Tonino Cabizzosu racconta «una vita spesa per la Chiesa»: quella di don Salvatore Casu da Gergei, di Gianfranco Murtas
Mercoledì 13 gennaio, alle ore 18,30, nella chiesa parrocchiale di San Giuseppe a Pirri (nella FOTO), monsignor Antioco Piseddu presenterà l’ultima fatica di Tonino Cabizzosu, professore di Storia della Chiesa presso la Facoltà teologica di Cagliari: “Salvatore Casu una vita per la Chiesa”. La conferenza seguirà alla messa solenne presieduta dallo stesso vescovo emerito di Lanusei e accompagnata da alcune musiche composte da don Casu nel lontano 1955, poco dopo l’inizio della sua missione nella frazione cagliaritana, ed eseguite dai cori di Siliqua, Arte e Musica e dalla banda San Giuseppe.
Nell’articolo che segue, Gianfranco Murtas associa, con sue libere interpretazioni , il vissuto del valoroso sacerdote fondatore della seconda parrocchia pirrese – della quale dal 1979 al 1985 fu a capo don Tonio Pittau (poi trasferito a Sant’Avendrace e in cattedrale, fino alla morte in circostanze oscure avvenuta nel 1988) – , a luoghi e persone che anch’egli ha conosciuto e frequentato nel tempo. Così a partire dallo stesso autore del libro per finire con le personalità che a Sant’Eulalia (dove si avviò, nel 1950, la “carriera” pastorale di don Casu) o a San Giuseppe stesso, nel consiglio pastorale e presbiterale degli anni successivi al Concilio, hanno lasciato traccia di sé.
Santità delle suggestioni
Può esser bello, presentando un libro senza doveri formali od accademici, andare per suggestioni. Nel caso, quelle che promanano dall’incontro, vero o virtuale non importa, fra un autore e il suo soggetto, o il protagonista della sua narrazione. Perché si può andare allora a materializzare circostanze forse dimenticate e percorsi di vita che, svolgendosi magari in parallelo ed a distanza, pur hanno mantenuto significatività di un qualche spessore anche per l’area dei lettori i quali amino cogliere i nessi, le relazioni segrete, ora morali ora esperienziali, fra gli attori sulla scena, fra quello che racconta e quelli che sono raccontati.
Così fra Tonino Cabizzosu, prete di Illorai dal brillante cursus honorum – oggi parroco fra le meraviglie di Nostra Signora del Regno ad Ardara nonché direttore dell’Ufficio Beni culturali della diocesi di Ozieri, studioso di gran valore e accreditato accademico, dal 1985 docente presso la facoltà del Sacro Cuore a Cagliari (da cui lui stesso viene, prima di tutte le altre specializzazioni conseguite alla Gregoriana, all’Archivio Segreto Vaticano e alla Biblioteca Apostolica Vaticana) e per oltre un quindicennio direttore dell’Archivio Storico Diocesano del capoluogo, nonché collaboratore de “L’Osservatore Romano” e direttore del “Bollettino Ecclesiastico Regionale” – e don Salvatore Casu. Un nome sembra fra i tanti, ma che per i suoi contemporanei attivi nella vita pubblica della Chiesa regionale ha avuto una sua distinzione, che è merito di don Roberto Atzori, attuale parroco di San Giuseppe a Pirri, aver voluto disseppellire dalle dimenticanze ingrate di questo nostro tempo che volta pagina troppo in fretta.
Perché poi i parroci fondatori – come don Casu è stato, della comunità pirrese di San Giuseppe – conservano, o hanno il diritto di conservare, uno speciale rango nella memoria diffusa, per un protagonismo che si è saputo affermare nella concreta traduzione di una intuizione, di un disegno, di un sentimento, in una realtà organizzata e strutturata per responsabilità e partecipazione, capace di darsi obiettivi e modalità di compimento. Perché dove non c’era niente poi c’è stato molto, c’è e ci sarà ancora molto. Con il supplemento, che può essere inteso come compenso di provvidenza, di un ritorno da vecchio – ormai già nell’età della pensione e dei consuntivi – nel luogo, fisico e sociale, conosciuto e curato, con intelletto d’amore, da giovane. Come è stato per don Salvatore Casu appunto.
Ecco qui: la suggestione dell’incontro fra l’autore della biografia e il soggetto accostato, indagato, compreso, amato anche, e raccontato… , fra Tonino Cabizzosu, al tempo 22enne studente al secondo anno di Teologia (giusto da un anno trasferitosi da Cuglieri a Cagliari), e don Casu. Un incontro virtuale, debbo immaginare, o fatto soltanto di sguardi comunque benevoli, da una parte e dall’altra. Don Casu in chiesa, la terza domenica dopo la pasqua, nel 1972, Cabizzosu non ancora diacono alla porta di quella parrocchiale maternamente solenne ma già segnata da minacce di rovina. Escono dalla messa i fedeli festivi e ricevono in mano un volantino appunto da don Tonino e dal suo collega Pietro Borrotzu (oggi parroco a Nuoro e delegato regionale per la pastorale del lavoro, o sociale, e le povertà).
Un autore e il suo protagonista, una vita fa
Riporto una memoria personale che l’autore ha affidato alla pagina scritta. Fu nel 2000, in occasione del suo 25.mo di messa (si tratta di una pubblicazione delicata, precisa e altrettanto preziosa, diffusa soltanto nella cerchia familiare ed amicale, dal titolo “Percorsi di fede e ricerca scientifica di un presbitero sardo”): «Se da una parte subivamo l’invadente irruenza dei giovani di “Comunione e Liberazione”, che nella parrocchia della Medaglia Miracolosa avevano la loro roccaforte, dall’altro non erano meno preoccupanti i contatti con gruppi ecclesiali dissidenti, come i “Cristiani per il socialismo”, che raccoglievano le simpatie di qualche animatore. E’ da situare in questo contesto la presa di posizione di un folto gruppo di studenti, di qualche professore ed educatore del regionale, in favore degli scioperanti del Borgo Sant’Elia, attendati di fronte al Municipio di Cagliari per difendere i loro diritti. L’aspetto positivo di quegli anni era dato dal fatto che sentivamo il bisogno di testimoniare la nostra fede confrontandoci con i problemi vivi della società. Di fronte al silenzio della Chiesa su problemi vitali come il diritto alla casa, al lavoro, al rispetto della propria dignità, noi non potevamo e non volevamo stare zitti. Abbiamo preso parte alle manifestazioni infuocate e, come cristiani, abbiamo sottoscritto una lettera pubblica di solidarietà agli abitanti del quartiere di Sant’Elia, in quel tempo animato da don Vasco Paradisi, ed abbiamo lanciato segnali di inquietudine alle autorità ecclesiastiche, della Città e dell’Isola per il silenzio di fronte agli arbitrii e alle responsabilità della classe democristiana, allora al potere. Il sottoscritto, insieme a Pietro Borrotzu, della diocesi di Nuoro, collaborò a diffondere una lettera, distribuita alle porte delle chiese cittadine, e la offrimmo nella parrocchia di Sant’Eulalia anche ai giocatori della squadra dell’Atalanta, in quel giorno in Città per giocare contro il Cagliari.
«Questo fatto certamente nuovo nella vita dei seminari era segno di un fermento in seno alle comunità ecclesiali ed era suscettibile di duplice lettura: entusiasmo per alcuni, critica per altri. La nostra lettera, che fondamentalmente voleva esprimere solidarietà con coloro che soffrivano, intendeva lanciare un messaggio ad una Chiesa sonnacchiosa e chiusa in sacristia; ebbe buona eco nell’opinione pubblica, con letture diversificate: da una lato provocò un’altra lettera da gruppi della sinistra cristiana con ampi elogi, dall’altro fu occasione di aspre critiche, soprattutto in seno a gruppi clericali intransigenti. Il rettore del regionale Alberti, a più riprese, si fece eco del pensiero dell’arcivescovo cardinal Baggio per condannare e stigmatizzare l’accaduto».
E’ una pagina di vita della Chiesa cagliaritana nei primissimi anni ’70. Quando i parrocchiani della Marina ricevono il documento – titolo “Per una Chiesa al centro dei conflitti del nostro tempo. Lettera aperta al Vescovo e a tutti i fratelli nella fede della Chiesa di Cagliari” – è giusto da un anno, precisamente dal 14 marzo 1971, che don Salvatore Casu svolge le funzioni di parroco a Sant’Eulalia, dove è subentrato a don Ezio Sini, una vera e propria istituzione, ben voluta ed ossequiata, nel quartiere che di altri miti ha vissuto nel tempo ancora precedente (basti pensare a dottor Mario Floris). I confini parrocchiali sono gli stessi del quartiere, una grande quadrato con alla base la via Roma, i lunghi fianchi laterali quelli del largo Carlo Felice ad ovest e di su Stradoni, cioè il viale Regina Margherita, ad est, in alto le tre piazze di passaggio per Castello, tutte e tre dai rimandi risorgimentali: Costituzione albertina, Martiri d’Italia, Giuseppe Mazzini. Tremila, forse più forse meno, i residenti nella mezza collina, in fuga verso l’hinterland od i quartieri-dormitorio i giovani con le loro nuove famiglie. Fra palazzo e palazzo, o fra sottano e sottano, «Tuguri, situazioni di promiscuità, case sovraffollate, ruderi, soprattutto intorno alla chiesa, il cui piazzale si è trasformato in immondezzaio» (scriverà Casu), e il Comune sordo alla richiesta di un qualsiasi intervento risanatore, foss’anche soltanto per la decenza.
La periferia in pieno centro
Dell’antica prestigiosa collegiata – una delle tre (nate barocche spagnole) della città, ciascuna insistente nella propria “appendice” (Sant’Anna a Stampace, San Giacomo a Villanova, appunto Sant’Eulalia alla Marina) – è rimasto poco, quasi nulla. Non più la veste giuridica, non più certamente l’abbondanza del clero (un tempo cinque parroci con presidente e, in corte ad essi, fino a 29 beneficiati, per il più alloggiati in s’arruga ‘e is Preris, poi Lepanto), non più soprattutto la popolazione ridottasi a meno d’un terzo di quella che era ai tempi di Bacaredda e dei parroci storici, don Secchi, don Manca, don Pinna e don Argiolas, e quegli altri del calendario settimanale (i collegiati Giuseppe Lai Pedroni prossimo vicario generale, Giuseppe Miglior prossimo vescovo di Ogliastra, Giuseppe Melas prossimo vescovo di Nuoro, Mario Piu prossimo presidente per cinquant’anni a Stampace…). Adesso appena venti battesimi all’anno, la dispersione della comunità fra ben cinque centri religiosi oltre la parrocchiale (con il supporto del Santo Sepolcro): San Francesco di Paola, l’Asilo della Marina, Sant’Antonio abate – parrocchia fino al 1958 –, le Cappuccine (Beata Vergine della Pietà), Santa Rosalia (con il santuario di San Salvatore da Horta), quasi nessun locale da offrire al gioco e all’istruzione di bambini e ragazzi, al minimo l’associazionismo (80 uomini, 20 donne, 10 giovani), gli aiuti generosi ma insufficienti delle Vincenziane ai poveri del quartiere, quelli della Congregazione del SS. Sacramento alla parrocchia, il sogno, soltanto il sogno, di un centro sociale, di un poliambulatorio ante-Caritas…
Quando il giovane teologo Tonino Cabizzosu volantina alla porta di Sant’Eulalia per smuovere le gerarchie cattoliche a compromettersi con i senza casa e i precari della vita, certamente ha contezza che questa povertà è vissuta in prima persona da quelli stessi che egli avvicina, rispettanti il precetto domenicale, lettori quel giorno di un appello che è “per”, certamente non “contro”. Anche se tale è giudicato da molti, soprattutto dall’entourage del cardinale Baggio, sorpresi e infastiditi perché fra i firmatari figurano il rettore del seminario arcivescovile, alcuni animatori del Regionale, diversi professori della facoltà e ben 47 prossimi sacerdoti (fra essi anche l’attuale numero tre delle gerarchie curiali in Vaticano, l’arcivescovo Giovanni Angelo Becciu). Forse si tratta di parrocchiani già arresi, senza più forza di combattere, che vivendo la precarietà del lavoro e dell’abitazione, vorrebbero anch’essi una occupazione stabile e una casa decente, non però a Quartu o Sestu o a Mulinu Becciu, ma nel quartiere in cui sono nati ed in cui forse per lunghi decenni, magari per secoli addirittura, si sono radicate le loro famiglie dedite alle attività portuali, ai piccoli pescherecci ed ai rimessaggi della darsena, forse a qualche commercio al minuto delle vie Baylle o Sardegna o Cavour…. o ad una bottega artigiana delle vie Barcellona o Napoli o Principe Amedeo…
Per don Salvatore Casu, tredici anni a Sant’Eulalia, una sequenza di giovani collaboratori, da don Piero Villasanta (trasferito però nello stesso introduttivo 1971 al Sacro Cuore di Quartu) a don Enrico Furcas (passato nel 1972 alla parrocchia finalmente autonoma di Giorgino), da don Gesuino Prost (nel 1979 trasferito a Is Bingias) a don Mario Cugusi (presente, per starci, dal 9 aprile 1980), per qualche tempo anche don Andrea Cocco delegato delle ACLI e, reduce da maggiori stagioni, l’anziano don Antonino Figus, lo studioso di Lucifero vescovo cagliaritano nell’età press’a poco di Agostino ed Ambrogio. Nel gennaio 1984 la rinuncia. Il cuore matto di don Casu consiglia il ritiro su una postazione di riserva. Accenna allora ad un bilancio. Lo spopolamento del quartiere è lo stesso e anzi forse è più accentuato che un tempo, seppure sia da sperare che il nuovo cantiere del palazzo del Consiglio regionale, nella via Roma, costituisca come un preannuncio di recuperi virtuosi in termini di presenze ed attività. I bambini e ragazzi possono adesso contare sullo spazio di un piccolo oratorio, concessione generosa di una famiglia parrocchiana. Forse verrà anche un campetto sportivo, ritagliato là dove era soltanto «rifugio incontrastato di scippatori e di giovani vittime della droga». Anche il cine-teatro che aveva funzionato al tempo del parrocato di don Sini ha ripreso ad accogliere spettacoli e spettatori. Perfino una scuoletta di ripasso è stata promossa, con qualche successo, da alcuni giovani universitari.
Certo la chiesa-monumento che conta ormai tre e passa secoli di storia, ancora patisce, benché dopo vari allagamenti e vari episodi di degrado statico essa sia stata restaurata con interventi d’emergenza concordati fra Comune e Soprintendenza: così fra il luglio 1973 e il febbraio 1974 (per tetti, cupole, tinteggiature, impianto elettrico), quando l’ufficio parrocchiale e le liturgie si sono trasferiti – come avverrà nel replay degli anni ’90 con don Cugusi gran regista – al Santo Sepolcro. Qualche luce indubitabile, restano però ancora troppe ombre in una parrocchia-quartiere che è il cuore della città ed insieme la rappresentazione della sua periferia in abbandono .
