Integrare senza sensi di colpa, di Ernesto Galli della Loggia
Quando da molte parti s’invoca verso gli immigrati una politica volta all’integrazione, di che cosa parliamo in realtà? Che cosa intendiamo esattamente? E per cominciare: in che cosa pensiamo che gli immigrati debbano integrarsi? Lo ha detto chiaramente l’altro ieri la cancelliera Angela Merkel: vogliamo che gli immigrati assorbano «i fondamenti culturali del nostro vivere insieme», che essi s’integrino, cioè, nel sistema di valori, di regole e di comportamenti socialmente ammessi che vigono da noi. Ma cos’altro rappresenta tutto questo, mi chiedo, se non una cultura, nel caso specifico la nostra cultura? L’integrazione, insomma, è integrazione in una cultura, l’adozione di fatto (volontaria o involontaria non importa) dei suoi tratti caratteristici di fondo, della sua visione del mondo. O è questo, o semplicemente non è.
Ma se le cose stanno così bisogna allora rendersi conto delle conseguenze che ne derivano. In particolare del fatto che un tale progetto d’integrazione è radicalmente contraddittorio, per non dire incompatibile, con l’idea e la prassi del multiculturalismo. Quel multiculturalismo che invece in Occidente moltissimi ancora considerano la linea guida da seguire nel rapporto con l’immigrazione: anche perché espressione del «politicamente corretto».
Questo multiculturalismo all’insegna del «politicamente corretto» è alimentato da decenni dal pregiudizio che la nostra civiltà si sarebbe macchiata di misfatti di qualità e quantità superiori a tutte le altre, e quindi si sente in dovere della più esasperata attenzione verso ogni minoranza o gruppo non occidentale, percepito per definizione come potenziale vittima di soprusi. Esso non solo può essere protagonista di episodi di ridicolaggine assoluta (ma significativa), di cui di recente hanno dato notizia i giornali, come la protesta del campus dell’Università di Yale contro l’intitolazione di un edificio al presidente americano Wilson perché a suo tempo «favorevole alla supremazia bianca», ovvero come la protesta sempre di un gruppo di studenti dell’Ohio, mobilitatisi in grande stile contro l’indebita «appropriazione culturale» di cui si sarebbe macchiata la caffetteria del loro college preparando dei piatti etnici ma scostandosi dalla loro preparazione tradizionale. Esso ha avuto sicuramente una parte non piccola anche nel comportamento timido fino all’omissione della polizia di Colonia la notte dell’ultimo dell’anno, così come dell’occultamento per giorni della notizia di quei fatti da parte dei media tedeschi, o delle infelici, ridicole, dichiarazioni del sindaco della città.
Il multiculturalismo consiste nell’idea che in una società possano / debbano convivere senza problemi culture diverse. Anche molto diverse. Il guaio è che la cultura non è come un cappotto, che uno può infilarsi o sfilarsi a piacere. Quando se ne possiede una, e si ha intenzione di mantenerla, è molto difficile, pressoché impossibile, adottarne insieme un’altra. Se si crede in certi valori, è difficilissimo farne propri allo stesso tempo anche altri. Se per esempio è radicata dentro di me una certa idea dell’altro sesso e dei rapporti tra i due, una certa idea del rapporto tra la religione e lo Stato, una certa idea del mio passato storico, del suo significato e del suo rapporto con quello altrui, e se, come è ovvio, da ognuna di queste idee discendono comportamenti conseguenti, come potrò mai integrarmi davvero in un’altra cultura? Come potrò mai essere in certo senso due persone diverse contemporaneamente?
Non a caso una società realmente multiculturale – che non è quella che ci fanno vedere nei film dove tutti contenti mangiamo insieme il cous cous o indossiamo una pittoresca djellaba , ma è caratterizzata da una molteplicità paritaria di culture – questa società non esiste in alcun luogo del pianeta. In ogni società vi è una cultura dominante, cioè quella che determina il quadro delle regole generali. Regole che – va sottolineato con forza – anche nel caso delle attuali società democratiche, direi anzi soprattutto in queste, non sono mai neutre, quindi condivisibili (e perciò osservabili) da tutti senza problemi. Esse, invece, rappresentano e tutelano sempre determinati modelli di vita, determinati valori, frutto di una determinata storia, specialmente religiosa. Bisogna quindi avere il coraggio di dirlo e soprattutto di farlo capire a chi viene tra noi, non nascondendo che ciò vale soprattutto per coloro che provengono dal mondo islamico. Per gli immigrati integrarsi implica necessariamente la rinuncia a una parte più o meno importante della propria cultura. Perlomeno significa accettare che l’ambito d’influenza di essa – per esempio di alcuni modi tradizionali d’intendere la propria fede religiosa – incontri dei limiti più o meno significativi.
Abbiamo il dovere di offrire agli immigrati protezione e opportunità, eguaglianza e godimento dei diritti. Dobbiamo facilitarne l’ingresso nel mondo del lavoro (anche magari con percorsi di favore), soprattutto garantendoli dallo sfruttamento di padroni e imprenditori senza scrupoli (ciò che facciamo poco e male). In parecchi casi non dobbiamo esitare a concedere anche la nazionalità. Ma non dobbiamo esitare a chiedere, e se necessario a imporre – anche grazie a nuove disposizioni, a eventuali nuovi e più penetranti poteri ai servizi sociali o alle autorità di polizia locale e non – alcune regole. Che per esempio dopo un certo periodo di tempo per ottenere il permesso di soggiorno sia necessario dimostrare il possesso della lingua italiana. Che la predicazione nei luoghi di culto non debba avere carattere politico. Che all’interno dei nuclei familiari le mogli debbano avere accesso alla lingua italiana e godere piena libertà di movimento (ciò che oggi in un gran numero di casi non avviene). Che l’obbligo scolastico dei minori sia rigorosamente osservato per entrambi i sessi. Che le adolescenti non siano rispedite nei Paesi d’origine per contrarre matrimoni combinati (come invece è attualmente frequente).
Sono solo pochi esempi di un genere di questioni e di problemi che le classi politiche del nostro continente devono affrontare subito con la massima decisione e lungimiranza. Se finora l’Unione Europea ha fatto poco o nulla in questo ambito, il governo italiano ci pensi da solo. Abbia immaginazione e fermezza, soprattutto non abbia paura di avere coraggio: da ogni punto di vista non ha che da guadagnarci.
Il Corriere della sera, 10 gennaio 2016