a tenere con lui corrispondenza clandestina ed in seguito a perquisizione domiciliare si rintracciò una lettera del Lussu datata da Lipari 3/7/1928. A Cagliari si associava abitualmente ad oppositori al Regime». Questo ancora si legge nel rapporto prefettizio che aggiunge vari cenni alla successiva vicenda giudiziaria dell’autunno 1930, legata all’azione sovversiva di Giustizia e Libertà.
Va dato merito ad Aldo Borghesi, ricercatore e storico di indubitabile valore, l’aver rintracciato due verbali d’interrogatorio presso le carceri giudiziarie di Cagliari e tre altri documenti (rapporti di PS e/o prefettizi) di singolare importanza da cui emerge nitida nella sua coerenza la figura di Pintus.
Dal 18 novembre 1930 – data dell’arresto – al 17 novembre 1935 – data della scarcerazione – sono ben 1825 i giorni (giorni e notti) che questi trascorre in cattività. Soltanto cinque giorni dopo – sono altri cinque giorni da aggiungere al conto – Pintus giunge in traduzione a Cagliari e qui «sottoposto alla libertà vigilata per tre anni. Dal giorno… non ha dato luogo a rilievi di sorta e conduce vita ritiratissima». Lavora, come s’è detto, nello studio Pino-Lussu.
Sfollato a Dolianova
Per svariati mesi, nel 1943, anche lui – insieme con la madre, rimasta vedova nel 1939 – si aggrega ai flussi degli sfollati, trovando riparo a Dolianova, il capoluogo del Parteolla che nel giro di poche settimane vede più che raddoppiare, allora, la sua popolazione: da 5.000 abitanti ad 11.000.
Di quella esperienza – che sarà ingiustamente bollata, nel 1945, da un giornale locale per contestare, con maliziose allusioni, chiarezza di comportamento del sindaco in carica – Pintus ha lasciato una testimonianza scritta, appunto in chiave di rettifica di quanto pubblicato e non senza aver però prima confermato una sua profonda, e chissà, forse non così ovvia, convinzione: che, cioè, «le persone rivestite di pubbliche cariche debbano possedere, prima di ogni altro requisito, quello della più scrupolosa onestà e debbano dare l’esempio della più alta dirittura morale».
E dunque: «Dal marzo all’ottobre 1943 – scrive –, avendo appreso che la Commissione comunale per gli sfollati, sedente in Dolianova, aveva ricevuto un certo quantitativo di scarpe da distribuire agli sfollati di Cagliari, inoltrai anch’io regolare domanda per averne un paio; ero un povero sfollato, avvocato senza redditi perché il regime fascista mi aveva inibito di esercitare la professione; la mia casa di abitazione in Cagliari era stata reiteratamente visitata dai ladri. Avevo bene il diritto di essere considerato alla stessa stregua degli altri cittadini sfollati. Ebbi, difatti, il paio di scarpe che avevo regolarmente richiesto».
Alla permanenza dolianovese di Pintus fa riferimento anche la testimonianza che ha rilasciato, proprio per un libro tutto dedicato a lui, Fausto Cara, ventenne nel 1943, che da allora si sarebbe posto alla sequela dei capi sardi di Giustizia e Libertà prima, del Partito d’Azione poi.
«Una sera il Segretario del Fascio convocò nella sede una diecina di noi studenti – scrive Cara, dolianovese –. Si trattava, ci spiegò, di organizzare un “controllo volontario annonario” negli esercizi di macelleria. La scarsità della carne esigeva un razionamento di rigore.
«La lista degli studenti era integrata da un equivalente numero di persone sfollate. Uno studente locale accoppiato ad uno sfollato, per ogni esercizio. Furono approntati all’istante dei moduli dattiloscritti, intestati al Fascio, con questo schema: “Il Camerata… è incaricato di eseguire i controlli della vendita di carne nella misura risultante dai documenti annonari esibiti dai consumatori etc.”.
«Noi stessi fummo incaricati di completarli con le generalità dei “nominati” che, per gli sfollati, ricavavamo da un elenco a parte. Allorché il Segretario si accinse alla firma delle nomine, giunto a quella che recava il nome di Cesare Pintus si fermò e disse al compilatore: “Ohibò! Cancella bene la parola ‘Camerata’ e scrivi ‘Avvocato’. E vedendo gli interrogativi dipinti nelle nostre facce soggiunse, con un sorriso saccente: “E’ un antifascista di marca; penserebbe che l’ho fatto per scherno”. Non era fazioso, ed aggiunse: “Comunque, è una persona molto seria”.
«L’accoppiamento dei “controllori annonari” mi assegnò in sorte Cesare Pintus una volta sola. Era il sabato 10 luglio. Presentazioni. Poi con un sorriso bonario e accattivante disse: “Ah, lei è Cara!”. Non poté dire altro, l’esercizio era già pieno di avventori. Nella notte precedente Radio Londra aveva dato l’annuncio degli sbarchi in corso, in Sicilia. Ci eravamo capiti al volo».