Don Casu ancora si dispiace di non aver potuto migliorare maggiormente la chiesa, che appartiene al patrimonio storico, morale e materiale, di Cagliari –, ma soprattutto da buon presbitero, anziano di comunità cioè, il suo rammarico confessa essere quello di non aver potuto o saputo realizzare, com’era nei sogni, una comunità vera, una chiesa di pietre vive, una parrocchia-rionale coesa seppure articolata. Ora le chiese che officiano sono addirittura sette, il popolo religioso è frazionato, né forse le devozioni particolari ai patroni (magari con rinforzo di confraternite) e le propensioni del clero in specie religioso assegnato alle filiali con rinforzo di conventi, com’è per i plessi francescani dei minimi e dei minori, o delle clarisse nel monastero cosiddetto delle Cappuccine (Santo Sepolcro), può favorire una conquista insieme di compattezza e trasversalità. Anche Sant’Agostino sta diventando, con gli entusiasmi ricostruttori di don Vincenzo Fois e dei suoi giovani provenienti da Villanova, un centro… concorrente. Così Sant’Eulalia nel 1984.
Sant’Eulalia, Sant’Eulalia…
Cabizzosu dedica una dozzina di pagine alla esperienza maturata da don Casu a Sant’Eulalia. I materiali documentali che ha rinvenuto non sono abbondanti, ne avverte lui stesso a più riprese. Ed è un peccato. Sarebbe peraltro da dire che la generazione di don Casu era comunque stata sensibilizzata, nei corsi formativi e dalle direttive correnti delle curie diocesane, agli adempimenti cronachistici, destinati a diventare “tracce per una storia”, com’erano un tempo i libri cronici che accompagnavano o sostituivano l’ultimo dei classici Quinque libri, quello “Stato delle anime”, che da noi ha finito per suggerire perfino qualche evasione letteraria (così nella saga di Efisio Marini, autore giusto di quel titolo Giorgio Todde), ma ha anche ispirato riduzioni testuali e saggi di inquadramento socio-antropologico, come quello curato da Clara Gallini con riferimento alla pratica parrocchiale di don Luigi Mulas in Ulassai (“Diario di un parroco di villaggio. Lotte di potere e tecniche del consenso in una comunità sarda”, Cagliari, Edes, 1978).
A Sant’Eulalia, per tredici anni, soltanto una cinquantina di cartelle manoscritte, e alcune agende con note di natura liturgico-pastorali. Mesta ma anche disincantata l’annotazione degli oggetti rubati, proprio alla riapertura, nella primavera 1974: navicella porta incenso d’argento cesellato, corona di metallo dorato con pietre ornamentali, chiave con catenina d’oro, calice d’argento, brocca di metallo cesellato, altro calice d’argento, candelabri votivi, qualche migliaio di lire.
Perdite per compensare un ritrovamento: quello di un marmo con le insegne dell’arcivescovo De la Cabra, uno spagnolo che governò l’archidiocesi di Cagliari nella metà del ‘600, al tempo della peste che anzi fu addebitata, in quando alla sua diffusione, proprio all’ermellino che egli si portava indosso. (Vedi, circa il ritrovamento della lapide, quanto ne scrive Luigi Cherchi in “I vescovi di Cagliari, 314-1983. Note storiche e pastorali”, Cagliari, TEA, 1983, p. 160).
Due interviste concesse al giornale diocesano “Orientamenti “ (1972) e rinato “NuovOrientamenti “(1984), nei tempi press’a poco dell’inizio e della cessazione delle fatiche, aiutano a tracciare, ancorché in sintesi, il quadro d’ambiente ma anche quello delle intenzioni, dei programmi cioè, e, a conclusione, delle attività realizzate. Ed integrano o suppliscono così alla scarsità dei documenti di studio.
Potrei qui permettermi di segnalare che una intervista, per la emittente televisiva La Voce Sarda, al tempo lanciata con buon successo e anche una programmazione di qualità dall’editore Gianni Onorato, la raccolsi nel 1981, con don Salvatore Casu, io stesso. Una dozzina di minuti, la telecamera fissa sul parroco ormai stanco e deluso, quasi al suo ritiro. Egli dettagliò i malesseri morali e materiali del quartiere e l’inerzia delle amministrazioni municipali a seguire, così da lunghi anni ormai. Il tutto completava un documentario sulla storia onorevole della parrocchia, sui pregi monumentali della chiesa, e, a stridere, quei focus visivi ed argomentati delle macerie provocate dai bombardamenti del 1943 denunciavano la perdita perfino del senso del decoro fra i consiglieri e gli assessori del Municipio, insieme forse con il più malinconico abbrutimento o smarrimento, per la invalsa cattiva abitudine, di ogni consolidata fierezza lapolese. (Il servizio, della durata di 27 minuti complessivi e passato con titolo “Sant’Eulalia: una splendida chiesa nel centro del centro di una città sporca”, andò in onda nella quinta delle dodici puntate di “Controluce”, rotocalco settimanale curato da Paolo Latini, nel palinsesto della domenica sera fra marzo e giugno di quell’anno. Ritornai, su Sant’Eulalia e il suo quartiere, in un successivo servizio fra storia e cronaca, inserito nel pilotino della puntata di “Vagabondo. Programma di incontri e argomenti regionali”, da me stesso curato, e trasmessa la sera di sabato 31 ottobre dello stesso 1981, con replica l’indomani).
Una biblioteca per la Chiesa
Anche per una personale consentaneità che raggiunge insieme Cabizzosu, la memoria cara di don Casu e l’energica intelligenza di don Mario Cugusi, che dal maggiore ricevette il testimone onorandolo al meglio lungo tre decenni circa sotto gli episcopati Bonfiglioli-Tiddia, Canestri, Alberti e parzialmente anche Mani – ho qui volutamente marcato, della trascorsa esperienza di Sant’Eulalia negli anni ’70 e primi ’80 (ma potrei retrocedere al ventennio circa del parrocato Sini), aspetti laterali, certamente non d’impatto emotivo e fors’anche di stretto interesse dei lettori di questo bel libro “Salvatore Casu una vita per la Chiesa”. Mi riferisco alla carenza delle fonti storico-cronachistiche e, come accidente di periodo, al furto balordo oltre che sacrilego. Ne tratterò distintamente.
Credo che gli accresciuti strumenti di documentazione (oggi sempre più le registrazioni audio/video ed informatiche) possano supplire alle pigrizie clericali nella scrittura che, data la formazione umanistica impartita nei seminari (specie d’un tempo), è fenomeno stranamente diffuso nelle parrocchie e così rilevato in occasione delle visite pastorali che forse, qua e là, avrebbero potuto marcare più efficacemente i doveri di segreteria. La conseguenza diretta delle omissioni è in un impoverimento pieno e forse definitivo, dopo che dei notiziari, proprio degli assi interpretativi di vissuti personali e comunitari che, per se stessi, dovrebbero essere assicurati al documento per la trasmissione nel tempo.
Le istituzioni di tradizione – e la Chiesa è una di queste, ben più che soltanto una agenzia di occasionale servizio spirituale o sacramentale – non possono prescindere dai radicamenti di memoria e spetta come un dovere ineludibile a chi è fatto responsabile di una comunità consegnare alla storia dati di fatto e, se si vuole, note di commento, codifica e decodifica di contesti, circostanze e fenomeni.
Ho memoria anch’io del poco che l’archivio storico parrocchiale della Marina del Novecento ha custodito. Di quel poco potrei ricordare – non citato, mi sembra, da Cabizzosu (forse perché, nell’economia della sua trattazione, il viceparrocato degli anni 1950/marzo–1954/dicembre proprio a Sant’Eulalia – allora nel passaggio di responsabilità da don Floris a don Sini – non ha avuto speciale significatività) – un quaderno di formato grande e tutto manoscritto, a cura della Gioventù Femminile di A.C., dal titolo “La mia parrocchia. Guida storica religiosa artistica e civile”, con dedica, nell’anno sociale 1952-53, a Pio XII, all’arcivescovo Botto ed al parroco Floris.
Interessante, nel documento compilativo, la lista dei beneficiati parroci dal 1835 (primo della lista il teol. Agostino Bernardi, nell’elenco anche futuri vescovi come Paolo Maria Serci Serra, Saturnino Peri e Giuseppe Melas, oltreché Giuseppe Miglior), ultimo della serie don Casu in abbinata con don Carmine Fais e in successione di don Callisto Pili – nomi tutti che hanno lasciato, per le attività successive, un’impronta onorevole nella storia dell’archidiocesi cagliaritana del Novecento. In tale contesto sembra specialmente gradevole una pagina tutta dedicata a “il governo parrocchiale” quale si presentava all’atto della redazione: con tanto di foto in cotta e mantellina, i tre sacerdoti in organico – Floris, Casu e Fais – e la scheda biografica di ciascuno. Così di don Casu: «Nacque a Tunisi il 2 novembre 1913 da Giovanni e Strazzulla Carmela. Compì gli studi ginnasiali nel Seminario di Cagliari ed il Liceo e Teologia a Cuglieri. Fu ordinato Sacerdote il 15 agosto 1938. Dal settembre 1938 al novembre 1939 vice Parroco a Sinnai poi a Roma per la laurea fino al luglio 1940. 1940-42 vice Parroco a Quartu. 1942-45 Cappellano militare in zona di operazioni. Dal settembre 1945 al gennaio 1946: vice Parroco a Samassi. 1948-1950: Direttore dell’istituto Sacro Cuore a Sanluri. Dal marzo 1950 a S. Eulalia. Di vasta cultura, predicatore elegante ed efficace».
Un mio modesto lavoro biografico richiamato da Cabizzosu in nota, e riferito a don Sini (“Don Ezio Sini fra culto divino e pastorale sociale”, Cagliari, Graphical di Loddo, 2008) ha fatto anch’esso i conti con l’esiguità delle fonti, invero non soltanto a Sant’Eulalia. La figura di don Casu compare fuggevole nella mia esposizione, orientata, nella stretta logica biografica, a dar spessore umano ed ecclesiale al protagonista, ma certo mi è rimasta presente anche nella stesura del successivo lavoro citato in bibliografia dall’autore (“da Chorus a Cresia. Scritti di storia e d’impegno ecclesiale 2008-2011”, Cagliari, Graphical di Loddo, 2012), volto soprattutto, nella maggior sezione, a documentare e testimoniare la vicenda di contrasto fra don Mario Cugusi e l’arcivescovo Giuseppe Mani, nel contesto di un episcopato – quello del presule toscano – che io ho considerato, in una lettura tutta soggettiva, drammaticamente negativo per gli interessi della Chiesa locale, così sostenuto dalla abulia tremenda di pressoché l’intero episcopato sardo del tempo.
Perché il presbiterato di don Cugusi, come si è espresso, creativamente, con salda dottrina ma anche con efficace duttilità operativa così nella pastorale come nelle fascinose realizzazioni archeologiche e museali nel trentennio scaduto nel 2010, non avrebbe potuto configurarsi tale senza l’iniziale apprendistato collaborativo nella parrocchia guidata da don Salvatore Casu, né questi avrebbe potuto prescindere – giungendo alla Marina nel 1971 – dalla esperienza modellata, con le sue luci e le sue ombre, da don Sini lungo gli oltre tre lustri seguiti al dicembre 1953, e così a ritroso, ricordando, nelle tempeste della guerra e/o nel dopo ricostruttivo, dottor Floris, e prima di lui dottor Amedeo Loi e don Efisio Argiolas…
Queste sono le dinamiche naturali della storia umana e anche della storia ecclesiale. Non esiste un anno zero nella storia, né in quella religiosa né in quella civile – lo ricordò in un magistrale discorso in Senato, alla vigilia quasi della sua dolorosa scomparsa avvenuta nell’estate 1994, un grande della cultura e della politica italiana quale fu Giovanni Spadolini, ad un presuntuoso e rozzo presidente del Consiglio che pensava a sé come ad un demiurgo fatato.
E d’altra parte mi pare bello che Tonino Cabizzosu, da competente, abbia considerato questo processo di sviluppo, che conosce velocità e propensioni diverse calandosi in umanità diverse, proprio biografando nei suoi libri, o in molti di questi, una cinquantina circa di suoi colleghi impegnati sui fronti ora delle parrocchie, cioè della pastorale comunitaria o assistenziale, ora del giornalismo o della letteratura, ora della docenza bassa o accademica, ora del congregazionismo della vita consacrata, ecc. Anche chi appare, ed è, specialmente innovatore non può prescindere dall’ambiente formativo dal quale è emerso, dalle figure direi iconiche alle quali si è affiancato e da cui ha tratto motivi e ispirazione, dal più largo sistema nel quale le circostanze l’hanno inserito. E sembra proprio qui una delle carte migliori che gioca, nella sua abbondante produzione scientifica e letteraria don Tonino Cabizzosu.
Si pensi soltanto al suo “Pastori e intellettuali nella Chiesa del Novecento” (2010), con la panoramica di ben venti medaglioni – taluno dei quali rifluito poi, molto opportunamente, in altre edizioni inquadrate in diversi filoni di ricerca o nei collettanei “Scritti in onore di…” – e le corpose introduzioni ai capitoli; si pensi al saggio dedicato a don Gesuino Mulas (“Diario Mulas”, 2001) ed alla sua riproposta nella “Miscellanea ieri e oggi” del “Notiziario Diocesano” di Cagliari, III o agli studi biografici pieni dedicati invece a padre Felice Prinetti (“Un contemplativo in azione nella Sardegna del primo Novecento”, 1993, e “Contemplazione ed azione in Felice Prinetti”, 1997, riproposto anche come “Felice Prinetti. Un giornalista tra i poveri”, 2004 ) o ai fondatori delle suore del Getsemani (“Padre Manzella, nella storia sociale della Sardegna” , 1991, e “Un contemplativo in azione”, 1993), o della missionarie Figlie di Gesù Crocifisso (“Salvatore Vico nel contesto sociale e religioso del Novecento sardo”, 1998), o ancora del Buon Pastore (“Virgilio Angioni, una Chiesa per gli ultimi”, 1995); si pensi ai capitoli dedicati al clero secolare e, distintamente, a quello religioso – un’articolazione analitica particolarmente interessante questa – in “Chiesa e Società nella Sardegna Centro Settentrionale (1850-1900)”, opera quasi di esordio, risalendo al 1986 e rielaborativa delle linee della tesi di laurea dello stesso autore. Si pensi ancora alle relazioni presentate a convegni di studio come quella su don Antonio Piga e rifluite poi nella generosa trilogia “Ricerche socio-religiose sulla Chiesa sarda tra ‘800 e ‘900” (1999, 2004 e 2009).
Non sarebbe fuori luogo qui menzionare anche il nome di don Giuseppe Ruju – degno successore in Berchidda del leggendario don Pedru Casu, suo erede e autore di numerosi libri di letteratura sarda e in sardo – , al quale Cabizzosu ha dedicato, con specialissimo trasporto amicale e a pochi mesi dalla scomparsa, una biografia che, nella metodologia espositiva (oltreché nel censimento delle fonti), anticipa il presente lavoro su don Salvatore Casu: “Giuseppe Ruju, un parroco-scrittore per l’identità sarda” (2012). Quel don Ruju che, al venticinquesimo di messa («pro sos vintichimb’annos de missa»), gli aveva dedicato versi fini e delicati: «Iscrie cun mente sacerdotale / chi non b’at cosa bella chei s’amore; / iscrie ch’est sempre s’odiu mortale / su ch’impoverit s’anim’e onore…» .
