L’ ottantanove cagliaritano, disfatta o premessa di nuova gloria per Bacaredda? di Marco Carta
Andando per celebrazioni centenarie, si è ormai da qualche mese iniziata la rievocazione/riflessione storica sulla grande guerra e la partecipazione anche dell’Italia al gran massacro continentale (e non solo continentale europeo), che sul piano politico determinò, con molto altro, l’annessione alla patria – che era la patria delle radici culturali, linguistiche e del sentimento – dei trentini (e bolzanini in sovrappiù) e triestini/giuliani recanti fino al 1918 la cittadinanza austriaca.
Nel 1915-1916 e già da un anno e ancora per un anno, Ottone Bacaredda era nuovamente a capo dell’amministrazione civica di Cagliari, che anzi egli aveva ripreso (con altra giunta) nell’autunno 1911, in chiave liberal-democratica ed civilmente anticlericale, dopo un interregno di ben cinque anni, dopo i vani tentativi di rilancio conseguenti alla crisi del 1906, alla rivolta popolare (o di quote piuttosto dei ceti medi e del lavoro autonomo, dei servizi soprattutto), contro il carovita e luddista, che aveva paralizzato per una settimana la città e provocato anche dolorosi lutti.
La risurrezione del sindaco-mito (che all’inizio del secolo s’era misurato anche in una esperienza parlamentare del tutto deludente) aveva tardato, impegnando, quel lustro circa fra il 1907 e il 1911, una sequenza di gestioni commissariali nel vecchio municipio castellano e un esecutivo piuttosto longevo e anche fattivo – quella di Giovanni Marcello – che però nel 1910 aveva marcato pure esso, con la rappresentanza consiliare e quelle altre provinciali e camerali, la protesta antigovernativa per il mancato potenziamento della linea ferroviaria. Quando, va ricordato, i trasporti ferroviari fra Cagliari e Sassari, e da/per la via del Tirreno fino a Golfo Aranci, significava ossigeno per la economia e la società sarda.
Alle dimissioni dell’amministrazione Marcello era seguito un’altra volta ancora il balbettio delle forze elettorali – non potevano chiamarsi politiche in senso proprio – ed il ritorno del commissario prefettizio, fino a una nuova gara delle urne con un risultato contraddittorio: la giunta Nobilioni poté resistere appena sei mesi, dato l’insanabile contrasto fra la fazione clericale e quella democratica e bruniana. Appunto così da consentire al mitico avvocato professore di Stampace – ma residente una volta alla Marina e un’altra a Villanova, quasi a evidenziare la età nuova della città emancipatasi dai vincoli (anche simbolici) feudali/castellani – di tornare alla guida amministrativa e anche di inaugurare, nel novembre 1914, il nuovo palazzo comunale di via Roma.
L’anima nera del sindaco di prima e di dopo fu allora, testardo e forse mai trasparente, Umberto Cao, esponente radicale, più tardi autonomista e sardista, perfino deputato e progressivamente transigente con la dittatura. Una querela per quanto riportato dal suo quotidiano “Il Paese” avverso operato e perfino credibilità di Bacaredda e dei suoi, aveva condotto il nobile Cao, dotto avvocato e professore, sul banco degli imputati in tribunale, caricandolo di una responsabilità penale per ingiurie. E fu appunto da quella temperie giudiziaria che doveva servire a ripulire una onorabilità ingiustamente offesa che iniziò la risalita bacareddiana, fino alla stagione lunga del suo governo municipale che dall’ottobre 1911 sarebbe arrivata all’estate (agosto) 1917. Vigilia di Caporetto e vigilia però anche di una nuova risurrezione italiana.
Ai fatti esplosivi del 1906, da cui molti fili della vita sociale e amministrativa cagliaritana partono per arrivare, lungo un decennio e più di modernizzazione economica e civile e però anche di sofferenza e incertezza diffuse, fa riferimento il seguente intervento del giovane Marco Carta che sull’argomento , nel maggior contesto della Cagliari giolittiana e della figura di Ottone Bacaredda , ha incentrato la sua tesi di laurea brillantemente discussa, nella facoltà di studi umanistici, con il professor Marco Pignotti.