In paese, soprattutto nella bella stagione, Pintus si faceva vedere in strada soltanto la sera, a passeggio con qualche amico, primo fra tutti il prof. Puxeddu, di solida fede socialista, e magari il prof. Amicarelli, già esponente del Partito Popolare.
«Nella notte afosa di domenica 25 luglio – scrive ancora Fausto Cara –, ero appena rientrato sudicio di vernici dopo le pennellate di scritte antifasciste sui muri: era l’una di mattina ed il via vai delle persone, eccitate ancora dalla notizia-radio della caduta del governo, era ormai scemato. Affacciandomi alla finestra fui attratto da un folto gruppo di persone che avanzavano nelle tenebre della strada: tenevano tutte, proprio tutte, una sigaretta accesa. Il loro discorrere era sommesso e coperto dallo scalpiccìo,. Individuai il Pintus fra esse. Era, manifestatamente, una simbolica intelligente fiaccolata di saluto alla risorgente libertà.
«Nelle settimane successive la passeggiata di questa singolare accolta di persone diradò di numero, o per meglio dire si scaglionò a distanza di piccoli gruppi. Il governo Badoglio, come è noto, aveva ordinato il divieto di assembramenti di numero superiore a tre persone, nonché la ricostituzione dei partiti politici…».
Giustizia e Libertà, la militanza azionista
Se si sfogliano, già da novembre 1943, le pagine della risorta Unione Sarda sarà frequente imbattersi in brevi trafiletti intitolati al «Partito d’Azione (Giustizia e Libertà)» che danno convocazioni d’iscritti o notizie comunque d’organizzazione. Essi sono firmati da Cesare Pintus come segretario politico provinciale. E in quanto tale – oltre che fondatore della sezione cagliaritana, con sede in via Angioy civico 14, il 12 dicembre del 1943, e di numerose altre dei Campidani cagliaritano ed oristanese, del Sarrabus-Gerrei e di altre zone – egli entra, in rappresentanza appunto della sua parte, nella Concentrazione provinciale antifascista (il cui Comitato tiene le sue riunioni inizialmente presso la redazione dell’Unione Sarda, poi negli uffici della Camera di Commercio, già Consiglio dell’Economia). E sarà in sede proprio di interpartito, quando questo si riunirà ad Oristano (giusto all’indomani del grande convegno di Bari, con
l’intervento di tutte le forze democratiche dell’Italia liberata, vale a dire delle regioni meridionali e delle isole) che pronuncerà quella battuta che più e più volte verrà ripresa come quella che meglio di tutte esprimerà la qualità della sua persona: «… lasciatemi dire che io sono profondamente convinto che se essi (i nostri amici assenti, mai dimenticati, ed oggi più che mai presenti al nostro spirito) fossero qui affermerebbero il principio che la politica senza morale è brigantaggio ed inviterebbero gli uomini di tutti i partiti antifascisti a restare uniti – nella collaborazione o nella opposizione – per la dignità della Sardegna e per l’onore d’Italia».
E’ in costanza della sua segreteria politica che l’ufficio di commissario prefettizio del Comune, già affidato all’avv. Dessì Deliperi (ultimo sindaco democratico, prima della sua destituzione da parte del governo e della nomina del rag. Tredici a capo del Municipio), si evolve in sindacatura vera e propria a guida di un esecutivo espressione delle forze politiche sul campo.
I contrasti emergenti poi fra il sindaco Dessì e l’interpartito provocheranno, nell’estate 1944, una crisi amministrativa che sarà così significativamente commentata da Pintus in una dichiarazione passata alla stampa e pubblicata il 24 agosto: «L’avv. Dessy Deliperi rivendica a sé il merito della rinascita di Cagliari. Molto egli ha fatto, insieme con gli instancabili vice commissari Zoccheddu e Cocco Ortu, e nessun galantuomo può non riconoscergli la sua parte di merito. Ma egli non è la sola persona che sia sulla breccia dal mese di novembre 1943. Ci sono molte, molte altre persone venute a Cagliari anche prima di lui e che hanno vissuto fra disagi di ogni genere una vita da zingari, mangiando male e dormendo peggio, in un ambiente di corruzione e di rapina. Se Cagliari sta risorgendo, lentamente ma con ritmo sicuro e gagliardo, non lo si deve a questa o quella Autorità, né a questo o quell’Ufficio, ma al potente richiamo che dalle stesse macerie inanimate si è levato verso i figli dispersi per l’Isola, al richiamo della madre comune».
Sindaco di Cagliari
La crisi troverà soluzione nell’autunno. Il 9 ottobre il prefetto di Cagliari nomina proprio lui, l’avv. Cesare Pintus, unanimemente designato dalle forze dell’interpartito, all’ufficio di sindaco incaricandolo della formazione di una giunta comunale capace di proseguire l’opera di ricostruzione morale e materiale della città martoriata.
Il 21 ottobre, alle 18 circa, nella sala del Consiglio Provinciale, al Viceregio, presenti le maggiori autorità civili e militari, compreso il col. Pennycuik, capo della Commissione alleata, il prefetto insedia la nuova giunta, dando anche lettura di un messaggio dell’Alto Commissario Pinna.