Né potrei, in questa rapida carrellata, omettere di citare il gran nome del canonico Tommaso Muzzetto, per il quale chi scrive condivide proprio con don Cabizzosu un rispetto e un amore che valgono una venerazione: per la libertà evangelica di quel vicario capitolare chiamato a reggere la diocesi unita di Ampurias e Tempio negli anni caldi, incandescenti, del potere temporale avversario del risorgimento liberale e unitario. Perché il canonico ebbe il coraggio, pagandone poi tutte le conseguenze canoniche (e non solo), di raccogliere le firme dei suoi confratelli a sostegno – quasi dieci anni prima del fatidico 20 Settembre 1870 – di una petizione indirizzata a papa Pio IX per la rinuncia spontanea al governo politico di un territorio che, tanto più dopo l’impresa garibaldina nella Sicilia e nel sud continentale, spezzava in due lo stivale italiano. Grande anima, il canonico Muzzetto, presbitero non vescovo.
Direi – se qui mi è concessa, ad ulteriorem, una parentesi – che questo filone di ricerca seguito da uno studioso che si sa anche abile, invitante scrittore ed oratore, è particolarmente nelle sue corde, direi è pertinente al suo sentimento di presbitero, alla sua realizzata vocazione di vita, di fianco agli altri prevalenti quattro o cinque che ne hanno impegnato le energie lungo molti anni: quello dei governi episcopali in Sardegna (si considerino, per brevità, gli ultimi testi sugli arcivescovi Balestra, Rossi e Piovella, o il molto scritto sui presuli ozieresi, o ancora i recenti volumi su “I vescovi sardi al Concilio Vaticano II”, Fonti e Protagonisti, 2013 e 2014); quello sulle famiglie religiose femminili (vedi la curatela di “Congregazioni Religiose e Istituti Secolari sorti in Sardegna negli ultimi cento anni”, 2000) e su alcune delle figure d’eccezione di quel mondo (le madri Maria Giovanna Dore e Maria Michela Dui, ma così la stessa Bianca Pirisino ed anche Maria Agnese Tribbioli, per non dire di quelle altre religiose e laiche-religiose riunite in “Donna, Chiesa e società sarda nel Novecento”, 2011 ); quello sulle fonti archivistiche, per lo più riferite all’archidiocesi di Cagliari (da “Libros intitulados Quinque librorum”, 2000, a “Inventario Quinque Libri”, 2003, a “Inventario Contado ria Generale”, 2006, a”Gli archivi parrocchiali”, 2008, ecc.). Cui aggiungerei, certo semplificando molto, la pista degli approfondimenti sulle vicende della sua diocesi d’origine – Bisarcio-Ozieri cioè – con i suoi vescovi e il suo clero, il laicato e i religiosi, perfino i suoi giornali; quella delle istituzioni formative della Chiesa sarda, come il seminario di Cuglieri e la facoltà di Teologia a direzione gesuitica (ve ne sono rilevanti report nella serie di “Theologica e Historica”, annali da mettere in parallelo, per taluni aspetti almeno, ai trimestrali numeri del “Notiziario Diocesano” di Cagliari nei lunghi anni dell’episcopato di don Ottorino Pietro Alberti ed inizialmente anche del successore ); e quella sulle tracce sardofone della religione dei padri e delle madri, intendo ad esempio “Un catechismo in sardo del 1777” (2004), “De s’imitassione de Cristos” (2008), e già il saggio “In nomini de su Babu, de su Fillu, e de su Spiridu Santu. Aici siada. Un catechismo sardo del 1834”, rifluito quindi in ”Studi in onore del Cardinale Mario Francesco Pompedda”, raccolta da Cabizzosu stesso curata (2002), ecc.
Sono pochi, quasi rapsodici cenni, questi, di una produzione assai più complessa che danno però una idea – soltanto scorrendo i titoli – di come l’universo clericale e religioso, isolano in larga prevalenza, sia trattato da una parte evidenziando l’humus sociale nel quale germinano personalità, collettività ed eventi, dall’altra rilevando distinzioni e peculiarità, carismi speciali insomma offerti per il più alla socialità, talvolta alla contemplazione. E la “fascia” dei presbiteri, degli anziani di comunità cioè, costituisce, ripeto, una componente non soltanto centrale per l’atomismo o la capillarità del servizio reso nei più vari territori o segmenti tipologici della popolazione, ma anche per la declinazione di una ministerialità che riesce a sposarsi, pur in un sentire universale, ad ogni particolare bisogno interno a condizioni materiali di vita, culture e costumi strutturati e consolidati.
Ma, tornando al punto – alla bibliografia cioè – e concludendo, credo che il riferimento ad un titolo sopra menzionato meglio aiuti a posizionare, anche rispetto al magnifico areopago dei suoi confratelli, il biografo di don Salvatore Casu: “Percorsi di fede e ricerca scientifica di un presbitero sardo”, in cui il sensus cordis presbiterale è rivelato in pienezza.
Perché l’autore che pur si è distinto per lunghi anni nel servizio della docenza universitaria e in quello della ricerca scientifica – ambiti che a prima vista parrebbero averlo tentato a una autosegregazione intellettualistica o comunque ad una separazione dalle complessità sociali del quotidiano –, sempre ha alimentato la sua vocazione dando contenuto proprio al suo ministero intensamente presbiterale. Così ha fatto, a prescindere anche dalla remota responsabilità della Pastorale giovanile nella sua Ozieri (1984-1986) e nel decennale parrocato svolto a Bottida (1986-1995) e già prima nelle funzioni ausiliari e vicarie a Berchidda (1975-1980), anche nell’esercizio di ruoli dotti a Cagliari: perché nei diciotto anni di direzione dell’Archivio Storico Diocesano di Cagliari egli ha plasmato la sua comunità di collaboratori professionali o volontari in un’autentica parrocchia, combinando spiritualità e familiarità in un perfetto spirito ecclesiale. Così ha fatto nel concreto, nel corso dello stesso lungo periodo, offrendosi alla collaborazione feriale in diverse parrocchie cagliaritane ed a quella festiva nella sua diocesi d’origine. Così ha replicato la gioventù, ed ancora in pienezza, già da due anni, ad Ardara, faticando ma anche godendo di quanto la fiducia e la confidenza dei suoi ottocento parrocchiani gli concedono.
Ecco la prospettiva che mi sono dato nella lettura (avidamente santa) della biografia di don Salvatore Casu: mettendo accanto all’umanità di questi quella dell’autore, associando idealmente i due sacerdozi ministeriali, affiancandone le basi vocazionali e gli approdi sempre provvisori nell’avvicendamento dei servizi cui entrambi sono chiamati, come si dice, per il bene delle anime.
Integrazioni bibliografiche e una riflessione a latere
Ritorno a don Casu, intanto per minimi dettagli bibliografici o rettifiche di quanto scritto qua e là circa quanto ha preceduto il suo lungo e centrale servizio nella comunità pirrese di San Giuseppe. Del suo servizio giovanile a Sinnai, all’indomani della ordinazione, è traccia anche in una testimonianza resa da don Antonino Orrù, vescovo emerito di Ales-Terralba, che lo ebbe vice parroco negli anni della sua infanzia (cf. “Personaggi illustri: Mons. Antonino Orrù”, in www.pbcsinnai.it/index). Il suo nome è ricordato anche nella sezione elencativa dei parroci e viceparroci di Santa Barbara in Augusto Anedda, “Sinnai e le sue chiese. Guida storico-artistica”, Cagliari, 1982, p. 35.
Sembrerebbe invece un errore materiale di rilevazione quanto riportato da Cesare Meloni e Cenzo Perra in “La chiesa madre. Percorsi storico-artistici nella chiesa di Quartu Sant’Elena”, Cagliari, AMD, 2001, pag. 97, secondo cui il sacerdote, vice parroco a Quartu dal 1° ottobre 1940, qui sarebbe giunto da analogo ufficio in Villasalto «con servizio a Simaxis», centro dell’Oristanese e non nella giurisdizione di Cagliari.
Le funzioni di coadiutore svolte a Samassi fra il 1945 ed il 1946 saldano, salvo errore, il parrocato dell’anziano ed infermo don Antonio Bandino (deceduto nel marzo 1947) e l’entrata nelle medesime funzioni da parte di don Emanuele Mocco, avvenuta nel settembre 1946. Così dalle evidenze di “Karalis Nostra” ed. 1956 e nel confronto con “Sardinia Sacra” ed. 1937.
Notizie sintetiche riguardo all’Istituto sanlurese nel 1950 passato ai padri scolopi, ma per la parte relativa al quadriennio precedente è in AA.VV. (in preponderanza di Francesco Colli Vignarelli) “Sanluri, terra ‘e lori”, Cagliari, 1965 pp. 171-172. «Quando, nel tormentato dopoguerra, i militari lasciarono l’ospedaletto di Sanluri, un Arcivescovo dal cuore grande, Mons. Ernesto Maria Piovella, pensò di rivolgersi all’Autorità competente per ottenerne l’uso e fondarvi una scuola media mista e un convitto maschile. L’idea era ottima non solo per i fini educativi che il pio Arcivescovo con ciò si proponeva, ma anche perché tale fondazione rispondeva ad una viva esigenza di molte famiglie di Sanluri e dei paesi vicini, costrette a mandare i figlioli alle scuole di Cagliari.
«Ottenuti i necessari permessi e firmata una convenzione tra il Parroco di Sanluri e l’Amministrazione militare (12 gennaio 1946) circa le condizioni di concessone novennale di una parte del compendio Ex-ospedaletto militare, Mons. Piovella incaricava i sacerdoti don Salvatore Casu e don Cesare Perra, oggi parroci, di occuparsi della nuova istituzione, mente la presidenza delle scuole veniva affidata a Mons. Vincenzo Corrias». Fra gli altri insegnanti ed educatori si ricordano don Andrea Cocco, il prof. Gino Porrazzo, poi sacerdote, i proff. Elio Salabelle, Gesuino Paderi, Vincenzo Congia, Carlo Porru, Pietro Mudu, Pina Marrocu. Fino al 1950, quando ai diocesani subentravano gli scolopi.
Per una di quelle singolari coincidenze che è possibile cogliere nella storia di istituzioni complesse quale è la Chiesa cattolica, è da segnalare che don Casu lascia Sanluri quando, nel 1950, nella parrocchia di Nostra Signora delle Grazie don Ezio Sini (provenendo da San Bartolomeo a Cagliari) subentra all’anziano don Celestino Fois. Così press’a poco avverrà, più tardi, a Sant’Eulalia. Qui infatti, trascorsi i mille giorni di parrocato sanlurese, don Sini giungerà per rilevare la presidenza del confratello don Floris e circa un anno dopo don Casu, che da Sanluri ha appunto raggiunto la parrocchia della Marina, lascerà questa sede per fondare la parrocchia di San Giuseppe a Pirri.
Le edizioni 1960, 1962, 1967 e ancora 1971, 1974, 1977 e 1981 di “Karalis [o Caralis]Nostra” segnalano don Casu nella commissione dei censori (o revisori) per la stampa, all’inizio con il delegato arcivescovile Pasquale Sollai, il presidente (ff. decano) capitolare Elvio Sitzia, diversi altri colleghi secolari e regolari.
Le edizioni 1962 e 1967 lo includono anche fra i docenti del centro di aggiornamento pastorale (attivo dal 1961) presso il seminario minore ormai trasferito nel nuovo stabilimento alle pendici del colle San Michele. Con lui sono docenti anche il decano capitolare Elvio Sitzia, don Giovanni Axedu parroco di Sant’Anna (dal 1965) e don Pier Giuliano Tiddia nuovo rettore del seminario arcivescovile. A supporto opera la libreria Sant’Eusebio.
Le edizioni 1967, 1971 e 1974 lo indicano altresì, rispettivamente, come membro (nominato o di diritto in quanto delegato per la pastorale) del Consiglio pastorale istituito dopo la conclusione conciliare e del Consiglio presbiterale (1970-1973, 1973-1976, in ultimo come moderatore).
Le edizioni 1969 (aggiornamento sommario) e 1971 lo danno giudice del Tribunale Regionale Sardo (officiale don Gesuino Martis), mentre quelle 1974, 1977 e 1981 lo elencano fra gli esaminatori pro sinodali.
L’edizione 1990 lo segnala canonico effettivo del Capitolo metropolitano dal 1° gennaio 1984.
Questi rapidi riferimenti bibliografici, evidentemente, pur nella loro marginalità, integrativi dei titoli riportati in nota dall’autore, insieme con alcune considerazione qui a seguire, all’apparenza anch’esse assolutamente marginali quando riferite e confrontate all’abbondanza dell’opera viva di un sacerdote colto ed autorevole (certamente non soltanto per l’imponenza della figura), organizzatore nato e versatile, concreto e duttile nella materiale applicazione ai programmi cantierati in spirito di condivisione, vogliono come separare, in questa rassegna di appunti offerta di supporto ad una vera e propria recensione del libro di Cabizzosu, la pagina riguardante la residenza alla Marina da quella, cento volte più dinamica e creativa afferente la missione pirrese.
La considerazione sopra anticipata collega infatti, nel negativo incolpevole, l’una esperienza e l’altra. Ed è lo stesso Cabizzosu, a piè di pagina a riferirne e a dare qui lo spunto per alcune riflessioni di più largo raggio.
Perché se a pagina 68 è dettagliato l’elenco degli oggetti (liturgici in prevalenza) rubati a Sant’Eulalia nel 1974, poco dopo la riapertura della chiesa a conclusione dei lavori di emergenziale restauro conservativo, ecco che già analoga lista è comparsa a pagina 36, nel denso capitolo riferito al parrocato costituente di San Giuseppe. Tempistica decennale. Il primo furto è infatti del dicembre 1964. Allora don Cauli, sconsolato, stila il mesto inventario: «Nel tabernacolo: una pisside grande d’argento, una pisside piccola di metallo argentato dorato. In sacristia: un calice di metallo dorato, una pisside piccola di metallo argentato dorato, un leggio di metallo dorato, un vasetto di olio degli infermi, un aspersorio, un magnetofono Philips, una macchina da scrivere Remington, una addizionatrice Remington, un giradischi Lesa. Nell’ufficio parrocchiale: un calice d’argento, cesellato con figure a sbalzo Ultima Cena e nodo d’avorio a forma di croce, denaro per complessive lire centomila circa».
