Rosabianca Rombi, ovvero la poesia come missione fra le idealità mazziniane, di Gianfranco Murtas
Un anno fa scompariva Rosabianca Cadeddu Rombi, già dirigente nazionale dell’ENDAS e per lungo tempo organizzatrice di cultura, fra scuola, teatro e studio biblico (con don Ettore Cannavera e don Mario Cugusi).
Domani, alle ore 17, alla Collina di Serdiana, gli amici si riuniranno per ricordarne la testimonianza di vita, la finezza morale e l’impegno politico.
Gianfranco Murtas, che ne onorò la memoria con un articolo pubblicato il 10 marzo 2015 su Edere Repubblicane, ripreso dal nostro sito il 12 successivo, ha affidato il seguente testo a Donatella Lissia, per molti anni collaboratrice di Rosabianca nell’allestimento degli incontri poetici all’insegna di “Fili e poesia”.
All’appello non manchi, Rosabianca
M’immagino di dire di Rosabianca avendola presente, nel mezzo di chi ascolta. Interessata a sentire – senza prevedibili sorprese però – com’è stata percepita da cuore e mente di chi ne ha coltivato l’affettuosa amicizia per lunghi quarant’anni. Saprebbe per certo, Rosabianca, della sincerità piena delle parole. Perché con le parole – tante parole vis-à-vis, al telefono (telefonate chilometriche) e per email (negli ultimi anni) – ci siamo scambiati anche altro: le lacrime, nella confidenza reciproca, in momenti difficili ora dell’uno ora dell’altra. Lacrime bagnate o asciutte, sempre discrete, pudìche, ma reali, vere, di uno sfogo che era purificazione, soprattutto purificazione. E a causarle erano per il più situazione personali ma anche, nella comune fatica del fare pubblico, i freni frustranti che lo scarto di sensibilità con i nostri più prossimi ci presentava: correvamo a cento, con i progetti della mente e le opere, pensando che tutti fossero convinti, come ci dicevano, della bontà di idee, premesse ed obiettivi. Poi, tanto spesso, la solitudine. Con eccezioni, naturalmente. Soprattutto per lei che le meritava tutte (Donatella Lissia in testa).
Va detto anche oggi come un anno fa: abbiamo avuto con noi una eccellenza. Eccellenza morale ed eccellenza civile, nel servizio della scuola prima – allieva e poi docente anche della scuola fondata da monsignor Antonio Tedde, poi nell’istruzione pubblica –, nella militanza entusiasta della poesia poi. A cucire i tempi dell’età giovane e dell’età matura una signorile e fedele presenza, insieme con Marco, nella politica, nella minoranza estrema di chi, come infinite volte ha sintetizzato il presidente Ciampi, sapeva unire – ma con un superiore sentire e “diligere” (proprio nel senso carducciano) – il risorgimento nazionale alla resistenza antifascista ed alla costituzione repubblicana.
Il gusto di Rosabianca era per una specie di ecumenismo delle intelligenze. Delle intelligenze rigogliose ed attive come i capitelli corinzi, ma – a nobilitarli di più e meglio – capitelli supportati da colonne semplici, le più semplici che si fosse mai dato d’incontrare. E’ un’immagine, questa, che forse mi è suggerita anche dalla figura elegante e bella di Rosabianca stessa, che a tutto partecipava con una femminilità scultorea, naturale e consapevole, perciò arricchente la misura d’ogni contesto.
I capitelli erano i luoghi e i modi della relazione sociale, dell’attività pubblica, dell’offerta a un bene da condividere; le colonne erano i luoghi e i modi della formazione personale nella famiglia, dello studio, dello sguardo cognitivo, delle prime sperimentazioni che lasciano l’impronta per sempre. E tutto era risultato di educazione: del “portar fuori” il patrimonio più intimo per affinarlo e, dopo, regalarlo. Un risultato che porgeva all’altro – così nella scuola come in teatro, nell’associazionismo, nel suo amato partito politico – sempre con il linguaggio della gentilezza. Anche in televisione, dove la portai ora è già un quarto di secolo, e in casa massonica per celebrare il nome caro di Fabio Maria Crivelli, e in municipio per onorare don Mario Cugusi e le sue fatiche trentennali alla Marina.