Questa la risposta di Pintus: «Cagliari ha oggi bisogno del soccorso sollecito ed efficiente dei poteri pubblici e delle cure affettuose e oneste degli uomini che il nuovo clima di libertà e di democrazia ha espresso nel Paese» e se si ha coscienza che sindaco ed assessori non sono eletti dal popolo, pure «la consapevolezza di questa anomala situazione di fatto sarà per la nuova Amministrazione comunale l’incentivo migliore per dedicare ogni sua attività al pubblico bene, collaborando con le autorità e stroncando ogni velleità reazionaria».
E più oltre: «I problemi da affrontare sono imponenti, poiché investono tutta la vita cittadina ed imponenti sono, del pari, le difficoltà: gli uni e le altre potranno essere superate soltanto con la collaborazione attiva e continua di tutte le autorità».
Riconoscenza merita – aggiunge – la Commissione alleata (sono sei alti ufficiali cui nel settembre dell’anno successivo la giunta delibererà il conferimento della cittadinanza onoraria di Cagliari) per l’aiuto «fornito generosamente alle nostre popolazioni nel campo dell’alimentazione», settore che porta un che di drammaticamente emergenziale alla attenzione dell’esecutivo civico: «In materia di alimentazione la giunta si propone di intervenire con la massima energia contro il mercato nero, affinché i concittadini e particolarmente gli operai e gli impiegati possano acquistare a prezzi equi i generi di prima necessità; e a tal fine è ancora necessario che le autorità forniscano i mezzi di trasporto e vengano eliminate le barriere che ostacolano i rapporti fra le province. Del pari sarà studiato il problema della ricostruzione edilizia e il problema del ritorno degli sfollati».
Non sono soltanto parole. Ma una parola è chiave dell’intero progetto: «collaborazione». Dice Pintus: «unione di tutte le forze e di tutte le volontà».
La giunta comprende dodici assessori: vice sindaco con competenze al Contenzioso, Demanio aree, Acquisti e Concessioni è Luigi Crespellani; Antonio Carcangiu è assessore ai Lavori pubblici, Ricostruzione e Piano regolatore; Giuseppe Manca all’Acquedotto, Strade ed Officine; Pietro Leo all’Economato, Assistenza e Beneficenza, Istituti pii e Culto; Giuseppe Macciotta all’Igiene e Sanità pubblica; Salvatore Fois al Mercato, Approvvigionamento e Annona (d’intesa con il sindaco); Sebastiano Dessanay all’Istruzione pubblica, Biblioteche e Musei; Giuseppe Borghero al Personale scolastico, Vigili urbani (d’intesa con l’assessore Macciotta); Filiberto Farci alle Finanze e Tasse; Antonino Lussu alla Ragioneria e Contabilità; Antonio Picciau alle Frazioni; Enrico Nonnoi ai Vigili Urbani, Cimiteri e Giardini e, d’intesa con l’assessore Picciau, Frazioni. Al sindaco sono anche attribuite le competenze al Personale, Affari generali e Rappresentanza.
La confluenza degli azionisti nel Partito Sardo
Il 13 ottobre L’Unione Sarda ha intanto pubblicato il messaggio che Lussu ha inviato al nuovo sindaco, fra i suoi più stretti e fidati amici politici ormai da una vita.
Qui va ricordato che da giusto un mese Pintus è confluito, con gli altri azionisti della Sardegna, nelle fila del Partito Sardo d’Azione, secondo un patto politico stretto fra le due formazioni a Macomer appunto a metà settembre, in base al quale il Partito d’Azione chiude le sue sezioni in Sardegna, rifluendo nel PSd’A, e quest’ultimo riconosce nel partito della spada fiammeggiante il suo referente nazionale e internazionale, entrando anche nelle sue rappresentanze presso gli organi istituzionali (e governo – con Mastino sottosegretario al Tesoro in due ministeri, quelli Parri e primo De Gasperi – e Consulta Nazionale – con Puggioni, nel 1945).
E’ pure significativo rammentare una frase di Pintus contenuta in una lettera, forse dell’agosto-settembre 1944, indirizzata proprio a Lussu, che perorava quella confluenza non da tutti gradita: «Nessuno di noi (né io, né Antonino Lussu, né Gonario Pinna, né molti compagni delle tre province) pronuncerà mai una parola contro l’unità dello stato italiano, né mai farà propaganda di separatismo». Parole che fanno palese riferimento alle pulsioni appunto separatiste presenti in una certa area del Partito.
Scrive dunque Emilio Lussu: «Carissimo, al sindaco della nostra città io invio il più caloroso saluto. A te ed ai tuoi collaboratori l’augurio di una attività costruttiva e benefica.
«Il compito è immane, ma un’Amministrazione composta da uomini come voi è garanzia di lavoro e di rettitudine.
«Cagliari, con questo meraviglioso fermento di rinascita in mezzo a tante rovine, ci dà l’annunzio di quella che sarà la città di domani: la grande capitale dell’isola e uno dei più splendenti centri di civiltà nel Mediterraneo.