Un’emergenza permanente – dunque ancora attuale – per le chiese, anche quelle cagliaritane e sarde, cui non pare si sappia efficacemente far fronte. E’ ben vero che, rispetto ad epoche trascorse, oggi gli orari di apertura sono molto più ridotti ed è perciò teoricamente ridotto il rischio di delittuose asportazioni. Ciò non di meno non sembra che chi di dovere sia in grado di combinare liberalità fiduciaria (tanto più pertinente ad un ambiente sacro) e rigore protettivo di beni che appartengono a tutti, e prima di tutto ad una storia – la storia delle “cose” – che vanta pure essa un portato di dignità, come fil rouge di generazioni in flusso temporale, beni che sono testimoni e strumento delle devozioni popolari, molto spesso prova anche di genio artistico nella ideazione e nella manifattura.
Gli Uffici diocesani dei Beni culturali – Cabizzosu stesso ne è a capo ora nella sua diocesi d’origine e recuperata residenza, Ozieri cioè – dovrebbero procedere, meglio di quanto si sia fatto finora, e con il supporto delle Soprintendenze, alle catalogazioni e classificazioni tecniche, attivando quindi, d’intesa con i referenti di territorio o di presidio (non necessariamente i parroci, finalmente non necessariamente i parroci omnibus!), le modalità insieme di tutela e di valorizzazione, nella logica della unitarietà della storia, che non distingue per separare ma per identificare, fra religioso e civile.
Non entro quindi in altri aspetti dei colpi malavitosi, riferibili alle attività di doverosa repressione della forza pubblica ed agli sciacallaggi di ricettatori e mercanti banditeschi dell’oggettistica sacra. Noi cagliaritani portiamo tutti la triste memoria del furto nella cattedrale di Castello del 1984, cui forse si riconnette anche il delitto rimasto impunito del quale fu vittima, quattro anni dopo, don Tonio Pittau: un nome che riporta anch’esso ad una stagione pastorale in San Giuseppe. Resto sul punto, non mancando neppure di considerare che il fenomeno non investe soltanto le chiese (dove, magari a distanza di anni, possono anche aversi dei ritorni inaspettati e insperati, ancorché soltanto fortuiti, come è stato di recente per il Sant’Agostino della chiesa-gioiello di via Baylle).
Qualcosa va meglio regolato, inoltre, circa le dotazioni artistiche delle chiese storiche in progressivo o stagnante (definitivo?) abbandono – sono una decina almeno –, ancora preda di assalti dei più volgari lanzichenecchi nostrani o d’importazione. La cognizione che ne ha l’opinione pubblica è di una permanente esposizione al rischio.
Gli anni della formazione, dal Tridentino al Regionale. Parla don Cauli
Classe 1913, nativo di Tunisi – battezzato nella contrastata chiesa cappuccina di Santa nella Medina –, ma sardo sardissimo di genitori e avi e formazione, dal 1926 chierichetto a San Vito Martire parrocchiale di Gergei cuore del Sarcidano (fra Marmilla e Trexenta), studente ginnasiale al seminario arcivescovile di via Università – il nostro Tridentino! – dal 1928 al 1931, frequenta il corso filosofico (con finale baccalaureato) e poi accademico al regionale di Cuglieri dal 1931 al 1938, anno, oltre che della licenza in teologia, anche della ordinazione avvenuta nel duomo di Cagliari, officiante l’arcivescovo Piovella: lui il 53° dei cento chierici ordinati da quello che fu il più longevo dei presuli cagliaritani forse dell’intera storia bimillenaria dell’archidiocesi.
E’ sempre affascinante viaggiare nella vita del nostro prossimo, quando ci è dato il compito di raccontarlo nelle sue dimensioni più intime (ammesso sempre che ciò sia possibile), ripercorrendone le fasi formative. E Cabizzosu questo fa in diverse pagine del libro biografico, riferendosi ai corsi di studio di don Salvatore Casu. Lo fa forse anche con la mano (e naturalmente la mente) del docente in esercizio, e con la memoria ancora vivida della personale esperienza di studente. E d’altra parte – ne ho soltanto accennato – egli ha scritto molto tanto del Regionale di Cuglieri (e, dal 1971, di Cagliari) quanto della facoltà di Teologia. Così con “Il Seminario Regionale di Cuglieri (1927-1971): sviluppo, crisi e rinnovamento “, in “Theologica e Historica”, vol. XVI (2007), idem in “Ricerche socio-religiose” ecc. (2009), così anche con il contributo su “Alcuni aspetti dell’insegnamento teologico a Cuglieri dal 1927 alla Vigilia del Vaticano II”, in “Iuventuti docendae ac educandae. Per gli ottant’anni della Facoltà Teologica della Sardegna”, Cagliari, Aìsara, 2007 (curato insieme con Luciano Armando).
Anche per ragioni amicali, ho avuto la fortuna di interrogare a lungo, anni addietro, il caro, compianto don Ottavio Cauli, orrolese, compagno di studi di don Salvatore Casu, fra Cagliari e Cuglieri, fino al comune ritorno a Cagliari per la ordinazione presbiterale, nella solennità della Assunta, avvenuta nella primaziale dedicata propriamente a Santa Maria assunta in cielo, unitamente a due altri compagni di corso: don Abis e don Valenti. Quanto confidato relativamente alla propria esperienza, con gustosa esplosione di colori, nelle parole di don Cauli si apre ovviamente al vissuto collettivo di quella comunità e di quella specifica camerata. E lo stesso nome di don Casu ritorna – cinquanta e sessant’anni dopo – nei ricordi del parroco che sarà fondatore di San Pio X a Cagliari, meno d’un biennio dopo che a Pirri ha preso corpo la parrocchia sorella di San Giuseppe (cf., del sottoscritto, “«La patristica, il gregoriano e la pallavolo», in “Notiziario Diocesano” di Cagliari, n. 2/gennaio-marzo 2004).
Eccone alcuni stralci che credo validi ed efficaci, partendo dal Tridentino di via Università. Applicando almeno in parte la proprietà transitiva, potremmo riportare allo stesso don Casu le considerazioni di don Cauli:
«Quello di Cagliari era un piccolo seminario, anche se era ospitato in un bel palazzo, ma c’erano delle grandi carenze logistiche, igieniche, ogni camerata aveva a disposizione un piccolo gabinetto, non ci facevamo mai il bagno […]. Qui, una volta ogni 15 giorni, mi pare, ci facevano lavare i piedi… Così, quando passavano in piazza Martiri, queste file di seminaristi lasciavano dietro una puzza…
«Dal punto di vista formativo, c’era questo insistere sulle devozioni. Verso metà mese facevamo il ritiro spirituale, e si finiva con la preghiera per ottenere una buona morte. Ad ogni invocazione c’era un “Misericordioso Gesù, abbi pietà di me, quando i miei occhi spenti e tremanti…” e frasi del genere. Oggi, a posteriori, penso: ma perché invece di farci pregare per crescere sani, buoni, per crescere nella virtù e nella salute, a noi che ci affacciavamo alla vita ci facevano pregare per una buona morte?
«Ciascuno si portava la sottana da casa. Quella era obbligatoria. La nostra divisa era la talare con la zimarra. Era una talare senza maniche, con una piccola cappa che copriva le spalle e il berrettino.
«L’abito, e cioè l’essersi mostrato con l’abito, può aver indotto qualcuno a continuare sulla via del sacerdozio perché, se se ne fosse andato, tornando in paese certamente gli avrebbero appioppato il soprannome di “predi scullau”, e magari ci sarebbero stati i ragazzacci a seguirlo gridandogli dietro “predi scullau”…
«Al Tridentino la levata era alle 6, alle 6,30 eravamo in cappella per la meditazione e la messa, alle 7,30 c’era la prima colazione, alle 8,30 l’inizio delle lezioni, erano quattro ore di mattina e due di pomeriggio. Di sera, dopo le due ore di scuola, si usciva tutti i giorni per una passeggiata verso i giardini pubblici, verso Buoncammino, un’oretta di aria aperta. Cagliari però l’ho conosciuta dopo, dopo che ho letto… mi sono interessato di questa città: che cosa aveva di bello, di antico, ecc.
«Andavamo in cattedrale tutte le domeniche, a classi alternate, però nessuno mai che ci avesse spiegato cosa significasse “cattedrale”, quali erano le parti più pregevoli, gli stili architettonici, questo mancava […].
«Il fatto che dovessimo andare a Cuglieri a sostenere gli esami di ammissione al liceo, era già una cosa che, specialmente in quarta e in quinta ginnasiale, ci metteva la zanca, perché cercavamo di fare bella figura anche per la Diocesi, non potevamo mica andar lì a far fare brutta figura.
«Dei compagni di quegli anni ho conservato un bellissimo ricordo […]. Ricordo in particolare uno che poi è andato salesiano: Terenzio Sanna, molto buono. Ricordo qualche altro che è morto da sacerdote: don Antonino Abis di Quartucciu, un santino proprio […]. Ho un ricordo gradevole di monsignor Valenti, che è finito a Roma […]. Ricordo monsignor Salvatore Casu, che è un canonico del Capitolo, col quale siamo stati sempre molto uniti. Quest’anno è morto don Pibiri, molto bravo anche lui, era stato cappellano militare in guerra, con i tedeschi del maresciallo Rommel, che comandava le truppe in Africa […]. Un altro che sopravvive e che farà 60 anni di messa l’anno prossimo è monsignor Giovanni Serra. E poi monsignor Salvatore Lecca, che fa 61 anni, perché ha detto messa nel ’37[…].
«Le famiglie dei ragazzi davano ciascuna quello che poteva: c’erano quelli fortunati, per esempio quelli di Nuraminis, di San Sperate, che godevano di borse di studio fondate anticamente, come quella del cardinal Cadello per i ragazzi di San Sperate […].
«Io ho un ricordo proprio affettuoso dei miei professori di latino della prima, seconda e terza ginnasiale. Erano monsignor Manunza e don Cosentino, quest’ultimo zio questo degli ottici di via Manno […].
«Ecco, i professori del Tridentino erano preti che avevano l’incarico di insegnare, e lo facevano con molta attenzione, lo facevano con molto rispetto verso noi che eravamo proprio ragazzini […]. E insegnavano anche con molta chiarezza. […]. Erano beneficiati della cattedrale e l’arcivescovo dava loro questo incarico, che per loro era un incarico onorifico, si sentivano proprio al servizio della Diocesi insegnando gratuitamente in seminario.
«Della quarta e quinta ginnasiale ricordo, con molto affetto, per le materie letterarie, monsignor Lai-Pedroni, che insegnava italiano e francese, e monsignor Giuseppe Orrù, originario di Orroli, professore di greco. E’ poi diventato delegato dell’arcivescovo Piovella per le Ancelle della Sacra Famiglia.
«C’erano poi le materie scientifiche. Funzionava anche al Tridentino di Cagliari il gabinetto di fisica, dove trovavo tutti quegli strumenti necessari a capire come si conduce l’elettricità, o la rotondità della terra…, insomma, una saletta abbastanza attrezzata. Il professore della materia era monsignor Francesco Cogoni, futuro vescovo di Ozieri, che era laureato in fisica e in scienze, e per qualche anno era stato anche docente al liceo scientifico […].
«Dall’altra parte del cortile interno c’era, e c’è tuttora, la piccola terrazzina che unisce le due ali del seminario che formano una U: la facciata sulla via Università, due bracci verso la Marina. Lì c’erano due aulette scolastiche, e qualche volta si vedeva il parlatorio, l’ingresso solenne del seminario, molto bello, arioso, con grandi archi, grandi pilastri. Venivano per la ripetizione di latino – allora erano proprio piccoli – Paolo De Magistris e suo fratello minore Luigi, oggi vescovo, che è diventato un gran latinista […].
«Anche questa vicinanza è rimasta bene impressa nella mia memoria, soprattutto i contatti con i giovani universitari, perché in una sala, che era stata l’aula magna della vecchia facoltà di teologia dell’università, c’era la sede della FUCI, cioè degli universitari cattolici. C’erano, in quegli anni che ricordo, i fratelli Diaz, i Cerioni, Cenzino ed Efisio Corrias, tutti grandi. Venivano lì perché c’era la FUCI.
«Non è che fra noi e questi giovani ci fosse un muro, anzi. Quelli della Congregazione mariana festeggiavano il giorno dell’Immacolata, che era la loro festa, proprio in seminario, con una grande accademia letteraria. Per carnevale, poi, organizzavano delle recite, avevamo nel sottosuolo un teatrino. Tutte cose che a Cuglieri non c’erano.
«Gli esami, a fine anno scolastico, li facevamo ovviamente in seminario. A Cuglieri si andava, a giugno, per l’esame di ammissione dalla quinta ginnasio al primo anno di liceo. Si era ammessi al liceo o non si era ammessi. Noi di Cagliari eravamo in diciannove, quando siamo andati al regionale di Cuglieri. Siamo stati tutti promossi, però al sacerdozio siamo arrivati in quattro: io, monsignor Casu, monsignor Valenti e don Abis. Quando siamo stati ordinati, però, c’era con noi anche un salesiano che era laureato in ingegneria, Giuseppe Cadoni di Villacidro. Poi c’erano due francescani, dei quali ne sopravvive uno, padre Gerolamo Pinna, che mi ha fatto gli auguri il giorno dell’Assunta, perché anche lui era stato ordinato il giorno dell’Assunta, e si trova ora al convento di Ittiri.
«A Cuglieri c’è stato l’impatto con le altre diocesi, perché non ci conoscevamo. Io dico questo: se il seminario regionale ha un merito indiscutibile, è quello di aver unito il nord e il sud della Sardegna, perché prima l’isola era divisa in un capo di sopra e in un capo di sotto, con scontri storici [...]. Conoscendoci, fra noi tutti, ragazzoni oltre i 18 anni, si sono fatte tante amicizie, sono caduti tanti pregiudizi, ci siamo conosciuti a vicenda e quindi questo è stato un grande bene per la Chiesa sarda. Anche perché, poi, tutti gli anni si riunivano a Cuglieri i vescovi dell’isola: c’era già il germe di quella che si chiama Conferenza Episcopale Sarda. Tutti gli anni venivano per una settimana a Cuglieri: c’era il giorno del ritiro, poi discutevano dei problemi pastorali comuni a tutte le diocesi, ciascuno riceveva i suoi chierici, anche per conoscerli un po’ meglio. La Santa Sede, quando ha costituito questi seminari regionali, ha estromesso i vescovi dalla loro gestione. I gesuiti dovevano rendere conto solo alla Congregazione dei seminari e delle università, non ai vescovi. Se un vescovo veniva a Cuglieri, per poter parlare con i suoi chierici doveva chiedere il permesso al padre rettore.
«L’idea stessa del seminario maggiore regionale è stata un bene. Perché sono scomparse le due antiche facoltà di teologia di Cagliari e di Sassari, che a livello catechistico potevano reggere, non a livello scientifico però. Basta dire questo: il Migne, la patrologia greca, è un’opera immensa, perché sono più di trecento volumi in folio, in cui sono contenuti tutti gli scritti della patristica greca e della patristica latina, fino al 1400 circa. Nella facoltà teologica di Cagliari, non c’era il Migne. A Sassari, pure sede di facoltà teologica, c’era il Migne. La biblioteca del seminario regionale la si è fatta tutta con gli apporti diocesani. Il Migne che c’era, e che c’è tuttora, fu regalato dalla diocesi di Alghero, che ne aveva due copie […].