Giova qui ricordare che la letteratura sull’evento comincia ad essere fortunatamente cospicua. Fra il molto altro, a partire magari dalle pagine del nostro indimenticato professor Giancarlo Sorgia, merita un richiamo speciale, e sentimentale, una pagina non storica ma letteraria, o letterario-teatrale: quella di Sergio Atzeni, allora giovanissimo – ventiquattrenne. Mi riferisco alla sua “ballata per una rivolta cagliaritana” cui la Edes, nel 1977 quasi al suo esordio, dette per titolo “Quel Maggio 1906”. Il testo, risalente all’anno precedente, fu adattato/rappresentato, nel settantesimo dell’insurrezione, sul bastione di San Remy in occasione di una festa dell’Unità. Vi provvidero Teatro Momento e Nuova Generazione, due gruppi di base (il primo dei quali replicò nel 1977) suscitando vivissimo apprezzamento.
Omaggio a tutti, dunque, nella circostanza di questo articolo di Carta: alla memoria del grande Sergio Atzeni, a quella del generoso Giuseppe Podda (autore di una ricostruzione storica utilizzata come canovaccio della mise-en-scene), al carissimo mio Virgilio Lai (custode delle numerose tavole fotografiche poi trasformate in diapositive e proiettate sugli schermi), ai tanti partecipanti a un lavoro fattosi collettivo, corale anzi. (gf.m)
Il carovita, il malessere sociale
La rivolta del 1906, anno che segnerà per sempre la storia cittadina, nasce tra i ceti medi per poi spostarsi nelle classi più umili. La prima riunione della giunta comunale si svolge quell’anno il 29 gennaio. Bacaredda, rientrato da protagonista nella vita amministrativa dopo la fine della esperienza parlamentare (durante la quale peraltro egli è rimasto con un incarico assessoriale) e ripresa ormai da circa sei mesi la suprema magistratura comunale, osserva i primi segnali di diffuso malcontento senza però riuscire ad individuare gli strumenti atti ad assorbirne le cause.
E’ l’Associazione degli impiegati a intestarsi le prime azioni di protesta verso l’Amministrazione per l’aumento dei prezzi che, com’è ovvio, colpiscono soprattutto coloro che possono fare loro unico affidamento sullo stipendio mensile. L’Associazione, riunita in assemblea generale, vota un documento nel quale sono elencate le richieste di pronto intervento del Comune atte a limitare le operazioni speculative sui prezzi. Nomina al riguardo anche una speciale commissione presieduta dal professor Cesare Curti, che mediante un referendum (sponsorizzato dal quotidiano “Il Paese” dell’avv. Umberto Cao) si rivolge direttamente alla popolazione per raccogliere quei suggerimenti che possano indirizzare alla soluzione dei principali problemi sotto esame.
I segnali non si fermano (saranno molti) e il 24 febbraio scioperano i lavoratori del porto che, giustamente, chiedono un compenso salariale più equo (un aumento a 5 lire, dalle attuali 3,50 giornaliere) e una riduzione dell’eccessivo orario di lavoro (da 15 a 9 ore), in linea, per l’una materia e per l’altra, con il trattamento praticato ai loro colleghi di Genova, dove i salari oscillano tra le 7 e le 5 lire giornaliere e i generi alimentari sono meno cari. La situazione dei portuali cagliaritani è ancora più grave se si pensa che, anche rispetto ad altre città, quali Roma, Venezia e Napoli, essi sono i meno retribuiti nonostante i massacranti turni di lavoro. Essi tengono un comizio vigilati dalla polizia e, visto lo sciopero già in corso, vengono sostituiti da altri lavoratori che sotto la protezione della forza pubblica scaricano le merci in porto. L’agitazione cessa ed i lavoratori riprendono i propri turni dopo che viene loro assicurato che le richieste (in specie salariali) saranno accolte.
Il 25 marzo protestano i commessi dei negozi che vorrebbero il giusto riposo settimanale. Le manifestazioni hanno eco in tutta l’isola ma la giunta Bacaredda sembra volerle snobbare, occupandosi di tutt’altro: esamina ed approva infatti la convenzione tra l’Amministrazione civica e la Fonderia Artistica Lagano di Napoli per le plastiche ornamentali del nuovo municipio (la spesa di circa 4.000 lire per leoni, aquile e festoni era già stata approvata dal Consiglio). Il gesto non aiuta ad attenuare gli animi già vicini al limite ed anzi li esaspera.