«A voi e agli amministratori che vi hanno preceduto l’avvenire cittadino dovrà gratitudine, come ai suoi più grandi pionieri.
«Con profonda amicizia, tuo Emilio Lussu».
Iniziative dell’Amministrazione
Fra le prime cerimonie pubbliche cui il nuovo sindaco partecipa è, nell’occasione del 2 novembre, l’omaggio reso ai cagliaritani illustri – cagliaritani di nascita o d’elezione – sepolti al Monumentale: Ottone Bacaredda, Francesco Cocco Ortu, Giovanni Spano, Giovanni Marghinotti, Mario De Candia, Pietro Martini, ecc.
Il 6 dello stesso mese la giunta vota all’unanimità un documento di auspicio del riconoscimento del capoluogo come “città disagiatissima”: «constatato che la città di Cagliari è stata una delle città più gravemente colpite se non anche la più gravemente dalla guerra, ha fatto voti perché essa sia dichiarata “città disagiatissima”, ai fini dell’applicazione delle varie provvidenze economiche concesse dal governo alle città colpite duramente dalla guerra, così come è stata dichiarata la città di Palermo. Ha fatto voti perché al Comune di Cagliari siano accordate le eccezionali provvidenze finanziarie testé concesse dal Governo al Comune di Palermo».
Le delibere adottate dall’esecutivo nell’arco dell’anno e mezzo della sua attività sono, ovviamente, un numero amplissimo. Se ne potrebbero richiamare alcune magari soltanto per il loro valore eminentemente simbolico, come lo sbattezzamento della piazza Generale Sanna – già eroico combattente della prima guerra mondiale ma poi presidente del tremendo Tribunale speciale fascista – e la contestuale intitolazione ad Antonio Gramsci.
Un cenno merita il ritorno, il 28 agosto 1945, della maggior parte degli alcuni uffici nel palazzo municipale di via Roma, già duramente colpito dai bombardamenti del 1943. Ammezzati, primo piano, secondo piano, settore di destra, settore di sinistra, ovunque tornano gli impiegati al servizio della città: gli uffici Anagrafe e Statistica, Stato civile e Leva, Affari militari ed Elettorato, Tecnico e Riscossione acqua, Pubblicità e Sfollati, Spedalità e Lavoro, Annona ed Economato, Archivio e Protocollo, Alloggi e Patrimonio, Approvvigionamento e Tasse, Ragioneria e Acquedotto… Le stanze del sindaco e del suo vice, con la Segreteria generale, sono al primo piano…
Il 25 settembre la giunta discute la relazione che il sindaco ha preparato per informare il Comitato di liberazione ed i partiti politici, l’autorità prefettizia e, per il tramite della stampa, l’opinione pubblica, sulla situazione della città e sulle prospettive del suo ritorno alla normalità.
Il 29 aprile, intanto, L’Unione Sarda ha pubblicato alcune dichiarazioni del sindaco Pintus sugli interventi in corso o programmati dall’Amministrazione per la soluzione degli infiniti problemi che investono popolazione e territorio urbano.
Si tratta di una lunga intervista concessa al giornale di Terrapieno, che il 12 ottobre successivo darà grande risalto anche alla relazione tenuta dallo stesso sindaco, in termini di aggiornamento del programma amministrativo e di consuntivo di quanto effettuato.
Flash back: Pintus redattore capo all’Unione Sarda (1943-44)
Ma questa attenzione del quotidiano alle attività della giunta in carica, doverosa verso il lavoro di ogni Amministrazione, deve trovare anche una spiegazione nel rapporto speciale fra Pintus e la testata a controllo CLN.
Controllo o gestione CLN significa che, dopo il sequestro dello stabilimento tipografico alla società dei Sorcinelli, integralmente compromessasi con gli interessi del regime, erano gli esponenti dei partiti dell’eptarchia antifascista a coprire i ruoli di direzione e quelli redazionali, di materiale fattura del giornale, oltre di indirizzo editoriale.
V’è al riguardo una testimonianza interessantissima di Giuseppe Musio (colui stesso che, commissario del Sindacato avvocati, riabiliterà Pintus) – di Musio, social-riformista, divenuto nella primavera 1944 direttore del giornale, dopo le dimissioni di Jago Siotto per l’offesa della censura subita da parte della Commissione-stampa degli alleati per un certo articolo di commento ai “ni” emersi, verso i Savoia, al convegno antifascista di Bari.
Musio ne scrive in un numero del Convegno dedicato ai settant’anni del quotidiano: «Vi ricordate, tipografi e redattori dell’Unione del 1944, quando si lavorava, in quell’inverno rigidissimo, con i piedi nell’acqua, senza forbici né inchiostro, senza carte geografiche che potessero consentire di seguire le vicende della guerra divampante in tutte le parti del mondo…; e per giunta sotto una tracotante e mortificante censura franco-inglese che ci spezzava i nervi nel pensiero di un’Italia in ginocchio… e non si dormiva perché non avevamo né letti, né coperte; e per mangiare a sufficienza si attendeva che rientrasse qualche amico dalla campagna col consueto viatico settimanale… Mi ricordo il povero caro mazziniano Cesarino Pintus: aveva perduto tutto, non gli era rimasto che un abito e, sotto, una maglia da bagno!»