«Da parte dei gesuiti c’era una certa supponenza nei riguardi del clero anziano, perché lo vedevano ignorante. Io, per l’esperienza che ho avuto di sacerdoti, – sia diocesani che religiosi, cioè di frati – non condivido quel loro giudizio […]. L’ultimo laureato di Cagliari fu monsignor Dino Locci, perché nel ’34 [recte: 1931] uscì la “Deus Scientiarum Dominus” di Pio XI, che aboliva tutte queste facoltà ed aveva allora eretto, nell’Italia meridionale specialmente, questi grandi seminari regionali, che ebbero il merito di riunire anche culturalmente il clero che andava formandosi. Erano una quindicina questi seminari regionali. Solo a Cuglieri eravamo circa trecento giovanotti. C’era un cospicuo corpo insegnante, c’era il personale di servizio, i camerieri, ecc. Che andavano pagati, e la Santa Sede come ha potuto se n’è scaricata… Se non ricordo male le famiglie dovevano contribuire con 1.500 lire all’anno, in quel tempo…
«A Cuglieri, a differenza che a Cagliari, cioè a differenza del nostro Tridentino, eravamo molto segregati […]. Il liceo l’ho fatto senza sforzo, arrivavo a Natale e avevo già tradotto tutti i testi di greco e di latino, poi vivevo di rendita… Il primo anno avevo tradotto dal greco le Trachinie di Sofocle ed il Prometeo di Eschilo. Eschilo è molto duro, molto difficile. Uno di quei professorini spagnoli ci aveva chiesto una volta: “Di greco che cosa traducete? “. Io gli avevo risposto: “Il Prometeo incatenato”. Ed ecco che lui si mette a declamare ritmicamente un coro dell’Eschilo: “Oh sole, oh sole ti invoco…”. Si chiamava padre Francesco D’Assisi Solà. L’altro invece, quello che ho avuto come professore di psicologia ed etica, poi professore di fisica, era padre Levin, che successivamente è uscito dalla Compagnia. Parlava l’italiano meglio di noi […].
«Lo spirito di emulazione tra le varie diocesi ci ha aiutato molto, perché tutti desideravamo tenere alta la bandiera. C’era, fra noi, un forte spirito di corpo, senza fanatismi però. C’era e si sentiva: tu sei di Sassari, io sono di Cagliari. Mi ricordo che avevo detto a papà: “Questi caposopresi ci dicono maurreddus, ma si può sapere perché?”. Lui mi aveva risposto che maurreddu in sardo si riferisce alla zona che storicamente era la più esposta ai maurreddi, cioè ai saraceni,… “oppuru giaurru”. Si parla della Cabilia, dell’Algeria, no? La Cabilia identifica i paesi dell’interno, il villico, o “giaurru”. Ho scoperto che questa è una parola o araba, o turca, certo usata dai turchi, “giaurru” vuol dire miscredente. Ci ridevamo su queste cose qui, anche perché eravamo ragazzi ormai già grandi.
«All’inizio facevamo delle partite di calcio animatissime, poi avevano abolito il calcio. Perché? Perché giocavamo con la veste talare, e c’erano ragazzi però che usavano i calzoni corti, quindi si scoprivano le gambe, e i gesuiti insistevano molto su questo fatto delle amicizie particolari. Così, però, si otteneva forse proprio l’effetto contrario, anche perché l’adolescenza, più che la gioventù, è la vita affettiva che scoppia, no? Quindi, se non si sta attenti si possono dirigere gli affetti in posizione sbagliata. Era esagerata questa insistenza sullo stare in guardia dalle amicizie particolari…, finiva che uno, innocente, si chiedeva che cosa fossero queste amicizie particolari… Comunque non mi risulta si siano mai verificati episodi deprecabili.
«Finita l’era del calcio, si è diviso il campo centrale dove giocavamo e si sono ottenuti due campi di pallavolo […]. Ciascuno giocava con la propria classe, per esempio la prima liceo sfidava la seconda.
«A Cuglieri c’erano tre camerate di liceo e quattro di teologia. Ogni camerata comprendeva fra i 30 e 35 alunni. Mentre la prima liceo era abbastanza numerosa – forse erano anche 35 o 37 ragazzi –, la seconda e la terza erano più snelle. Ogni tanto succedeva che qualcuno andasse via.
«In liceo io avevo come professore di italiano padre Egidio Boschi. In prima e seconda avevo avuto, però, il padre Girolamo Sessarego, genovese, preparatissimo. Ho fatto tutta la Divina Commedia: il primo anno l’Inferno, il secondo il Purgatorio… Bisognava sentire i commenti di quest’uomo […]. Poi, il terzo anno, ebbi padre Boschi, con il quale avevo fatto il Paradiso. Di latino, avevo lo stesso padre Sessarego, il primo e il secondo anno. Nel terzo anno, invece, padre Greppi, che era fatto per tutto fuorché… per l’insegnamento. Mi ricordo che avevamo una bella antologia latina, nella quale erano riportati alcuni epigrammi di Marziale […]. Come predicatore, organizzatore degli uomini era invece impareggiabile. Proveniva dal Piemonte, era della provincia torinese.
«Di greco avevamo quello che era professore di Sacra Scrittura ai corsi teologici, cioè monsignor Francesco Sole, che aveva la licenza in Sacra Scrittura, non la laurea ma la licenza che era equiparata alla laurea, che maneggiava il greco. Era quello che sceglieva Il Prometeo incatenato e le Trachinie… Il terzo anno di liceo abbiamo poi tradotto opere di San Giovanni Crisostomo, che era un grande scrittore, anche di greco, era il greco classico. C’era quel libro con le lettere alla diaconessa Olimpia, che ricordo con piacere, perché quel santo vescovo scriveva dall’esilio a questa diaconessa, a questa signora, diciamo, con le espressioni più tenere, più affettuose, un po’ come San Francesco di Sales con Santa Francesca Chantal.
«Di scienze, il primo anno avevo avuto padre Lanz, che è stato un sant’uomo, ma in quanto a preparazione o pratica non ne aveva proprio…, ed in seguito – in seconda e in terza – questo padre Francesco D’Assisi Solà, di Barcellona, e padre Levin. Scienze era una materia globale, c’era dentro matematica, algebra, trigonometria, logaritmi, botanica, zoologia, fisica con tutte le sue parti…
«Per quanto riguarda la musica, io sono stato fortunatissimo perché ho imparato il gregoriano. Tutti i giorni, dal lunedì al sabato, veniva un chierico già esperto col quale imparavamo i canti, tutti in gregoriano puro, della domenica seguente. La domenica e nelle grandi feste c’era la messa polifonica. Questo professore di musica aveva messo su una schola cantorum molto attiva, molto vivace, con messe di grande peso, la messa solenne di Beethoven, di Palestrina…
«Al ginnasio si faceva canto, perché ci insegnavano canto pratico, ecco, ma non teoria. A Cuglieri si studiava anche la teoria, si studiavano le note gregoriane, ecc., ed alla fine del quarto anno di teologia si faceva un esame specifico sul canto gregoriano, anche se non rientrava nelle materie curricolari. Dicevano: “Mi legga questo”, oppure: “Mi canti questo”… Io ho svolto il corso magistrale, ho il diploma, e mi avevano fatto cantare, all’esame di musica, proprio l’introito della Pentecoste: “Spiritus Domini replevit orbem terrarum, alleluia…”».
Fin qui don Ottavio Cauli, memoria magnifica, personalità carissima e conquistatrice.
Puntuale, relativamente alla formazione seminaristica di don Casu, la nota di Cabizzosu che, riepilogandone la carriera nel quadriennio teologico accademico, conclusosi con la licenza il 19 luglio 1938, equipara il titolo al diploma di laurea, secondo le norme interpretative della curia vaticana competente che saranno esplicitate nel 1947. Dunque, dottor Salvatore Casu.
Attenzione alle date: 19 luglio 1938. L’ordinazione presbiterale sarebbe venuta il 15 agosto successivo. La visita del cancelliere tedesco Adolf Hitler a Roma si era svolta il 6 maggio, e il papa s’era allora ritirato a Castelgandolfo per non rischiare di dover incontrare il Fuhrer. Il decreto legge governativo circa la “difesa” della razza ariana da quella ebraica sono del 5 settembre.
Nell’Isola usciva allora, e già dal gennaio 1928, forse sola testata non fascista, il settimanale “La Sardegna Cattolica”, diretto dal canonico Giuseppe Lai Pedroni (come detto, prossimo vicario generale con monsignor Botto arcivescovo) e condiretto da don Giuseppe Lepori (prossimo storico parroco di San Lucifero e, già prima e per quasi un decennio, negli anni ’50, già in democrazia e in repubblica, direttore de “Il Quotidiano Sardo”).
Va detto che, per lo meno in quei mesi, forse anche per il contesto internazionale che vedeva la Chiesa sostenere le ragioni falangiste del generale Franco contro i repubblicani spagnoli nella guerra civile allora in corso nella penisola iberica, il giornale cattolico di Cagliari non onorò, per lucidità di giudizio, la causa dei diritti umani e della libertà bene fondamentale dell’uomo. I condizionamenti furono allora enormi, ciò non di meno un lettore d’oggi, storicista disincantato, non potrebbe non sorprendersi per tanta marcata propensione filofascista e, in taluni passaggi, perfino filonazista, di taluna delle firme in affaccio sulla stampa diocesana o interdiocesana della Sardegna. (Pagine antisemite sono riconducibili, sul settimanale sassarese “Libertà” del 1938, perfino a don Antonio Tedde, prossimo vescovo di Ales-Terralba. Cf. Guido Rombi, Chiesa e società a Sassari dal 1931 al 1961. L’episcopato di Arcangelo Mazzotti, Milano, Vita e Pensiero, 2000, p. 139).
Anche Giovanni Serra, nel suo lavoro essenzialmente compilativo sulla storia de “Il Capitolo Metropolitano di Cagliari. Sua nascita, suo corso storico”, Cagliari, 1996, ricorda l’ordinazione in cattedrale nel 1938. (Dei quattro nuovi presbiteri diocesani, il giovane Antonio Abis morì, salvo errore, giovanissimo, addirittura nello stesso mese in cui divenne sacerdote. Cf. Karalis Nostra ed. 1956, p. 138).
Fonte prima è naturalmente il “Monitore Ufficiale dell’episcopato Sardo”, settembre 1938, p. 140. Qui si dà notizia anche della promozione al presbiterato di fra Cristoforo Carcangiu, fra Gerolamo Pinna professi dell’Ordine dei Frati minori e di don Giuseppe Cadoni, villacidrese professo della Pia Società salesiana a lui è dedicato un interessante articolo in “La Sardegna Cattolica” n. 34 del 20 agosto 1938: “Da Ingegnere a Sacerdote”).
Purtroppo manca una memoria dettagliata della cerimonia svoltasi, come detto, la mattina della solennità dell’Assunta, un lunedì. Da “La Sardegna Cattolica” del 20 agosto 1938 abbiamo invece notizia della prima messa celebrata l’indomani nella parrocchiale di Gergei intitolata a San Vito martire ed affidata allel cure di don Roberto Atzeni (un samassese con dieci annidi messa). Per l’efficacia del “colore”, riporto integralmente la cronaca (anonima) uscita in quarta pagina, nella rubrica “Dall’Isola”, qui con il titoletto “Prima messa”, come integrazione al lavoro di Cabizzosu:
«Con lo stesso rito solenne con cui si dava gloria a Dio per l’Assunzione della Vergine venivano assunti alla sublime dignità del cattolico sacerdozio di Cristo i giovani della nostra Archidiocesi che han quest’anno terminato gli studi nel Seminario regionale.
«Dr. Salvatore Casu, prodottore in teologia, è tra questi eletti, sacerdote a Cagliari, riserverà però – ed era troppo giusto – la prima sua messa a Gergei, che vi si è preparata con fede. Con la fede delle altre volte; perché questo è un evento cui è abituato quel modesto paesello adagiato ai piedi di Santa Vittoria, protetto dall’ombra del Trempu.
«Coi primi albori l’esultanza e l’animazione si diffondono. Le campane squillano. Dal portone spalancato della Chiesa si snoda un corteo: in testa le insegne con le squadre di Azione Cattolica maschili e femminili, poi un gruppetto di Chierici, tutti del luogo, un Frate Cappuccino, quello che il 15 ha celebrato le glorie dell’Assunzione di Maria, il rev. Parroco di Serri [don Saverio Sanna], due sacerdoti nostri conterranei, il nostro don Atzeni, anima delle nostre dimostrazioni di vita cristiana.
«Clero e Autorità entrano in casa di D. Casu. Lo salutiamo, lo conduciamo all’Altare, mentre ai lati, agli sblocchi delle vie, una folla acclama al giovane avventurato, alla mamma che venuta da Tunisi piange per la gloria del figlio, allo zio Agostino, alla zia Fiorenza, che l’han circondato di cure paterne.
«L’ingresso in chiesa è salutato da un coro di voci femminili gridanti: “Tu es sacerdos in aeternum!”. Il novello sacerdote rivestito dei sacri paramenti coi sacri ministri sale l’Altare. Un popolo intero d’uomini e di donne è presente, segue devotamente lo svolgersi del Sacro Rito, interrotto al vangelo dalla voce commossa di don Atzeni che, proclamando le grandezze del sacerdozio si congratula col Nostro e chiede per tutti, parenti ed ammiratori, un ricordo in quel giorno, in quell’ora, in quell’altare.
«La benedizione papale, il bacio delle sacre palme destano una folla di sentimenti nei cuori.
«Dopo l’agape fraterna ci ritroviamo in chiesa tutti per intonare col novello Sacerdote il cantico del doveroso ringraziamento a Dio.
«La giornata si chiude con l’annunziato trattenimento musico-letterario: canti, discorsi, macchiette per tutti i gusti.
«Risuona ancora il “Tu es sacerdos in aeternum!” abbellito dalle note che le agili dita di D. Locci [don Dino Locci] fanno sprigionare dalla tastiera e dal gemito del violino cullato sul petto dello studente Spano. Il sac. Porceddu, pure gergese, prende la parola recando al Novello l’ardente augurale saluto della sua Assemini, svelando la tristizia dei tempi che rendono particolarmente difficile la missione del sacerdote, esortando il Nostro trionfarne nella fede.
«D. Casu con accenti commossi nel ringraziamento a Dio ed agli uomini strumenti nelle mani di Dio rende più incancellabile il ricordo di questo giorno».
Factotum per quindici anni, poi parroco fondatore
L’esordio diocesano, per cura d’anime, avviene per alcuni mesi, fra 1938 e 1939, a Sinnai; un anno egli lo passa alla Lateranense, dove è inviato per completare gli studi con la laurea formale, ma da dove rientra per l’avvenuta entrata dell’Italia nel secondo conflitto mondiale; per un anno circa, fra 1940 e 1941, è assegnato come vice parroco a Quartu Sant’Elena; viene quindi richiamato alle armi: per tre anni, dal 1942, è in Piemonte, ora cappellano all’ospedale militare di Savigliano ora a Scurzolengo o di rinforzo a una parrocchia torinese. Ecco uno spazio biografico che sarebbe interessante coprire con supplemento di ricerca.