L’immagine scultorea della colonna e del capitello, evocatrice l’una delle matrici assimilate e l’altro della sua creatività – riflesso forse, ho detto, della sua stessa figura fisica – credo riporti nella memoria condivisa di tutti la realtà personale di Rosabianca Cadeddu Rombi e ne consenta declinazioni ulteriori e singolari. Perché nello slogan “fili e poesia”, a dirla senza abuso, pareva congiungere quel che la letteratura evangelica doveva, per necessità didascalica, proporre come elementi oppositivi: la contemplazione di Maria e l’operatività di Marta, nella casa di Betania. Forse, ma direi certamente, nel suo modello unitivo o combinatorio Rosabianca ritrovava se stessa, quella sua identità che cercava, anche in altre situazione, le stesse coordinate: pensiero e azione. Come in Mazzini, dopo che in San Paolo ma più ancora, molto più ancora, in San Giacomo il maggiore: le opere figlie della fede.
Fede e opere, pensiero e azione, fili e poesia
Credo che per capire profondamente Rosabianca e il suo humus morale, intellettuale e civile, non si possa mancare di entrare in questo schema. Lei battezzata cristiana e frequentatrice dell’eucarestia, lei associata alla pratica di meditazione zen di importazione ed impianto gesuitico, lei educatrice negli affetti domestici e nella missione della scuola, lei militante mazziniana (laicissima nel servizio della politica, perché lo stato è la casa comune di credenti e non credenti, o variamente e liberamente credenti), lei dirigente dell’associazionismo culturale repubblicano, lei apostola della poesia come strumento che sa riportarti, fra le complessità e complicazioni della vita, all’essenziale e al senso delle cose.
Ritorna qui, proiezione della sua figura fisica, l’icona della colonna semplice e del ricco capitello, della persona e della relazione sociale cioè, della disciplina che lancia la creatività: ritorna come sua chiave esistenziale il nesso fra la fede e le opere, fra il pensiero e l’azione, fra la cultura – da intendersi come mezzo interpretativo del reale – e l’impegno civile e politico, per una società inclusiva e ordinata, libera e giusta.
Non andrò per aneddotica, mi sforzerò di raccontare Rosabianca com’era dal di dentro per come l’ho conosciuta e capita, seppure diversi altri potrebbero dire meglio e meglio ancora.
Per spiegare i suoi amori intellettuali e civili, e limitando oggi a questo tema la mia testimonianza, rimando soltanto ad una scena relativamente recente, rivelatrice del trasporto patriottico – non sembri espressione datata e retorica questa –, di lei sardissima ma con formative esperienze di vita sul continente, nel 150° della unità politica dell’Italia, pur ancora, allora, in monarchia.
Nel quadro delle manifestazioni di “Fili e Poesia”, all’insegna di “Poesia per l’unità”, lunedì 18 aprile 2011 al ridotto del teatro Massimo di Cagliari, con i poeti Biancamaria Frabotta ed Elio Pecora, entrambi fra i più cari a Rosabianca, e più volte presenti alle iniziative dell’ENDAS repubblicana, ora in teatro ora in un liceo. La Frabotta e Pecora a dire di Cattaneo e Mazzini, “protagonisti, testimoni e artefici dell’unità d’Italia”. Nel sogno magari, appunto ancora non soddisfatto, di una unità nella piena libertà ed in repubblica, di una unità nel pieno rispetto delle autonomie territoriali, civiche per Mazzini, regionali per Cattaneo.
E prima e dopo l’una e l’altro dei relatori, ecco i testi letti al microfono da Rosabianca con Marco Spiga.
Un 150° da onorare nelle sue radici risorgimentali, destinate a trovare conferme e purificazioni nella lotta antifascista, nella resistenza e nella costituzione repubblicana. Ripartire da Mazzini, soprattutto da Mazzini, forse il maggior amore ideale di Rosabianca: partire dal suo pensiero e dalla sua testimonianza di vita, la vita di un esule, la vita di un democratico in tempo di autocrazia e poi di costituzionalismo autoritario, prigioniero anche il 20 settembre 1870 quando provvidenzialmente Roma veniva liberata dal malgoverno papalino e dalla teocrazia di Pio IX con i suoi arnesi peggiori, ghigliottina compresa.