Dal 16 novembre 1943 (“La nostra via”) al 23 giugno 1944 (“Saluto a Emilio Lussu”) sono otto gli articoli firmati o siglati di Pintus, in prima pagina, sul quotidiano: articoli politici, rigorosamente antifascisti e di esplicito richiamo mazziniano, attenti alle contingenze e sviluppi della guerra in corso, ma anche ad altre situazioni, non esclusa la festa dei lavoratori e, infine, di omaggio lussiano. (Quasi altrettanti sono gli articoli passati alla redazione del Solco sardista a direzione prima Luigi Battista Puggioni poi Giovanni Battista Melis, questi tra novembre 1945 ed ottobre 1946: sono scritti prevalentemente volti a dare, in materia istituzionale ed economica, un contributo al programma politico del PSd’A).
Dei problemi di Cagliari fra 1944 e 1946
Ma quale è l’effettiva condizione materiale di Cagliari, quale il suo spirito pubblico, quando Pintus ne assume la magistratura civica? Quali le linee direttrici del suo lavoro amministrativo?
L’elenco dei settori verso i quali sono sollecitate le sue cure non ha fine, perché nel capoluogo e nelle sue frazioni si deve ripartire, dopo le devastazioni belliche, quasi da zero: dal ripristino di decenti livelli nell’igiene pubblica alla ricostruzione edilizia, al rilancio di tutti i servizi comunali (acquedotto, nettezza urbana, viabilità, annona, vigilanza). Ma c’è anche da pensare, evidentemente, all’implementazione delle risorse di bilancio, senza cui nulla sarebbe possibile fare, all’inquadramento dei dipendenti municipali, impiegati e salariati (e quando ristrettezze finanziarie imporranno il licenziamento degli avventizi si cercherà però di riassumerli subito, benché ancora in via precaria, all’ufficio elettorale perché… finanziato dal ministero dell’Interno), ecc. Intanto è emergenza quotidiana quella di dare un tetto a chi, tornando in città, ha trovato la sua casa distrutta o gravemente lesionata.
Nella sua lunga intervista all’ “Unione Sarda” (sono passati soltanto quattro giorni dalla liberazione che, almeno psicologicamente, può significare anche per l’Isola, pur preservata dalla guerra guerreggiata, l’uscita dalla precarietà bellica), Pintus fa il punto della situazione a sei mesi ormai dalla sua assunzione della carica, non senza polemicamente giustificare talune lentezze con gli intralci burocratici frapposti dalla Giunta Provinciale Amministrativa, organo tutorio dei comuni, che invece di porre in prima linea i bisogni reali della gente fatica ad affrancarsi da un giuridicismo cavilloso e ritardante la decorrenza delle delibere. Questo atteggiamento in particolare ha colpito, secondo il sindaco, la sorte dell’ente comunale di approvvigionamento, il cui mancato decollo ha finito per impedire l’adeguato rifornimento del mercato cittadino dei generi di prima necessità e, di conseguenza, il calmieramento dei prezzi al consumo. Proprio contestando i vincoli interpretativi posti dalla GPA ai poteri di bilancio dell’esecutivo, così egli si esprime, rivelando la sua forte formazione autonomistica: «Io sono del parere che per limitarsi a fare dell’ordinaria amministrazione, per firmare mandati di pagamento o affissi murali, per vidimare certificati o verbali di contravvenzione, per rappresentare il Comune nelle cerimonie sacre o profane, non occorrerebbe costituire una giunta, ma sarebbe più che sufficiente la nomina di un commissario nella persona di un qualunque funzionario della R. Prefettura!».
A due anni dai rovinosi bombardamenti degli alleati (17, 26 e 28 febbraio e 13 maggio 1943), e nonostante gli sforzi realizzativi degli amministratori, la città si presenta ancora in ginocchio: l’Ufficio tecnico comunale ha rilevato che, su circa 7.000 edifici costituenti l’abitato cittadino, quelli completamente distrutti sono stati 862, quelli lesionati più o meno gravemente ulteriori 1.647, per un complesso di circa 4.000 appartamenti. Nel biennio, peraltro, grazie all’impegno profuso in particolare, dal provveditorato alle Opere pubbliche e dall’ufficio del Genio civile, e nonostante la deficienza dei materiali edilizi, circa 2.000 appartamenti sono stati rimessi in efficienza e riutilizzati. Così è stato per la viabilità interna.
In un anno, fra 1944 e 1945, sono tornati in città oltre trentamila sfollati. Altri cinquemila attendono, per rientrare, di poter per certo contare su un alloggio. L’emergenza alloggiativa è la priorità delle priorità. Ad essa concorre, con quella prodotta dalle distruzioni belliche, anche quella “strutturale” che la città conosce da secoli e che prende il triste nome di “sottani”. Il piano predisposto dalla giunta tende ora a dare risposta ad entrambe le impellenze: «Profittare della tragedia che si era abbattuta sulla nostra città per risolvere in modo integrale e definitivo il problema degli alloggi: questo è stato ed è – dice Pintus – il desiderio dell’Amministrazione Comunale; risalire dal buio alla luce, dare ai bimbi dei nostri lavoratori l’aria ed il sole: questo è stato ed è il nostro sforzo quotidiano».