Al rientro dalla guerra, nel 1945, egli replica come coadiutore a Samassi, e dal 1946 al 1950 è rettore – in team con don Vincenzo Corrias e don Cesare Perra – della scuola Sacro Cuore di Sanluri, destinato a passare agli scolopi. Il rientro a Cagliari significa per lui – secondo la volontà del nuovo arcivescovo Paolo Botto (giunto in città da un anno soltanto) – l’assistenza provinciale delle ACLI e il viceparrocato di Sant’Eulalia, dapprima in quanto collaboratore di dottor Mario Floris, quindi vice di don Ezio Sini. Sono altri quattro intensissimi anni di lavoro. E finalmente arriva, per lui, nel 1954, una missione di più lungo periodo, forse “la” vera missione della sua vita: deve fondare, nella frazione di Pirri, la parrocchia di San Giuseppe, che sarà formalmente costituita il 1° ottobre. Una parrocchia capace di dividere le fatiche dell’apostolato con quella storica e centrale di San Pietro, la cui giurisdizione si estende su una piana presidiata da numerosi altri (e per il più malandati e perfino residuali) edifici sacri, da Santa Rosalia a San Nicolò, da Santa Rosa a San Teodoro, a, naturalmente, Santa Maria Chiara.
Cabizzosu offre una bella panoramica dei dinamismi impressi alla maggiore delle diocesi sarde dal nuovo arcivescovo Paolo Botto. Uno dei segnali di questo dinamismo perfino impetuoso, e in linea perfetta con lo sviluppo anche edilizio degli anni ’50 nel capoluogo provinciale e regionale, è dato dalla fondazione di nuove parrocchie. M’è occorso di recuperare un numero del “Monitore Ufficiale dell’Episcopato Sardo” – quello dell’ottobre 1955 – in cui è detto fra l’altro: «Mancava per migliaia di abitanti una assistenza religiosa adeguata, mancavano chiese proporzionate al numero ed alle esigenze delle anime. Oggi possiamo annunciare come un fatto compiuto la erezione di otto nuove parrocchie: 1, Borgo S. Elia – 2, Medaglia Miracolosa – 3, S. Francesco – 4, S. Paolo, tutte in città – 5, SS. Redentore a Monserrato – 6, S. Giuseppe a Pirri – 7, S. Cuore e 8, S. Antonio a Quartu.
«I nostri sforzi non potevano ottenere più sollecito e favorevole successo. Nel territorio di ciascuna Parrocchia già funziona il servizio religioso e sono ormai in corso o stanno per iniziarsi le opere di costruzione per la definitiva sistemazione delle Chiese e dei locali Parrocchiali.
«Ci hanno facilitato il compito le disposizione di legge oggi vigenti e la illuminata comprensione di Autorità e privati che ci sono venuti generosamente incontro; a tutti sentiamo il dover di esprimere la nostra riconoscenza. Vogliamo soprattutto ricordare le Autorità Comunali di Cagliari per la concessione di aree occorrenti, la Signora Regina Cogoni e Famiglia per l’area della Parrocchia di San Giuseppe in Pirri; la Sig.na Fontana Vitale che in memoria del Fratello Giuseppe ha provveduto alla costruzione del Salone che funge provvisoriamente da Chiesa per la Parrocchia di S. Giuseppe in Pirri…».
Sarà don Luigi Cherchi, nel suo studio della cronotassi episcopale diocesana a completare l’elenco dei meriti dell’arcivescovo Botto in ordine all’erezione di nuove parrocchie in città e nell’hinterland, aggiungendo – fino al 1968 – i riferimenti alla Vergine della Salute (al Poetto) e a San Pio X (in zona Amsicora) nel 1956, a Sant’Eusebio (ai piedi del colle di San Michele) e della Beata Vergine del Carmelo (ad Assemini) nel 1958, ai SS. Pietro e Paolo, SS. Annunziata e S. Giovanni Battista (in Castiadas) nel 1959, a S. Margherita di Pula nel 1960, a San Carlo (alla Fonsarda) nel 1962, ai SS. Martiri Giorgio e Caterina (a Monte Urpinu) e SS. Nome di Maria (a La Palma ) nel 1964, a Nostra Signora di Fatima (a Giorgino) nel 1966, a S. Maria del Suffragio e SS. Pietro e Paolo (a Is Mirrionis) nel 1967, alla Madonna del Carmine e S. Maria degli Angeli (a Flumini di Quartu) e Nostra Signora delle Grazie (a Sestu) nel 1968.
Oltreché sul libro storico parrocchiale, Cabizzosu ha potuto avvalersi , come fonti documentali di prima mano nella ricostruzione delle vicende della comunità insistente su un’area circoscritta a nord della maggior frazione del capoluogo, della memoria condensata nel numero unico “1954 26 dicembre 1964. Ricordo primo decennio” (e del bis allungato al venticinquennio caduto nel 1979), nonché di alcune pubblicazioni che hanno ciascuna uno specifico merito: ”Don Tonio Pittau sacerdote per la comunità”, biografia dell’indimenticato parroco della cattedrale scomparso nel 1988, ma qui ricordato come successore di don Casu a Pirri, curata nel 1998 dal fratello don Dino; “Parrocchia di San Giuseppe Pirri, Celebrazione del cinquantesimo 26 dicembre 1954-2004”, a firma di don Roberto Atzori, pubblicazione uscita nel 2006; “Infiorata San Giuseppe 2007-2014. Nel 60° di fondazione della Parrocchia”, opera collettanea edita nel 2014 ad iniziativa della stessa parrocchia la quale mostra, con questa successione di titoli, una esemplare sensibilità alle raccolte testimoniali.
Dopo un inquadramento generale del complessivo stato diocesano fra anni ’50 e ’60, tanto più come esso emerge dalle relazioni “ad limina” dell’arcivescovo Botto (1956, 1961, 1966), secondo una metodologia cui Cabizzosu altre volte ha fatto efficace riferimento per favorire la comprensione dell’evento o del personaggio descritto (valga su tutto, ma stavolta a partire dal 1920, il bellissimo report convegnistico riportato in “Nicola da Gesturi e le povertà della società sarda”, Roma, ISC, 2001), giustamente il biografo si diffonde sulle fatiche del parroco pioniere.
Nel 1954, quanto comincia l’opera, partendo da una cappelletta in via Todi (tre stanze di casa Solla, un rettangolo complessivo di 3 metri e mezzo per undici, con altare in legno e un modesto fonte battesimale), don Casu ha 41 anni. Ha le forze ancora del giovane che ben può dedicarsi all’impresa affidatagli dal suo vescovo, e insieme vanta l’esperienza dell’anziano sedimentata in un arco ampio di tempi e luoghi, soprattutto sa relazionarsi con un ambiente al quale, con spirito autenticamente vocazionale, riesce ad offrire interamente se stesso, leader secondo i classici canoni formativi del clero nostrano, ma portatore anche di un senso di comunità che sarà poi la vera costante e la guida ideale della sua vita personale e religiosa. Questa trova espressione anche nell’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche durante gli stessi anni del parrocato costruttore, quando gli è affidata una cattedra – così come a don Andrea Cocco al tempo suo collaboratore – presso la media n. 5 (libro di testo, spiegherà in una testimonianza un suo allievo, “La storia di Cristo” di Giovanni Papini).
Un prete e la sua comunità: tutti operai, a Pirri
Sono, queste pirresi, certamente le pagine più piacevoli e forse avvincenti del libro e la figura spirituale di don Casu, con il suo tratto finemente e fedelmente ecclesiale, che pure è focalizzato in un capitolo a sé (il decimo, titolo “Spiritualità”, in cui è valorizzata la dimensione del parroco quale “delegato” del vescovo, oltreché attore-testimone delle azioni di carità e formazione), ne viene delineata per l’abilità del coinvolgimento, da parte sua, del laicato di buona volontà e per la pazienza gradualista nell’attuazione del suo programma. Ne è prova manifesta il progressivo ampliamento delle strutture di accoglienza e servizio a misura dei bisogni presenti e di quelli prevedibili, sempre e soprattutto sostenute dalla consapevolezza della loro strumentalità rispetto all’eccellenza degli obiettivi. Anzi forse a lui andrebbe riconosciuta una “pedagogia della comunità”, fondata proprio nella diffusa contezza che, in una parrocchia, tutto – impianti ed assetti , arredi e simulacri, quelli stessi del Risorto e della Vergine ordinati per S’incontru del 1955 – è finalizzato alla socialità e fraternità operante. Così i gruppi di Azione Cattolica e in generale l’associazionismo incoraggiato e promosso nel lungo periodo – dalla Società di San Giuseppe a quella del Corpus Domini, a quella della Vergine di Bonaria, dalla Congregazione della Dottrina Cristiana all’Associazione del Piccolo Clero, dal Gruppo Santa Marta alla Commissione Vocazionale, dalla Schola Cantorum al Centro di Apostolato della preghiera, dalla Società di Santa Rita a quella di Sant’Antonio, alla Pia Unione Braccianti (assistita POA), ecc. –, così le compagini catechistiche e le aule di lezione, così ovviamente la impegnativa aula liturgica e l’annesso primo salone, messi nei programmi stilati in fogli volanti e diffusi a tutte le famiglie interessate: 420 le destinazioni, gli inviti a partecipare.
Le stesse devozioni sociali ritmate dal calendario liturgico – dalla novena di Natale ai riti pasquali, con tanto di scorrere processionale nelle strade del quartiere – è volto a rafforzare il senso comunitario, che è identitario ed insieme dialogico, proprio per quella dottrina di trasversalità ecclesiale, almeno nella dimensione diocesana, che è sempre al centro dell’insegnamento del parroco. E d’altra parte, prova di questo si ha anche nella disponibilità collaborativa, per approfondimenti tematici o di catechesi, offerta, fin dall’inizio, da religiosi come il gesuita padre Giuseppe Abbo o il minore osservante padre Alberto Cogoni, o il cappuccino padre Sebastiano Broccia, ma anche da preti secolari come don Gesuino Mulas del clero ozierese (a Cagliari come collaboratore de “Il Quotidiano Sardo” e cappellano militare), o don Pier Giuliano Tiddia, ecc. Non meno frequenti sono le visite, formali o informali, dello stesso arcivescovo o dei capi diocesani dell’Azione Cattolica e dei movimenti ad essa riconducibili (fra i tanti, Maria Leo e Salvatore Cara). Di rimbalzo è la partecipazione parrocchiale alle grandi adunate diocesane ora per il Corpus Domini ora per l’Immacolata Concezione, quando ogni comunità od ogni gruppo interviene, nella piazza del Carmine, con il proprio labaro. Nella stessa linea è il concorso dei ragazzi di San Giuseppe alle gare catechistiche, alle sfide di bravura…
Certamente gli anni ’50 e ’60 sono anni di grandi trasformazioni nel quadro sociale regionale, in quello nazionale ed internazionale: va evolvendo il costume, la stessa le televisione porta novità all’interno delle famiglie, cambia la scuola, variano gli equilibri un tempo strutturati e solidificati fra le classi, si apre – nel bene o nel male – la Sardegna alla politica cosiddetta della Rinascita, il mondo cattolico si riossigena nel magistero di papa Roncalli e si scuote, potremmo dire, negli avanzamenti ecumenici di papa Montini, nelle innovazioni liturgiche, nella promozione dei fedeli al rango di assemblea cocelebrante i sacri riti. Ma don Casu, che pure è attento alla scena che muta e la seconda, pedagogo naturale, tiene la barra sugli interessi immediati della sua comunità, moralmente costretto ad onorare il patto nuziale con i suoi parrocchiani, di cui si diffonde a dar conto delle iniziative che li vedono partecipi.
Scrive Cabizzosu: «Poiché il presente Liber Chronicon abbraccia un tempo ricco di avvenimenti ecclesiali (1954-1971: preconcilio, Concilio, postconcilio) appare naturale per il lettore moderno ricercare in esso la mens del parroco e della comunità sui fermenti in atto nella Chiesa e nella società, lungamente dibattuti all’interno del Concilio. Riguardo ai coevi avvenimenti ecclesiali, italiani o universali, lo stile descrittivo di Casu è essenziale, sobrio, scarno. La sua attenzione è rivolta principalmente sulla sua comunità, il resto viene citato o descritto con parsimonia e in maniera stringata».
E’, ripeto, come se la missione particolare assegnatagli, e forse vissuta con una speciale intensità perché pionieristica, obblighi don Casu a trattenere nel quadro massimo della diocesi gli sforzi intellettuali ed operativi dei suoi, senza disperdersi in riflessioni troppo alte, quali possono essere – tanto più negli anni conciliari e del dopo Concilio – quelle avanzate dai maggiori teologi europei, di Francia, Germania e Olanda soprattutto.
Allo scoccare del 1960 la conta delle famiglie e degli abitanti di San Giuseppe è aggiornata: 1.203 e 5.450 unità rispettivamente. Così quella dei gruppi più attivi, di cui viene ancora una volta dettagliata la consistenza e il piano delle iniziative (non soltanto devozionali ma anche e soprattutto formative). Vengono tre padri passionisti a predicare le missioni del 1960, conclude il ciclo lo stesso monsignor Botto…
Ma don Casu non è solo. Lui è il motore, però le collaborazioni non gli mancano: in successione può contare su giovani preti che, magari per breve tempo, gli si mettono al fianco intanto maturando esperienza per il loro domani: così ecco i salesiani Antonio Sechi e Umberto Baiocco, ecco i diocesani don Tarcisio Pillolla, don Gavino Pala, don Luigi Frau, don Salvatore Zara, don Giuseppe Cogoni . Anche con il loro contributo il consuntivo di lavoro di oltre tre lustri è infine, pur se limitato ai numeri dei sacramenti amministrati, degno di ogni lode: 2.927 battesimi, 1.737 cresime, 2.009 prime comunioni, 760 matrimoni, 496 funerali.
Un Cristo non diviso ma condiviso
Finalmente il 27 febbraio 1971 la chiesa di mattoni ed arredi (architetto il prof. Virdis) è completata. Viene il cardinale Baggio a consacrarla, presenti una ventina di preti della cattedrale e delle altre parrocchie cittadine e dell’hinterland – Monserrato, Selargius, Quartucciu, Quartu, a far festa insieme. Fra essi il suo successore – il già anziano don Paolo Pinna (scomparso poi nel 1978, cui succederà allora don Tonio Pittau), don Ezio Sini, parroco uscente di Sant’Eulalia che don Casu è adesso chiamato a sostituire alla Marina. Perché per lui – per il parroco pioniere – è anche il giorno dei saluti. La missione è compiuta.