Soltanto il 6 maggio vengono esaudite le richieste dei commessi ma, com’era prevedibile, tutte le categorie cercano di ottenere un trattamento in linea con il resto del Paese. Fra essi un ruolo non secondario hanno i fornai che (analogamente ai portuali) chiedono una diminuzione dell’orario di lavoro dalle 15 alle 12 ore. La grande maggioranza di essi proclama lo sciopero, ed il fabbisogno della popolazione viene quindi soddisfatto, nell’emergenza, dai forni militari e da quelli della ditta Merello concessi gratuitamente. Per parte sua, il presidente della Lega Lavoratori Panettieri fornisce i lavoranti e le farine. Tutto ciò non vale ovviamente un calmiere ma costituisce una misura temporanea e precauzionale. Anche le richieste dei fornai vengono accettate ma, in seguito al rigetto (da parte dei proprietari) di ulteriori benefici, essi costringono con la forza alla chiusura dei pochi forni privati rimasti aperti.
L’ incontro con le sigaraie
La situazione si fa sempre più incandescente quando l’8 maggio i lavoratori cagliaritani scendono in sciopero per solidarizzare con gli operai torinesi scontratisi con le forze dell’ordine. Tre giorni dopo, di prima mattina, tre sigaraie della manifattura, rappresentanti della grande forza lavoro impiegata nello stabilimento del viale Regina Margherita (500 donne e 100 uomini), irrompono durante una seduta della giunta e, affermando di avere urgenza, vengono ricevute da Bacaredda. I termini della discussione sono così riassunti dallo stesso sindaco nel suo “Ottantanove cagliaritano” (libro uscito nel 1909):
«Il popolo ha fame e voi, padre del popolo, non potete lasciarlo morire così. Tutta la nostra grazia di Dio se ne va in continente e a noi non resta che divorare i nostri figli come il conte Ugolino. Le celle frigorifere non servono che a farci mangiare il pesce marcio, la carne marcia, tutto marcio. SOPPRIMETELE. Il mercato è divenuto un covo di ladroni che ci spogliano, ci spolpano, ci succhiano il sangue dal cuore. Chiudetelo (…) quella quarta regia (un quarto del pescato doveva essere ceduto come pagamento della tassa) dello stagno non fa che arricchire gli appaltatori. Perché la tollerate? Le triglie, le sogliole, le aragoste le guardiamo e le lasciamo, come frutti proibiti. (…) voi che siete il Re del mondo e potete tutto, provvedete al popolo, contentate il popolo. Il popolo, che vi ha sempre amato, vi benedirà, o, altrimenti, esso farà da se e allora Cagliari andrà sottosopra».
Certo, Bacaredda percepisce il peso di quella velata minaccia ma sostiene che le sigaraie fossero state mandate da qualcuno. Non lo afferma ma si riferisce certamente a Umberto Cao, editore de “Il Paese” che tanto lo attacca: «Esse non eran venute… perché eran state mandate. Sapevano di non trovarsi con nemici, ma nella loro anima vibrava l’effetto eccitatore di novelli amici».
Le loro richieste, i rimedi che chiedono le sigaraie, sono certo importanti ma evidentemente non di facile attuazione. Le celle frigorifere, tanto odiate dal popolo che le vede come un sistema nuovo per lucrare da parte dei rivenditori, vengono ritenute da Bacaredda come «atte a soddisfare bisogni igienici e economici d’ordine generale, non escluso quello di avere il ghiaccio a prezzo minimo e, per gli ammalati poveri, intieramente gratuito».
Per quanto invece riguarda la quarta regia, Bacaredda afferma che il Comune non ha colpa ma neanche beneficio di questa. Deplorando lui stesso il rincaro dei prezzi ormai sotto gli occhi di tutti, soprattutto nei riguardi della povera gente, dei generi di prima necessità, afferma però che la stessa triste situazione si verifica in tutti paesi della provincia e del continente. E, dopo aver risposto punto su punto alle lamentele delle operaie, conclude: «Quello che voi chiamate “re del mondo” è anch’esso un tributario ed una vittima del mercato, dove, giusta il costume del paese fa di frequente una capatina (…) ora, sapete voi com’egli si vendica delle esorbitanze dei pescivendoli? Quando, per esempio, le triglie vanno a 2 lire il chilogrammo, fa loro tanto di cappello e compra baccalà».