Il piano di massima prevede la definitiva cessione al Comune e l’adattamento ad alloggi familiari (fino a circa 800) delle due caserme funzionali di San Bartolomeo. Sarebbe anche il primo passo per espandere l’urbanizzazione lungo la direttrice Calamosca-Poetto, zone cioè ancora ampiamente periferiche e disabitate. Ma non è facile che il ministero della Guerra si privi dei suoi presidi. Più propenso, invece, esso sembra a cedere qualche stabile sul viale Buoncammino, ovviamente lesionato dagli spezzonamenti, oltre ai locali dell’ex distretto militare, nell’area dell’Arsenale, e ad ulteriori edifici sia ad Is Mirrionis (da dove trasmette Radio Sardegna) che nel compendio viale Diaz/viale Bonaria. Se ne ricaverebbero però soltanto 400 appartamenti.
Per molti mesi la giunta Pintus si trova al centro di complesse trattative con le diverse amministrazioni, ad iniziare proprio da quelle militari, che soltanto dopo molti indugi (e le pressioni degli esponenti “romani” con i quali il sindaco ha un forte rapporto umano oltre che politico: dai ministri Siglienti e Lussu al sottosegretario ai “danni di guerra” Mastino) si decidono a “prestare” per tre anni i maggiori stabilimenti di San Bartolomeo. Al riattamento provvederà il ministero dei Lavori pubblici, d’intesa con l’ente locale.
Sul fronte più interno, il Comune deve inoltre fronteggiare la spinta, non lieve, di privati che vorrebbero, con poco controllo ed in contrasto con il piano urbanistico approvato nel 1941 ma rimasto inattuato per il “disturbo” bellico, metter su un cantiere. Va ricordato, al riguardo, che il decreto del 19 aprile 1945 del generale Pinna, Alto Commissario della Sardegna, ripetutamente sollecitato da Pintus, interviene a stabilire il divieto di lavori ricostruzione o riparazioni di edifici distrutti o danneggiati per causa bellica «senza averne ottenuto dal sindaco speciale autorizzazione in relazione alla concordanza dei progetti con il piano regolatore della città».
Sul piano della protezione sanitaria, la giunta procede alla graduale riapertura dei suoi ambulatori ed all’assistenza ospedaliera, col pagamento delle rette per i ricoveri dei bisognosi e, fra essi, del crescente numero di soggetti affetti da malattie infettive, in particolare da forme tubercolari bacillifere (spesso combinate a situazioni di estrema indigenza). Ha altresì avviato una profilassi antipestosa, fornendosi anche di cospicue riserve di sieri e vaccini, nonché impostato una vasta deratizzazione, da compiersi unitamente allo sgombero delle macerie, soprattutto dai quartieri a maggiore densità di popolazione. Ed intanto procede l’attuazione di un piano di verifica dell’igiene scolastica, di disinfezione di tutti i luoghi pubblici.
Nei primi del 1945 viene dal governo Bonomi la promessa formale di finanziare la costruzione della diga di sbarramento di Campu Omu, con le relative opere per di adduzione sino ai laghi di Corongiu: «con l’integrazione della derivazione di Campu Omu, – sostiene Pintus in una relazione svolta in prefettura, alla presenza del comitato provinciale di Liberazione e dei rappresentanti dei partiti, nell’anniversario della entrata nei poteri della sua giunta – l’acquedotto sarà messo in grado di erogare duecento litri giornalieri per abitante, calcolando la popolazione in 150mila ed assicurando pari trattamento a quelli delle frazioni».
Tra le iniziative sociali dell’anno 1945 va segnalata la colonia marina allestita per i bambini, d’intesa con l’Opera maternità ed infanzia, la Provincia e gli Ospedali riuniti: sono oltre 1.300 i minori che hanno goduto del servizio, «accompagnato da una vigilata assistenza sanitaria ed alimentare, che hanno compiuto veramente il miracolo di far rifiorire bimbi denutriti e malati».
E’ stato altresì riorganizzato il servizio dei vigili urbani, e subito dopo varata la disciplina dei civici mercati, si sono riportati alle sedi originali gli uffici che avevano dovuto migrare, ecc. Non v’è settore della vita associata che sia stato, né avrebbe potuto esserlo, trascurato. Il che non vuol certo dire che tutti gli obiettivi siano stati raggiunti o che le concrete scelte amministrative si siano rivelate giuste. Quello che importa soprattutto rilevare è però la credibilità personale del ceto politico chiamato, a Cagliari, a guidare la cosa pubblica.