Amava Rosabianca, che era stata insegnante e che la vocazione pedagogica l’aveva nel suo dna, lo spirito religioso e missionario di Mazzini: lo scopriva profeta. Lo sapeva triumviro nella Roma del 1849, la Roma repubblicana per cinque mesi, da febbraio a luglio. Papa Mastai Ferretti fuggiasco a Gaeta e poi invocante l’intervento degli eserciti borbonico ed austriaco, spagnolo e francese, per recuperare il suo trono già fuori della storia; Garibaldi che difende la conquista democratica al Gianicolo, Garibaldi sconfitto infine dall’esercito di Luigi Napoleone – poi Napoleone III – interessato al consenso clerical-cattolico in patria; nel massacro è vittima anche Goffredo Mameli, genovese di sangue paterno cagliaritano, ventuno anni, una gamba in cancrena per un mese prima della morte, Mazzini e Garibaldi come fratelli maggiori attorno al suo letto per consolarlo ammirandolo, ed informare la madre lontana delle condizioni drammatiche del ragazzo. Per lui una palla di moschetto francese; mortali fucilate austriache, benedette dal papa, anche su Ciceruacchio e Lorenzo, suo figlio tredicenne, fucilate su Ugo Bassi prete barnabita schierato con i repubblicani; centinaia i morti – giovani e giovanissimi popolani e borghesi, cristiani e repubblicani –, centinaia i morti per una causa che alcuni onoravano e i più, contro lo spirito della storia, combattevano.
La Repubblica Romana affermò, nella sua costituzione – cui quella nostra del 1948 fa ideale riferimento –, il suffragio universale esteso per principio anche alle donne (al tempo ancora senza status civico); affermò l’abolizione della tortura e della pena di morte (che il papa Beato Pio IX, detto vicario di Gesù nazareno, avrebbe ripristinato tornando al trono pochi mesi dopo e applicandola per altri 19 anni, quando venne fermato dallo scandalo nazionale sollevato dal deputato sardo Giorgio Asproni); affermò anche la piena autonomia spirituale del vescovo di Roma ma nei limiti dell’esercizio ecclesiale.
Cattaneo, Mazzini, il nostro Goffredo Mameli
Rosabianca mi chiese i materiali per poter raccontare Cattaneo – il Cattaneo de “Un primo atto di giustizia verso la Sardegna”, del 1862, e già di “Geografia e storia della Sardegna” – e soprattutto Mazzini, il profeta dell’unità, nel rapporto con la nostra Isola. Le rimisi un dossier di 70 cartelle da cui avrebbe potuto piluccare liberamente, secondo la sua sensibilità. Quel che le importava davvero e soprattutto, e che racconta molto, moltissimo di lei, era l’idea di Italia che, come me, identificava con la missione provvidenziale e universale della terra di Dante e San Francesco, e identificava, anche e necessariamente, con la causa della libertà, mazzinianamente della democrazia – cioè nella sovranità attiva del popolo –, e della unità pur nella articolazione delle culture territoriali, quella nostra isolana fra esse.
Riferendomi alla varietà di tali culture di luogo, municipali o regionali secondo gli intagli della storia, osavo chiamare l’Italia come “la comunità delle comunità territoriali”, e la definizione piaceva a Rosabianca, ed era anche questa una fede che ci univa impegnandoci sempre a pensare in grande, onorando così i nostri comuni maestri.
E dunque il Mazzini dei “Doveri dell’Uomo” – che la stessa monarchia Savoia accettò entrassero, come catechismo laico, nella scuola pubblica dal 1905 (l’anno centenario della nascita del profeta) –, il Mazzini dei “Ricordi agli italiani”, il Mazzini che pubblica, nel giugno 1861, tre articoli sulla Sardegna scongiurandone la cessione alla Francia (come pareva fosse il proposito cavouriano), il Mazzini che scrive a due bambini di Sassari nella primavera del 1870 – cinque mesi prima della breccia di Porta Pia che avrebbe in qualche modo recuperato l’eredità del 1849 –, il Mazzini che commemora il suo giovane fratello Goffredo Mameli poeta.