Gustoso, a proposito dei collegamenti ideali, fra San Giuseppe e Sant’Eulalia, il richiamo che Tonino Cabizzosu compie di una polemica, ovviamente civile e garbata, che vedrà nel 1998 don Mario Cugusi al centro della scena, per la sua richiesta di restituzione di un antico crocifisso, ora nella parete principale del presbiterio della nuova chiesa, appartenuto – chiarirà lo stesso don Casu – all’arciconfraternita di Santa Lucia, in via Sardegna, lesionata dai bombardamenti del 1943 e successivamente abbattuta. Se altri arredi furono giustamente acquisiti dalla parrocchiale della Marina non lo fu questo che, dissepolto dalle macerie venne depositato inizialmente in episcopio e quindi nella chiesa di Sant’Agostino, prima di raggiungere Pirri. Un Cristo non diviso, ma condiviso, insomma. Idealmente condiviso,o da condividere, con senso partecipativo, fra due comunità della Marina e di Pirri. «Durante la Via Crucis per le vie della nuova parrocchia, sprovvista di tutto,quel crocifisso, portato a spalle da quattro uomini, ottenne un trionfo di fede e di pietà», aveva scritto nel 1996 – due anni prima dello scambio dialettico con il suo ex vice – lo stesso don Casu al confratello don Tarcisio Pili che di San Giuseppe sarebbe divenuto parroco nel 1985.
Gli altri uffici, a Cagliari e nella regione conciliare
Mi è sembrato meritassero un richiamo speciale, e una espansione speciale anche della trattazione di commento, i capitoli che Cabizzosu dedica ai due momenti eccellenti della vita presbiterale del suo protagonista, anche perché essi, sommati (ma integrati poi da quelli del ritorno – come collaboratore del parroco pro tempore, per un anno don Pittau, per ben diciassette quasi don Tarcisio Pili – a Pirri), costituiscono ben oltre i due terzi della sua vita sacerdotale conclusasi nel 2002 all’età di 89 anni. Peraltro, il lungo periodo di teorico pensionamento, dopo il ritiro da Sant’Eulalia, meriterebbe forse anch’esso un apposito spazio di trattazione: qui lo richiamo per quanto il biografo ne concede ricordando quanto poi è virtù piena di un prete vecchio e malato, disponibile «per le celebrazioni, confessioni, visita agli ammalati, direzione della Schola Cantorum, direzione spirituale, corsi biblici per catechisti».
Ma non tutto si chiude qui di un’attività dalle molte caselle. Perché, per la speciale competenza riconosciutagli, a don Casu è conferita, per diversi anni, la delega arcivescovile per la pastorale diocesana, che ha anche un allungo nella dimensione regionale, in uno di quegli sforzi che il Concilio Vaticano II ha promosso (e quello Plenario Sardo dovrebbe aver suggellato in termini di più efficace operatività) di integrazione delle diverse circoscrizioni isolane.
Anche a questo settore di lavoro che temporalmente si situa nel primi anni ’70 – quelli di passaggio da San Giuseppe a Sant’Eulalia, e poi di impegno pieno alla Marina – molto opportunamente Cabizzosu dedica un certo approfondimento, valendosi in particolare di una decina, forse più, di articoli-inchiesta, articoli-intervista, articoli-documento pubblicati dal 1970 al 1975 dal settimanale “Orientamenti”. E qui varrebbe una annotazione personale, che tante volte mi è occorso di condividere con Cabizzosu il professore e storico professionale, il quale, come già – sul piano degli studi accademici “civili” – il professor Lorenzo Del Piano, riconosce l’importanza delle fonti pubblicistiche nella ricostruzione degli eventi o dei profili biografici dei protagonisti. Non tutto, evidentemente, può esaurirsi nei report cronachistici, si tratta di combinare una tale fonte – peraltro spesso illuminante più di un documento d’archivio per il contesto in cui l’oggetto trattato prende consistenza e sa raccontarsi – con ogni altra disponibile, dalle unità d’archivio classiche alle pezze custodite nei casellari privati e dunque nella fruibilità delle famiglie, alle testimonianze di coprotagonisti o comprimari.
Tale circostanza dovrebbe stimolare il giornalismo diocesano corrente ad una maggiore qualificazione proprio nella prospettiva di costituire esso, per lo storico avvenire, una fonte rilevante di indagine e studio.
Utilizzando dunque i contributi della testata diocesana di Cagliari (al tempo diretta da don Tarcisio Pillolla, dal 1972 da don Piero Monni, dal 1974 da don Gianfranco Zuncheddu), l’autore riesce fornire un quadro ben più che soddisfacente non soltanto della impostazione puramente ecclesiologica di don Salvatore Casu – moderatore (e cioè presidente effettivo) del Consiglio Pastorale Diocesano –, ma anche del quadro generale che, sotto gli episcopati (e connesse presidenze della CES) Baggio e Bonfiglioli, connota la pastorale ordinata in diocesi o tesa, come detto, alla integrazione nella provincia o nella regione ecclesiastica. I sei paragrafi che compongono questo specifico capitolo (“Il postconcilio nella diocesi cagliaritana durante l’episcopato del cardinal Baggio”, “Il saluto a nome del clero cagliaritano al pontefice Paolo VI in visita a Cagliari”, “Elezione a rappresentante del clero sardo e intervista”, “Petizione ai Parlamentari sardi” – questa sullo stato economico del clero –, “Risposta a una domanda” e “Terza assemblea del consiglio pastorale diocesano” ) hanno qui essenzialmente il valore del documento, non ancora della piena interpretazione delle “politiche” in costruzione. Lo dichiara apertamente lo stesso Cabizzosu alludendo alla parzialità dei «tasselli» cui ha potuto metter mano dato che «l’argomento è vasto e le fonti per una sua comprensione non sono ancora disponibili».
Ricorda, l’autore, come nella logica compartecipativa propria del Concilio Vaticano II, e in attuazione anche delle delibere o delle indicazioni della CEI, le diocesi italiane, e quelle sarde nella fattispecie, progressivamente, nel passaggio di decennio fra ’60 e ’70, vadano dotandosi degli organi collegiali rappresentativi ora del clero ora del laicato impegnato. A Cagliari, il nuovo arcivescovo Sebastiano Baggio insedia il Consiglio presbiterale il 27 dicembre 1969 e il 25 maggio successivo annuncia la creazione di alcuni uffici pastorali (vicariati episcopali per le religiose e per la cultura). Tutto sembra ancora, almeno all’inizio, imprigionato in un riformismo prudente e quasi pauroso del nuovo che pur è evidente non solo fra meridiani e paralleli, ma anche nei quartieri e nelle parrocchie del capoluogo sardo (né solo del capoluogo).
Se infatti il cardinale, nel ritiro mensile del clero, ha messo in guardia i sacerdoti dalle suggestioni che possono venire da certe correnti teologiche progressiste (ma qualificate come teorizzatrici di «una religione disincarnata» e di «una chiesa empirica o stratosferica»), suggerendo-imponendo una pacifica «adesione al sacro magistero», ben altro s’affaccia nella realtà come, con qualche ardimento, sintetizza Giampaolo Scano riferendo dei lavori di un convegno ecclesiale articolato in gruppi di studio e svoltosi il 23 e 24 settembre 1970 a Cagliari (dove, si ricordi, papa Paolo VI è passato il 24 aprile dello stesso anno). Riprende lo stesso Cabizzosu: «1) maturazione verso un’immagine di Chiesa meno giuridica e, incentrata sull’eucarestia, sempre più orientata all’evangelizzazione; 2) educazione alla corresponsabilità ecclesiale a tutti i livelli; 3) dialogo aperto e sincero nel rispetto della pluralità delle idee e della dignità delle persone; 4) promozione della presenza laicale di tutte le espressioni del popolo di Dio; 5) rifiuto di ogni compromesso con il sistema politico».
Quel terribile-profetico 1972
E’ proprio qui che Cabizzosu, forte anche di una competenza che nasce dalla esperienza o dal suo stesso coprotagonismo, trattando di don Casu e delle acque agitate nella Chiesa cagliaritana del dopo Concilio porta i suoi riflettori, con misura e sobrietà, ma con spirito partecipativo (che, quando è saggiamente calibrato, non può essere negato neppure allo storico), su quelle scene elaborative ed evangelicamente impertinenti di cui ho accennato all’inizio quando mi sono riferito al suo volantinaggio.
La nuova atmosfera viene da input di dottrina alti: promosso nel 1968 da don Giovanni Axedu, e condotto da un certo numero di competenti sintonizzati con la teologia e la ecclesiologia del Vaticano II, un corso triennale che anticipa il rientro a Cagliari della facoltà teologica (che avverrà nel corso del 1971)riesce a coinvolgere positivamente un’ottantina di laici di varia provenienza culturale oltreché territoriale, presentando le nuove formulazioni della dogmatica, della morale, della lettura biblica e impegnando tutti ad una più matura responsabilità di accompagnamento delle comunità parrocchiali o sub parrocchiali.
Anche l’esperienza comunitaria di Sant’Elia, avviata nel 1970, si colloca sul crinale delle novità e pare che lo stesso cardinale Baggio, sempre combattuto fra prudenza conservatrice ed urgenze dei segni dei tempi, non neghi la sua fiducia alla sperimentazione, arrivando perfino a dire, a conclusione della XX Settimana Nazionale di Aggiornamento Pastorale svoltasi a Roma, che «di fronte al secolarismo, ogni risposta [deve] partire dall’autocoscienza dello stato perenne di missione, in stile di dialogo e di comunione».
Verrà poi quel volantinaggio e le aperture parranno divenire chiusure.
E’in un tale contesto chiaroscuro che don Salvatore Casu sviluppa la sua attività di delegato per la pastorale diocesana. Attraverso “Orientamenti” porge un saluto al pontefice che viene a Cagliari. Scrive: «Siamo qui – sacerdoti di Cristo – della Città e dei monti, della periferia e della campagna,frammisti e confusi ad un popolo in vigilia che prega e attende… che coglie nella sua anima la semplice evidenza della sua fede nel Vicario di Cristo. Di questo popolo condividiamo il sangue e la tradizione, le sorti e le speranze, la gioia e l’esultanza di questi giorni, la fede di sempre…».
Da due mesi soltanto alla presidenza di Sant’Eulalia egli partecipa, il 21 maggio 1971, al Rifugio La Madonnina di Santu Lussurgiu ai lavori della Commissione regionale del clero, primo dei due rappresentanti della diocesi di Cagliari (l’altro è don Giovanni Manca, vicario a Santa Caterina di Monte Urpinu). Venti i delegati partecipanti, assenti soltanto i galluresi. Introducono i vescovi Tedde e Melis Fois, rappresentanti all’assemblea CEI vengono eletti proprio don Casu e don Giovanni Pes, prossimo vescovo ausiliare di Oristano e residenziale poi di Bosa (così in “Orientamenti”, 6 giugno 1971: “Una commissione regionale di studio sui nuovi problemi del clero isolano”).
Di incontri regionali se ne conteranno, evidentemente, diversi altri, presieduti da altri presuli, come don Paolo Carta, arcivescovo di Sassari. Don Casu, in rappresentanza della sua diocesi (e con il supporto di altri confratelli – capiterà anche ad Armando Mura, al tempo vice parroco a Sant’Elia), assicura la sua partecipazione, che è unanimemente riconosciuta autorevole perché competente. E competente perché colta ed insieme esperta, costruita con il sudore del quotidiano, in… trincea.
E’ il grande problema “interno” della Chiesa universale, in modo specialissimo di quella italiana, l’identità ministeriale del presbitero, mentre non mancano le letture riduttive, che vorrebbero assorbire il sacerdozio ministeriale in quello universale dei battezzati, emancipando così, per converso e per elezione, il laicato. La linea conciliare che va riaffermata è invece quella della distinzione collaborativa fra ministri e laici, nella logica dei carismi e dei servizi. E’ fra l’altro proprio in tale contesto che il Concilio ha recuperato dalla Chiesa dei primi secoli il diaconato, anche se lo ha imprigionato, nella sua declinazione regolamentare, in un ruolo pesantemente clericale (ciò soprattutto per quanto riguarda il voto celibatario ante-ordinazione).
Rilascia una intervista ad “Orientamenti”, don Casu, su questi temi, nel 1971. Egli parla espressamente di una tempesta in corso nella Chiesa individuandone le cause in certi «dibattiti teologici», nel «criticismo esasperato» e nel «sorgere e incalzare di ideologie secolarizzanti e desacralizzanti, laiciste e materialistiche», nonché in «certi clamorosi episodi di contestazione in seno alla Chiesa che spesso hanno avuto come protagonisti dei sacerdoti», o ancora «la evoluzione esplosiva della nostra società, la non sempre esatta anzi spesso equivoca e falsa presentazione e interpretazione dei problemi sacerdotali da parte di una certa stampa scandalistica…».
Sono al centro del dibattito i problemi di formazione dei preti e di vita personale, quelli relazionali interni al clero così come con la gerarchia (i vescovi e le loro curie) e con i laici, quelli riguardanti i rapporti con le strutture ecclesiali esistenti e l’attività pastorale corrente. A tutto ciò si aggiungono aspetti particolari afferenti ora la vita spirituale ora la condizione economica (oggetto di una specifica petizione a firma Carta-Casu, inviata ai parlamentari sardi nel luglio 1973), ora le opportunità lavorative extraparrocchiali ora il celibato. Di tutto tratta don Casu, valutando positivamente il metodo di lavoro concertativo voluto dalla CEI ed utilmente sperimentato in Sardegna, apprezzando anche l’impegno alla corresponsabilità assunto in numerose comunità dal laicato.
Diversi altri interventi meriterebbero di essere almeno citati, e ne dà conto benissimo Tonino Cabizzosu, in questo capitolo centrale del suo studio biografico. Come opportunamente ripresa nella sua completezza è la lettera di dimissioni dall’incarico che nel novembre 1973 don Casu – delegato ormai da quattro anni e nell’ambito di due consigli diocesani – presenta al nuovo arcivescovo Bonfiglioli. Le sue parole denunciano insieme, con atto di genuina umiltà, i limiti propri (di preparazione, di età e temporali, dato il contemporaneo incarico parrocchiale) e la obiettiva carenza di «indicazioni di competenza»: «Che cosa non è pastorale nella vita di una diocesi? E che cosa è così singolarmente pastorale da non rientrare nelle competenze del vicario generale, dei vari delegati, dei due consigli diocesani, della Curia e degli altri svariati uffici e organismi diocesani?».
Della sua visione della pastorale parrocchiale e, generalmente, diocesana egli fornisce una prova contribuendo con un articolo-riflessione al numero unico predisposto “In occasione dell’ingresso in Diocesi di S.E. Mons. Giuseppe Bonfiglioli” – com’è proprio nel titolo della pubblicazione – il 17 giugno 1973.