A conclusione della relazione che – giusto ad un anno dal suo insediamento, ed a mo’ di nuovo consuntivo – tiene, in Prefettura, davanti al Comitato di liberazione, agli esponenti dei partiti ed alla stampa, Pintus dichiara: «Ci è stato rimproverato, da più parti, il silenzio nel quale la Giunta ha svolto la propria opera, e che ha determinato in taluni ambienti cittadini l’impressione che l’Amministrazione da me presieduta abbia fatto nell’interesse del Comune meno di quanto la cittadinanza si attendesse. Noi accettiamo serenamente la critica e riconosciamo che i nostri contatti con la stampa e col pubblico non sono stati così frequenti come noi stessi avremmo desiderato. Ma non è colpa nostra: l’assillo del turbinoso quotidiano lavoro non ci ha lasciato il tempo per dedicarci a pubbliche manifestazioni verbali, ed abbiamo preferito lavorare in silenzio. Ma ogni volta che critiche serie, appunti fondati ci sono stati mossi sulla stampa abbiamo cercato di chiarire e di precisare. Voi giudicherete se abbiamo assolto al nostro compito, s abbiamo fatto intieramente il nostro dovere».
L’impegno politico dopo l’abbandono del Municipio
L’esperienza amministrativa di Cesare Pintus finisce con le elezioni del 17 marzo 1946 che consacrano il successo delle formazioni moderate (DC, liberali e qualunquisti), assegnando un ruolo gregario ai partiti della sinistra. Solo che comunisti e socialisti – presentatisi uniti alla competizione – accettano egualmente di entrare nella nuova giunta (capeggiata da Crespellani), mentre il Partito Sardo d’Azione – del quale Pintus è portavoce, e di cui è stato il secondo più votato, dopo il capolista Lussu (al momento deputato costituente) – preferisce una collocazione più defilata e critica verso la nuova maggioranza, dando l’astensione nel voto di fiducia.
L’insediamento del Consiglio comunale avviene martedì 9 aprile. Dichiara Pintus: «Formatasi una notevole maggioranza con l’accordo dei democratici cristiani e dei social-comunisti, creare dei gruppi fiancheggiatori, mentre non darebbe maggior sicurezza all’Amministrazione, determinerebbe una evidente confusione fra maggioranza e minoranza che, per ovvie ragioni, è opportuno evitare.
«La nostra astensione non significa, naturalmente, presa di posizione contro i nuovi amministratori. Siamo compenetrati delle gravi responsabilità che la nuova Amministrazione dovrà assumersi; conosciamo i complicati problemi che dovranno essere risolti. Siamo convinti delle difficoltà che sarà necessario superare. E pertanto lealmente offriamo la nostra collaborazione nella forma che riteniamo la più opportuna: un controllo benevolo ed una onesta critica costruttrice.
«Dal contrasto delle idee i problemi verranno approfonditi, gli studi di essi saranno più completi, le soluzioni non potranno che essere rispondenti alle aspettative legittime dei nostri concittadini.
« In questa nostra attività terremo esclusivamente presenti gli interessi della città e dei suoi abitanti, al di sopra delle nostre divergenze politiche, perché pensiamo che solo dall’unione di tutti i cittadini Cagliari possa sperare la sua resurrezione morale e materiale».
La presenza di Pintus sui banchi del Consiglio non dura che pochi mesi, per il riacutizzarsi della malattia polmonare che lo obbliga a successivi e prolungati ricoveri prima al Forlanini, nella capitale, poi a Fenestrelle/Pra Catinat, sulle Alpi. Tuttavia, nonostante i malesseri, contrassegna gli ultimi mesi di frequentazione dell’Aula con interventi critici, evidentemente mirati all’interesse civico.
L’ultimo suo discorso è forse quello del 23 settembre 1946, riportato dal Solco sardista con un titolo palesemente polemico nei confronti della Segreteria generale del palazzo di via Roma: “Il regno dei Padri Eterni del Municipio è tramontato”.
Riassumerne i termini è difficile per la varietà degli argomenti trattati – dal rapporto istituzionale fra Consiglio e giunta all’organizzazione degli uffici comunali, dai programmi di lavori pubblici (costruzione di edifici di culto compresa) al problema, che tanto l’ha preso anche nei diciotto mesi di sua sindacatura, dei sottani e – testuale – «degli agglomerati umani de Is Mirrionis e del Lazzaretto». Dice a tal proposito: «Si trattava, in sostanza, di far precedere il lavoro delle costruzioni di nuove case comunali da un esame approfondito della situazione igienica, sanitaria e morale di coloro che sono costretti a vivere in queste miserabili stamberghe, e disporre le misure come dovranno essere adottate per impedire ai proprietari dei sottani di adibirli di nuovo ad uso di abitazione. Ma questo non è stato fatto, né le assicurazioni fornite dall’assessore ing. Carcangiu per la prossima costruzione delle 300 case minime mi sembrano tali da risolvere il problema. Praticamente avremo molti nuovi appartamenti per le classi medie, ma avremo ancora molte famiglie disgraziate costrette a vivere nei sottani, a Is Mirrionis, nel Lazaretto».