Poche righe qui adesso, immaginando Rosabianca al microfono, quel giorno di cinque anni fa, davanti a un gran pubblico. Nella convinzione – dico io – che non avrebbe avuto paura di essere equivocata, oggi ancora parlando di guerra alla Collina, che è terra ispirata alla scuola di don Mazzolari, di don Milani, di padre Turoldo, di padre Balducci, di don Tonino Bello. La guerra del risorgimento italiano contro l’oppressione austriaca e papalina era la stessa che, in altre circostanze, avrebbero combattuto i partigiani contro i nazifascisti. Drammaticamente necessaria, pagando prezzi indicibili, per conquistare al popolo la sua libertà e la sua emancipazione civile.
Mazzini in premessa ai versi di Goffredo, quattro mesi dopo la morte del poeta:
« … tale io lo conobbi, dopo ch’ei s’era da oltre un anno affratellato meco per lettera e unità di lavoro, la prima volta nel 1848 in Milano. E ci amammo subito. Era impossibile vederlo e non amalo. Giovine allora, … egli accoppiava i due estremi, sì rari a trovarsi uniti, che Byron prediligeva, dolcezza quasi fanciullesca ed energia di leone da rivelarsi – e la rivelò – in circostanze supreme… Militava, capitano di una squadra di volontari, con poca fiducia nell’esito immediato dell’impresa, ma con valore cavalleresco… Rovinata la guerra, ei passò, appena si aprì la via alle nuove speranze, in Roma. Di là mi scrisse un biglietto, riassunto eloquente della sua fede, che non conteneva se non tre parole: Roma! Repubblica! Venite! e la data, 9 febbraio. E colà lo rividi, raggiante di novello entusiasmo, nelle file condotte da Garibaldi… Colto nella gamba da una palla di moschetto il 3 giugno, giornata che ci rapì Masina, Daverio ed altre vite preziose, e portato all’ospedale dei Pellegrini, ei sostenne, scherzando e lieto di patir per la patria, dolori e timori pur troppo avverati dall’avvenire: il coraggio era natura in Goffredo… Esempio raro nella milizia, egli aveva ricusato il grado offertogli di capitano, allegando che v’erano altri più atti di lui, per esperienza, a coprire quel grado, e non l’accettò se non giacente nel letto, dove gli fu dato. La ferita s’andò aggravando e la gangrena invadente rese, il 19, indispensabile l’amputazione. Fu fatta maestrevolmente, e allora sperammo di averlo salvo. Egli andava chiedendo se una gamba di meno gli contenderebbe di guerreggiare a cavallo. Gli pareva di non dover morire che sulla terra lombarda, in faccia all’Austriaco… Era deciso altrimenti. Mentre il cannone francese s’avvicinava lentamente alle mura, ei s’accostava ai momenti supremi. Avresti detto ch’ei dovesse morir con Roma. E morì il 6 luglio, tre giorni dopo l’occupazione, quando pei suoi più cari era cominciato e s’apprestava l’esilio. Come il fiore delle Floride, egli sbocciò nella notte: fiorì, pallido, quasi a indizio di corta vita, sull’alba; il sole del meriggio, del meriggio d’Italia, non lo vedrà».
Mazzini a due bambini sardi, Elvira e Ausonio Soro Pirino: «L’abbraccio dell’infanzia e della vecchiaia mi è sempre sembrato una cosa santa: un raggio d’innocenza, di speranza, di fede comunicato dalla vita crescente alla vita che fugge… Dio v’ha messo un istinto di amore nell’anima, mi ha fatto un bene che io non posso esprimervi… [La vostra parola di fiducia] m’è giunta in uno di quei momenti di stanchezza e di sconforto che visitano talvolta chi ha dovuto correre un lungo e penoso viaggio e mi ha diffuso intorno un senso di sollievo, di forza rinnovata, di ringiovanimento che durerà… Amate la vostra patria che è l’Italia, la vostra culla che è la Sardegna, la povera, la buona e leale Sardegna che non risorgerà se non sotto una bandiera di Popolo. Amate i parenti che hanno protetto e proteggono la vostra giovane vita, gli amici che vi circondano d’affetti e di cure, i buoni che lavorano pel bene del paese, quei che soffrono abbandonati ed hanno più degli altri bisogno d’amore: Dio in essi tutti… Io non vi vedrò probabilmente mai sulla terra, ma rileggerò di tempo in tempo la vostra letterina e amerò sempre la vostra immeritatamente negletta Sardegna».