Questa frase, rimasta nella memoria (e nella polemica antibacareddiana) della città, sarà riconosciuta, dallo stesso sindaco che l’aveva pronunciata, come poco elegante ma sincera. A strumentalizzare la battuta è soprattutto “Il Paese” che, cogliendo la proverbiale palla al balzo e fomentando la rabbia dei cittadini, addossa ogni colpa – anche quella della insensibilità –
all’Amministrazione. Il giornale sostiene infatti che al mercato si eserciti lo strozzinaggio e che le autorità siano conniventi con gli speculatori, mentre sarebbero dovute intervenire molto prima per porre rimedio a questo vergognoso stato di cose.
Il comizio del 13 maggio
Per il 13 maggio viene indetto un comizio di protesta presso la terrazza del Bastione. Qui, eccitando ulteriormente gli animi, le sigaraie Cortis, Nieddu e Marini affermano di essere profondamente infastidite dall’infelice frase del sindaco e, lamentandosi del fatto che le due principali richieste (abolizione della quarta regia ed eliminazione delle celle frigorifere, le quali consentendo di trattenere più giorni le derrate evitano che queste siano “svendute” in giornata) sono state da lui respinte, fanno votare a furor di popolo un ordine del giorno: «La cittadinanza cagliaritana, radunata in comizio, delibera che sia provveduto urgentemente dal comune di Cagliari contro il caro dei viveri, impegnandosi a mantenere viva l’attenzione sino a quando non sia appagato il desiderio della popolazione».
La folla si muove alla volta della sede comunale, al grido di “Al Municipio, al Municipio“. Infervorati dai capipopolo (oltre alle sigaraie, gli avvocati Orlandi, Ferraris e Cao), i rivoltosi invadono le vie di Castello – dov’è il municipio – come farebbe un infrenabile fiume in piena. Bacaredda non ne è certo sorpreso visto il clima delle ultime settimane. Così commenterà quei criticissimi momenti: «Chi ha studiato la psiche del popolo non ignora quant’essa ritragga da quella della donna e del fanciullo: credula, mutabile, ipersensibile. Una frase, una parola la colpisce, l’infatua, la trascina. Sente più che non rifletta. Agisce più che non operi. Inconsapevole nei suoi languori, lo è del pari nei suoi scatti impulsivi, nei suoi impeti di entusiasmo e di collera; ed è allora che improvvisa i propri idoli e gode spezzarli, come un fanciullo i suoi giocattoli».
Conquistata velocemente la piazza riempita orami di tante teste ondeggianti che, con urli e sibili, chiamano fuori il sindaco a gran voce, la folla ottiene che Bacaredda si presenti impegnando, se in grado, sé e la sua giunta a fornire risposte certe alle richieste popolari. A stento riesce a parlare, ma le parole che pronuncia, anche se poche, sembrano per un momento calmare tutti: «Ieri ci applaudivate, oggi ci fischiate. Grandi, dunque, devono essere i nostri peccati, dei quali siam qui ora a fare ammenda».
Il tumulto cresce e la sua voce viene presto sovrastata. L’impegno del sindaco è a concedere due mercati liberi in piazza del Carmine ed a Terrapieno, nonché un forno municipale, in linea con quanto è stato sollecitato. Circa la richiesta di una macelleria comunale, il sindaco risponde affermando che si tratta di un desiderio difficile da esaudire a causa della forte incetta di bestiame, il suo alto prezzo e la complicazione di diversi servizi relativi a questo così particolare momento del commercio. Complessivamente, comunque, sembra che l’accordo sia raggiunto. Il confronto dura a lungo, tant’è che un capitano dei carabinieri deve entrare nella sala per far presente l’impazienza della moltitudine radunata in piazza. Bacaredda invita quindi i portavoce a riferire subito quanto promesso dall’Amministrazione in ordine ai due mercati liberi, ai due spacci municipali di pane e, non appena possibile, ma comunque entro la settimana, due spacci di carne.