Si tratta di un vero e proprio saggio, ancorché breve, con tanto di note, di rimandi alla “Ecclesiam suam” di Paolo VI, alle lettere paoline, alla teologia di Karl Rahner ed Henri de Lubac. Ma quanto gli argomenti sono impegnativi tanto lo stile è discorsivo, perfino leggero, anche ironico in qualche passaggio. Le piste di snodo delle sue argomentazioni sono la fede, i gruppi spontanei e l’apostolato. Valgano a dare un’idea del taglio impresso alla pagina le ultime battute… vere e proprie battute: «Tra il disordine e l’eccesso di organizzazione, tra l’individualismo arruffone e l’eccesso di pianificazione, ci deve essere una via di mezzo. La Pastorale ha oggi le più svariate etichette. Degli uomini, delle donne, dei giovani, degli adolescenti e dei preadolescenti, degli sposi e dei fidanzati; della scuola, dei campi e della fabbrica, della cultura e dei mezzi di comunicazione; del turismo e del tempo libero; dei migranti, degli ammalati e delle attività socio-caritative… Pastorale tradizionale, adattata, missionaria, ecumenica, di insieme, organica, d’ambiente, di gruppo, di base, di vertice ecc. Pastorale per tutti i gusti per una società dell’abbondanza e del consumo. La parola d’ordine è coordinare, strutturare, integrare. Commissioni, diagrammi, grafici e statistiche. Infine, la paralisi! C’è in questa amplificazione un po’ umoristica un fondo di verità. Spreco di energie, confusione, conflitti di competenza, rivalità non sempre feconde e dinamiche, doppioni inutili. Un doveroso e legittimo pluralismo metodologico e un po’ di senso cristiano potrebbero sfruttare nel modo migliore strutture e metodi» (“La pastorale delle antinomie”).
Sensus ecclesiae e libertà di giudizio, l’amore alla musica e alle voci
Sotto un certo profilo in don Casu sembra leggersi anche la forza di una personalità modellata dalle esperienze varie, complesse e difficili, un sensus ecclesiae formidabile dai connotati precisamente esistenziali rimandando alla categoria del mistero comunionale, ed insieme un disincanto circa pretese onnipotenze e infallibilità degli operatori, anche quelli magisteriali! In altre parole potrebbe dirsi che si evidenzia in lui una autonomia di giudizio combinata con la lealtà istituzionale mossa dal sentimento del dovere.
Ma accanto a queste alte direttrici qualificative della sua vita, dagli anni della prima giovinezza a quelli che lo fanno ennuagenario candidato al paradiso, credo che di don Casu sia rimasta, nelle comunità che hanno l’orgoglio di serbarne la memoria, la traccia culturale-artistica che ne riportano il nome alle composizioni ed esecuzioni musicali. Di «musicista autodidatta», scrive Cabizzosu dettagliando i titoli degli spartiti rinvenuti post-mortem, ora di vere e proprie composizioni («messe da gloria o funebri»)ora di puri arrangiamenti. Sono 58 pezzi, questi datati fra il 1955 e il 1989. Entrano nel novero motivi di devozione pasquale e natalizia, altri eucaristici e mariani, altri ancora riferiti al culto di San Giuseppe e Sant’Eulalia.
Insieme con l’obiettivo di un maggior decoro alle liturgie, sembra di cogliere negli sforzi di organizzazione corale la più alta intenzione associativa e comunitaria, come se il coro potesse fornire alla assemblea il modello del “pregare insieme”. La Schola Cantorum “Santa Cecilia” fondata da don Casu rispondeva esattamente a questa istanza.
Opportuni i cenni forniti, in questo stesso campo, da Cabizzosu tanto circa gli esordi da giovanissimo prete nel circolo “Ferrini” della parrocchia di Sant’Elena a Quartu (primi anni ’40) o nel coro di Radio Sardegna dopo la guerra, quanto l’impegno nella Commissione diocesana di Musica Sacra, nei primi anni ’70 – di fianco a don Elio Fozzi, don Carmine Fais, don Gianfranco Deiosso e padre Benedetto ofm cap. – nel cui contesto è da collocare la sua proposta di nuovo statuto dell’Istituto diocesano di Musica Sacra con l’obiettivo primo di «preparare dignitosamente Organisti, Istruttori e Direttori di cori a servizio della liturgia».
Di lato alla passione e competenza musicale sembra giusto cogliere di don Casu un altro aspetto che pure nella sua biografia ha trovato una particolare sintesi nella elencazione di prediche/omelie/panegirici da lui offerti con generosità ovunque richiesto e, comunque, certamente dalle comunità parrocchiali in cui era personalmente coinvolto. Cabizzosu presenta una lista di ben 65 testi. Mai il devozionismo fine a se stesso e a rischio anche di smarrimenti, intendo smarrimenti di senso. Una spiritualità viva ed efficace semmai da rinforzare nella pratica religiosa, ecco la cifra di don Casu predicatore/panegirista.
L’arco tematico è, anche stavolta, vastissimo, includendo, con le riflessioni sui maggiori misteri della fede ed episodi evangelici (dalla Santissima Trinità alla Pentecoste, passando per la presentazione di Gesù al Tempio od il suo battesimo nelle acque del Giordano), quelle sulle virtù di Maria Vergine e Madre(Immacolata, Addolorata, Assunta, del Carmelo, di Bonaria…) o sulle vite esemplari dei santi: nella sequenza sono Saturnino e Giuseppe, Rita e Zita, Stefano e Cecilia, Francesco ed Antonio, Teresina e Margherita Maria Alocoque,Ignazio da Loyola e Anna, Lucia ed Efisio, Biagio – per la parrocchiale formativa di Gergei (il paese d’origine di non pochi preti diocesani, da don Dino Locci ai due Cardus – Antonio e Giuseppe –, da don Edoardo Melis a don Francesco Porceddu e don Efisio Siddi (tutti ordinati fra il 1930 e il 1940) – e Giovanni Battista, Gregorio Magno e Maria Maddalena… Colpisce, fra tanta agiografia, un titolo, l’ultimo: «Una fede senza idoli».
Le testimonianze
Se Cabizzosu ha saputo, da par suo, ricostruire i tratti biografici essenziali di don Salvatore Casu, accompagnando il momento necessariamente descrittivo o compilativo a quello interpretativo delle sue maggiori propensioni o del suo modus operandi, coerente ai modelli ecclesiali affermati nel suo tempo ma anche innovativo od originale per quel tanto che ogni attore sulla scena sa portare della propria personalità ( e la sua fu una personalità capace di ascolto, di programmazione, di decisione realizzativa), arricchiscono indubbiamente il volume ora in distribuzione le pagine di testimonianza affidate innanzitutto a don Antioco Piseddu, vescovo emerito di Lanusei, e a don Tarcisio Pili, parroco di San Giuseppe dal 1985 al 2005 (che, bambino e chierichetto, incontrò don Casu nell’occasione di una messa mandarese e con lui avrebbe condiviso l’amore speciale alla musica liturgica). Ricorderò in proposito che lo stesso don Pili onorò il suo predecessore all’indomani della scomparsa in un efficace e commosso articolo uscito sul n. 2/aprile-maggio-giugno 2002 del “Notiziario Diocesano” di Cagliari (“In ricordo di mons. Salvatore Casu parroco fondatore, amato dalle genti di Pirri”).
Toccante e luminoso un passaggio della sua testimonianza, rievocativo del proprio ingresso a Pirri come parroco titolare: «La sera del 5 ottobre 1985, partendo da Dolianova, tormentato, feci l’ingresso come parroco nella chiesa di San Giuseppe, gremita di fedeli, applaudenti. Improvvisamente il ripieno dell’organo e il canto del coro “Santa Cecilia”, fondato e diretto da don Casu, irruppero coprendo ogni movimento. Il canto era imbastito su una melodia molto conosciuta: l’inno alla gioia della IX sinfonia di Beethoven. lo sentì penetrarmi nell’anima attenuando la sofferenza di aver lasciato la parrocchia di Dolianova e mi dispose a quel primo incontro con la comunità che sarebbe stata la “mia parte di eredità” per venti anni…».
Belle testimonianze rendono anche alcuni dei suoi più prossimi collaboratori, taluno dei quali accolto in parrocchia in un’età ancora acerba, da Adriano Picciau ad Annalisa Puddu, da Tilde Cabras a Ferdinando Melis, a Paola Palla. E nel novero anche suor Maria Veronica Loi (giuseppina di Genoni, dell’ordine fondato da padre Felice Prinetti), Ognuno da un suo osservatorio particolare di vita sociale in quel di Pirri racconta la ricca personalità di don Casu, a tratti sì burbero benefico, ma capace anche di grandi trasporti empatici con chi sapeva a lui associarsi nell’impresa che doveva trascendere l’interesse particolare – e fosse pure il più virtuoso degli interessi – ma raccordarsi alla causa che diventava meta ideale e percorso di condivisione e comunione. Giusto come poteva essere l’impianto di una nuova parrocchia o il riassetto di una antica, o l’aggiornamento imposto, sotto molti aspetti, dalle delibere conciliari.
Appassionata la testimonianza di don Piseddu («La figura di Don Salvatore Casu è una di quelle che ti entrano nel cuore e non ne escono più. Diventano punto di confronto e riferimento nella vita»), che ricorda specialmente la collaborazione richiesta dal parroco di San Giuseppe ai preti in servizio nel vicino seminario arcivescovile ora per le confessioni ora per qualche messa cantata in terno per i defunti, secondo l’uso preconciliare. Del suo confratello richiama, don Piseddu, la «limpidezza d’animo» e la «finezza e signorilità» insieme con la disponibilità a svolgere lezioni di supplemento teologico in mix con la pastorale ai preti ancora freschi di sacramento i quali, reduci dal seminario cuglieritano, pensavano forse… di sapere già tutto. (Si tratta
Mi piace riportare, della testimonianza resa dal caro don Antioco, le ultime, direi poetiche, battute: «Una tarda mattina di aprile di un anno che non so precisare, mi trovai a passare in macchina, nella parte estrema della Via Roma, verso Viale Bonaria, accanto alla immensa magnolia che ombreggia la confluenza con Viale Regina Margherita. Era appena passata la Pasqua e Don Casu, come ogni bravo parroco, stava benedicendo le case. Accompagnato da un minuscolo chierichetto in sottanina rossa, secchiello e aspersorio, egli, con la sua statura imponente, in cotta e stola ricca di fregi d’oro, stava attraversando la strada nelle strisce pedonali lunghissime, andando verso il lato del porto. Era arrivata a circa la metà del percorso. Il traffico si era fermato come d’incanto. Egli avanzava, in un silenzio irreale, in una gloria di sole… sembrava immerso nel mistero… nel sublime… come un antico profeta. Andava a portare la benedizione di Dio, la sua parola di speranza e di salvezza. Mi vennero in mente i versetti del profeta Isaia (52,7): “Come sono belli sui monti, i piedi del messaggero di lieti annunci, che annuncia la pace”. Non suonò nessun clacson impaziente. Quando finì di attraversare la strada, riprese il caos del traffico. Era tornata la dimensione terrena».
Assolutamente preziose le appendici: così il regesto sommario dell’Archivio Casu custodito da Tilde Cabras (qui richiamato soltanto per i manoscritti o dattiloscritti di natura prevalentemente pastorale: 42 soggetti per un complesso di 562 fogli); così il testo – interessantissimo – della sua relazione al preconvegno di Sanluri del febbraio 1986 sulla natura e modalità del presbiterato nella dottrina e nella pratica pastorale ecclesiale (“Essere prete significa”, “Prete per fare che cosa?”, “Il sacerdote e le attività temporali. i ministeri all’interno del presbiterio diocesano”); così infine la sequenza di immagini fotografiche che lo ritraggono bambino con i genitori e la sorella, giovane prete, parroco nell’esercizio delle sue funzioni, all’incontro con il cardinale Baggio, in sottana rossa da monsignore (prelato d’onore di Sua Santità dal 1973), con le insegne canonicali (dal 1984).
Certamente una più mirata ricerca sulla stampa diocesana potrebbe consentirci di recuperare altri scritti, quantomeno da collazionare con quelli raccolti nell’Archivio. Ne ho trovato uno, abbastanza casualmente, sul Natale, nella edizione de “Il Corriere del Sulcis”, edizione iglesiente di “Orientamenti”, datato 26 dicembre 1971 (“Natale significa Dio-Uomo per noi”). Chissà quanti altri ce ne saranno!
Un fondo Don Salvatore Casu
Ignoro naturalmente i programmi che accompagnano l’attuale custode dell’Archivio Casu, vale a dire la signorina Tilde Cabras, a Pirri. I suoi intendimenti circa la sorte delle pile documentarie, fra spartiti musicali, stesure di discorsi, memorie personali. Se sia alle viste un conferimento di tanto prezioso patrimonio alla parrocchia di San Giuseppe, che ovviamente costituisce la più titolata ad accogliere i fondi, e se questa sia attrezzata a darsi un profilo che, cogliendo proprio l’occasione dell’auspicabile acquisizione, possa in futuro tradursi in un centro di studi, magari in un istituto storico-archivistico sulla Chiesa dell’hinterland cagliaritano, quantomeno del compendio intermunicipale Pirri- Pauli Pirri (Monserrato), come a dare almeno un segno di freno ad un campanilismo che, frazionando eccessivamente gli asset documentali, affaticano o complicano artificiosamente poi lo studio integrato di realtà che hanno evidenti nessi fra di loro.
Sotto questo profilo penso a come si potrebbe impostare il centro – intitolato a don Salvatore Casu e con impianto in appositi locali interni alle ampie e moderne strutture parrocchiali da questi, a suo tempo, volute con meritoria lungimiranza – in due anime non per territorio ma semmai per epoca di radicamento: una sezione storica, alla quale far affluire i materiali archivistici di San Pietro in Pirri (XXVII-XVIII sec,) e Sant’Ambrogio in Monserrato (XV sec.), ed una sezione “secondo Novecento” in cui riunire, evidentemente salvaguardando le individualità, quelli di appunto di San Giuseppe e gli altri pirresi di San Gregorio Magno (1973) e della Madonna della Fede (1978), nonché quelli monserratini del SS. Redentore (1954) e di San Giovanni Battista de la Salle (1985).
Forse ancor più e meglio sarebbe l’ipotesi di allargare a Selargius e Quartucciu: i conferimenti da parte delle parrocchie, tanto più di quelle storiche – SS. Vergine Assunta (XVII sec.) a Selargius, San Giorgio martire a Quartucciu (XIV sec.) – ma anche di quelle di impianto relativamente recente – SS. Salvatore (1967), San Giovanni Bosco (1983), San Tarcisio (1986) e forse anche Spirito Santo (1981) a Selargius e Selargius/Su Planu, San Pietro Pascasio (1971) a Quartucciu – non impoverirebbero naturalmente gli enti titolari, i cui rappresentanti siederebbero con pienezza di autorità e diritto nel consiglio direttivo affiancato da un team scientifico, fors’anco con periodici avvicendamenti nelle responsabilità apicali di governo e rappresentanza.
Neppure penserei a “spogliare” dei propri fondi archivistici le parrocchie titolari. Penserei, molto più modestamente, al conferimento di copia degli stessi, il cui valore risiederebbe soprattutto nella loro compresenza e dunque nella opportunità concessa agli studiosi che alle esperienze ecclesiali dell’entroterra cagliaritano volessero indirizzare le proprie ricerche, di poter più agevolmente – nella medesima e dunque senza dispersioni – operare, integrando notiziari, carteggi, atti di curia, stampe varie canoniche o devozionali, etc.