Anche di finanziamenti per la costruzione di nuove chiese – che non ritiene urgente – e di opere di assistenza sociale a matrice religiosa, parla Pintus. Dice al riguardo: «Se io fossi stato, come il prof. Macciotta, assessore socialista ed esponente della Lista del Popolo, avrei completato l’affermazione di principio sul rispetto della religione con quest’altra affermazione, altrettanto recisa e categorica: “Le chiese le faremo quando potremo, ma non prima che sia assicurato un tetto ed un focolare a tutti gli infelici nostri fratelli che vivono ancora nei sottani, nelle grotte, nel Lazzaretto, una esistenza che costituisce la vergogna più turpe della nostra città!”».
Nella ricognizione polemica entra anche il Buon Pastore, la cui Opera è gratificata di un finanziamento speciale di 27 milioni, senza che sia chiarito lo spazio di controllo da parte dell’Amministrazione. Dice Pintus: «In materia di assistenza il Comune ha il dovere, prima di tutto, di creare e migliorare istituzioni sue proprie: parallelamente quello di sussidiare – come ha sempre fatto nei limiti delle sue possibilità – gli istituti di beneficenza che svolgono la loro attività nell’ambito comunale. Il “Buon Pastore” è un istituto benemerito, ma va aiutato sullo stesso piano di tutti gli altri istituti cittadini, altrettanto benemeriti… Le dichiarazioni del Sindaco al riguardo non ci hanno perfettamente convinto. Ma i consiglieri sardisti non hanno negato il loro voto favorevole al progetto proposto dalla Giunta, con la riserva implicita di riaprire il dibattito in sede di esecuzione». E sono parole che assolvono da una qualsiasi accusa di anticlericalismo fuori tempo e misura.
Due candidature: alla Costituente, alla Camera
Tre mesi dopo il passaggio della guida del Comune all’avv. Crespellani, egli accoglie la richiesta rivoltagli dal Partito Sardo di candidarsi alle elezioni per l’Assemblea Costituente. Non ha certo velleità di vittoria. Sono 1.563 i consensi al suo nome nella lista dei Quattro Mori che vede l’elezione dei soli Lussu e Mastino.
Ripeterà l’esperienza, sugli stessi presupposti e le stesse previsioni, alle politiche dell’aprile 1948, quando le preferenze al suo nome saranno 1.865. Tutti voti di stima dell’opinione e della militanza. Non potrà fare un giorno di campagna elettorale. Da un anno è ricoverato per i suoi gravi problemi di salute. Il suo nome echeggia però quasi in ogni assemblea di sardisti. Così all’VIII congresso del Partito, celebrato a Cagliari nella primavera 1947, così sarà al IX, quello famoso della Manifattura Tabacchi, che si concluderà con la scissione dell’ala sinistra del PSd’A e la formazione del Partito Sardo d’Azione socialista.
Dall’ospedale farà pervenire la sua adesione morale al nuovo partito di Emilio Lussu, al partito che nel suo simbolo reca la bandiera dei Quattro Mori con bordi rossi, invece che neri, e nastro tricolore.
Il riacutizzarsi della malattia, i ricoveri
La morte della madre, nel 1947, lo priva di un sostegno per lui ancora necessario. Non avendo egli più famiglia, sarà accompagnato e soccorso da amici.
La corrispondenza che intrattiene con l’avv. Pino ed il fraterno amico Antonino Lussu, che fu anche suo collaboratore nella giunta municipale dei 18 mesi, costituisce, al di là di ogni retorica, un monumento al galantomismo di un grande cagliaritano interamente offertosi alla causa democratica.
«Puntualissimamente ho avuto il tuo vaglia telegrafico: di 20.000 lire, anziché 10.000 come ti avevo richiesto. Sono veramente mortificato per l’inopportunità della mia richiesta…», scrive all’antico compagno di lotte per la libertà e l’autonomia regionale. E’ una riga che vale un epitaffio, per un mazziniano “che ci credeva”.
La morte e il ritorno in città
La morte giunge improvvisa e, per l’illusione di un miglioramento destatasi fra i medici in occasione di una delle ultime visite di controllo, imprevista.
La stampa locale e quella politica nazionale ospitano numerosi articoli di commemorazione. Sulla Nuova Sardegna lo ricorda Michele Saba: «La vecchia mamma lo aveva potuto riabbracciare nella casa deserta per altri lutti, quando Cesarino era ritornato fra i carabinieri dopo avere scontato la devozione alle sue idee; il padre, vecchissimo, aveva resistito ancora qualche anno. Nessun altro congiunto piangerà, cogli amici, la scomparsa di Cesarino al quale va l’omaggio, il rimpianto affettuoso e memore di un vecchio immutato amico».
Sono state pubblicate, negli atti di un certo convegno svoltosi tempo fa all’università di Sassari, le lettere che si scambiarono, nei lontani anni ’20, tre giovani repubblicani sardi, ciascuno dei quali ha pagato, a suo modo, il prezzo della testimonianza richiesta ai discepoli di Mazzini nelle tristi contingenze del dominio monarchico e fascista: Michele Saba il sassarese, Gonario Pinna il nuorese, e Cesare Pintus il cagliaritano.
In forme certamente diverse, in un contesto storico evidentemente mutato, abbiamo comunque bisogno, noi tutti, ancora oggi, di testimoni politici della stessa forza etica.