La reazione non è positiva, i protestatari non credono alle promesse del sindaco e pretendono un impegno formale. Il primo cittadino preferisce, a questo punto, nuovamente presentarsi alla folla. Viene accolto da una nuova bordata di fischi. Forse, a questo punto, non è solo la carne a rendere impazienti ma «l’impazienza dello spirito dubbioso è il caldo pomeridiano, la congestione dei cervelli ma, soprattutto, è l’odio suggestivo, impulsivo, irriflessivo, contro quel sindaco che aveva offeso e schernito il popolo mandandolo a “mangiare baccalà”».
Finalmente egli riesce a farsi ascoltare, riuscendo perfino a raccogliere qualche timido e inaspettato applauso. La vertenza sembra conclusa. La folla libera la piazza e la sera stessa nel corso Vittorio Emanuele il sindaco incontra le sigaraie. Tutti, senza rancore alcuno, si scambiano rispettosi saluti. Scrivendone anni dopo, Bacaredda pare ancora voler minimizzare l’accaduto:
«Far la cagnara, mostrare i denti a qualcuno, per quell’istinto di ribellione, per quella voluttà di demolizione ch’è sempre un po’ nel fondaccio del cuore umano, per quella frenesia del chiasso ch’è un bisogno fisiologico della moltitudine, una necessità della sua psicosi, e che tratto tratto la trascina in piazza a vociare contro il Governo o contro il Papa, contro l’Austria o contro la Prussia e, quando non c’è di meglio, contro il Municipio (…) dove brilla un’idea, dove è un contenuto politico o sociale, anche il sasso di Balilla diventa una bandiera; la convulsione può essere una rivolta od una rivoluzione dove la bandiera è… il baccalà, cioè, una menzogna e una calunnia, ivi non può essere che il tumulto».
La giornata volge comunque al termine senza altri incidenti. La mattina del 14, però, si scatena l’Inferno nonostante vengano affissi manifesti nei quali si dichiara che sono stati istituiti i mercati liberi, come promesso dal sindaco.
Cagliari esplode
Bacaredda ricorda così quella giornata e la scintilla che incendiò la città:
«Due pescivendoli, la mattina del 14, abbordano il Sindaco che conferma e spiega gl’impegni della vigilia: da domani in poi, libera vendita in libera piazza del Carmine e nel viale del Terrapieno: tollerassero per un sol giorno ancora le ragioni dell’appaltatore (20 cent per cesto!). Tutti si mostrano persuasi, ma, non passa un’ora, c’è chi mette loro la pulce nell’orecchio: “Niente posteggio! Il mercato è libero, il mercato è nostro! Fuori l’appaltatore!”. Si fa un po’ di ressa, qualcuno si accapiglia, volano pugni e ceste, anguille, muggini e arselle. Tutto il mercato è subito sottosopra. A stento è fatto sgombrare e chiuso col catenaccio…».
Un gruppo disordinato di persone spunta all’improvviso e si dirige verso la manifattura tabacchi ma lungo il percorso incontra degli allievi carabinieri che, dalla vicina caserma, sono accorsi. Uno scontro veloce, qualche fronte sanguinante, alcuni vengono fermati ma subito liberati dalla stessa folla che è nel frattempo cresciuta di dimensioni e, con una bandiera in testa, parte alla conquista della città. Ci si indirizza verso la manifattura per incontrare gli operai, ma le forze dell’ordine che presidiano l’edificio rendono questo incontro impossibile. Si opta allora per le ferrovie secondarie, il gasometro ed altri stabilimenti industriali invitando i lavoratori ad unirsi al corteo. I negozi chiusi evitano quello che altri non possono evitare: vetrine rotte e saccheggi. La moltitudine, ingrossandosi, si dirige verso il casotto dell’appaltatore della quarta regia (al ponte della Scaffa) dove distrugge uffici e documenti per un danno di diecimila lire; si sposta poi verso la città, assaltando le vetture tranviarie (colpevoli di aver portato via il lavoro ai carrettieri). Il flusso pare oramai inarrestabile e avanza in direzione della stazione delle Ferrovie Reali, già presidiate dalla forza pubblica, con lo scopo di farne uscire gli operai. I dimostranti iniziano una sassaiola alla quale i militari, quaranta tra soldati, carabinieri e guardie, rispondono sparando. Il bilancio finale è di due morti e venti feriti.
Nonostante queste vittime la folla seguita la sua protesta, divellendo le rotaie della linea tranviaria e gettando a mare le botti di vino pronte all’imbarco. Così fino a notte, quando finalmente una relativa calma torna in città. «La folla è un congegno strano, complicato, obbediente all’impulso, ribelle al freno. Chi, datale la spinta, pensa di poterla governare a proprio talento, vi rimane impigliato e ne è travolto. Si arresta una valanga che precipita, una fiumana che irrompe?».
Il giorno seguente si tiene un altro comizio, con richieste precise all’Amministrazione: l’istituzione di forni municipali, posti municipali per la vendita delle carni, pesce ed erbagli, mercati liberi, abolizione delle celle frigorifere, riduzione del dazio di consumo sui generi di prima necessità, case operaie, un ulteriore riduzione del dazio di consumo, abolizione della quarta regia, municipalizzazione di altri servizi pubblici, sorveglianza municipale per la protezione delle leggi sul lavoro, abolizione della legge sull’istruzione obbligatoria, cassa per la refezione scolastica come servizio del Comune e, ovviamente, una esemplare azione giudiziaria a carico dei responsabili diretti e indiretti dell’eccidio. L’elenco delle richieste si conclude deliberando «di continuare lo sciopero generale sino a che non sia provveduto alle necessità e volontà immediate sovraindicate; nonché di provocare ogni altra manifestazione delle diverse classi della cittadinanza per affermare la comune solidarietà» (cf .“Il Paese”).
Le istanze economiche portano però anche una conclusiva richiesta politica: le dimissioni in massa di sindaco, giunta e Consiglio. Ad essa Bacaredda reagisce facendo affiggere un proclama che così recita:
«Concittadini! I luttuosi fatti di ieri hanno gettato nella costernazione la città tutta, non avvezza fin qui che a manifestazioni di nobile civismo, devota a quelle tradizioni di ordine e civiltà che le assegnavano un posto tra i paesi già innanzi nel progresso. All’ indomani di uno sciopero legittimamente iniziato e felicemente composto con pieno e meritato successo dei lavoratori. Il giorno stesso in cui la vostra Rappresentanza, accogliendo le più urgenti richieste della classe disagiata, si impegnava a tradurle in atto nel più breve tempo possibile, quando il buon volere delle autorità tutte conciliava alla calma, un improvviso moto popolare, una subitanea sovraeccitazione d’animi veniva a conturbare la tranquillità cittadina, ad arrestare il proficuo lavoro, a diffondere il dolore e lo sgomento di una catastrofe. Nel nome sacro di una fratellanza umana, per quella tolleranza di idee e quella cordialità di rapporti che sempre hanno unito le nostre classi sociali, per la tranquillità delle famiglie, per la tutela dei comuni interessi, per l’avvenire della città nostra, noi facciamo appello al cuore di tutti i cittadini e di quelli stessi che propugnano le oneste rivendicazioni operaie vorranno agevolarne il trionfo, scongiurando il ripetersi di troppo dolorosi avvenimenti. Adoperiamoci tutti con spirito di patria carità a diffondere una parola di pace, promettitrice di migliore avvenire, infervoriamoci tutti in un’opera benedetta di fraterna riconciliazione. Il ritorno al lavoro non ridonerà solo la tranquillità al paese, ma ci metterà in grado di mantenere le fatte promesse».( cf. Giancarlo Sorgia, Giovanni Todde, “Cagliari, sei secoli di amministrazione della città”, Cagliari, Lions club, 1981).
La rinuncia dell’Amministrazione
La data è quella del 15 maggio. Ma i tumulti non si placano e, anzi, incendiano i centri del Campidano. Al canto dell’Internazionale e dell’Inno dei Lavoratori, le barriere daziarie vengono date alle fiamme così come una stazione suburbana delle tranvie (compresi i vagoni ivi custoditi). V’è però chi reagisce. Nella stazione tranviaria di Quartu S. Elena l’assalto si conclude grazie all’intervento di 60 tra operai e tranvieri che, armati di fucile, vi si sono barricati per difenderla dai manifestanti. Essi vengono poi fatti sgomberare dalla forza pubblica. Stessa cosa accade a Monserrato ma questa volta sono i cittadini a respingere l’assalto…
Il 16 la giunta si dimette e il nuovo Commissario Prefettizio , Angelo Sanguino, rende pubblico il seguente Manifesto:
«Concittadini
Questa mattina le giunta municipale e gran parte del consiglio comunale hanno rassegnato le dimissioni dall’ufficio. L’ Ill.mo Sig. Prefetto delle Provincia, nel prendere atto delle dimissioni, mi ha affidato l’incarico di reggere provvisoriamente l’Amministrazione comunale fino all’elezione del nuovo consiglio. Nell’assumere le funzioni di Commissario prefettizio rivolgo un caldo appello alla cittadinanza perché voglia desistere dai dolorosi fatti che da qualche giorno rattristano l’animo di tutti giacché viene così a cessare ogni ragione alla presente agitazione. Confido che mediante l’aiuto e il consiglio degli onesti e degli intelligenti potrò attendere allo studio e all’attuazione di quei provvedimenti che potranno meglio corrispondere alle vostre richieste. Con tale fiducia nell’animo e con affetto di sardo assumo tranquillo le mie funzioni sicuro che pacificati i vostri animi tornerete subito fidenti al vostro quotidiano lavoro.
Dal palazzo Municipale 16 maggio 1906, Il Commissario Prefettizio Angelo Sanguino»
(cf. Giancarlo Sorgia, Giovanni Todde, cit.).
Anche l’arcivescovo Pietro Balestra fa sentire la sua voce invitando alla calma, così come alcuni gruppi politici. Con un suo decreto il commissario vieta ogni manifestazione pubblica (processione, riunione, assembramenti, comizi) perché la situazione non viene ancora considerata normalizzata.
Al porto arrivano intanto navi che trasportano truppe militari, 5.000 unità in soli tre giorni, fra il 16 e il 18. L’on. Chiesa – deputato repubblicano – protesta in Parlamento contro l’invio massiccio di soldati in Sardegna e il loro utilizzo nell’ordine pubblico. Comunque, la vita in città riprende lentamente, l’ordine pubblico viene ristabilito. Le questioni sociali sollevate rimangono, ad ogni modo, ancora aperte, non solo nel capoluogo, ché anzi i disordini di espandono nell’entroterra.
Quello dei moti di Cagliari per qualche aspetto è stato, inutile legarlo, e come sostiene Bacaredda, un fenomeno di psicologia collettiva, ma questo non basta a spiegare la rapida diffusione dei tumulti nelle aree minerarie e agricolo-pastorali. Certo, il motivo immediato è quel rincaro e quella rarefazione dei beni di prima necessità, ma il motivo di fondo generale è da cercare nell’arretratezza dell’agricoltura, nell’analfabetismo, nello sfruttamento di tipo coloniale delle miniere e dei lavoratori, nell’assenza dell’ intervento statale che fa sentire la sua presenza attraverso l’esosità del fisco.
I capipopolo, o quelli ritenuti tali, vengono arrestati e rinchiusi a Buoncammino. Seguirà, nel 1907, un megaprocesso con centinaia di imputati e altrettanti testimoni. L’aula di giustizia sarà la chiesa sconsacrata di Santa Restituta. Fra le imputazioni, anche quella di aver costretto gli assessori a dimettersi.
Il 29 luglio, intanto, si tengono le elezioni, e Bacaredda viene rieletto anche se il maggior numero di voti li ottiene Silvio Lippi. Il 4 agosto si tiene la prima seduta del nuovo Consiglio, è assente Bacaredda che ha mandato al consigliere anziano Carassino Valle una lettera con la quale chiede, con nobili parole, di non essere rieletto alla carica che tanto gli è costata.
Per parte sua, il commissario Sanguino da lettura di una sua lettere nella quale ritiene valido e giustificato il comportamento tenuto dal sindaco durane i moti.
Dei 33 presenti, sono ben 31 quanti votano Bacaredda, che è così sindaco un’altra volta ancora. Le 2 schede bianche sono da attribuire agli oppositori, Cao (naturalmente) e Guidi. Pochi giorni e verrà la rinuncia dell’eletto. Bacaredda resterà in gran parte spettatore, ma sempre presente nella vita pubblica cittadina, ora in Consiglio (quando l’ufficio sindacale sarà assunto da Marcello) ora nel dibattito sui giornali.