COMENTE IAD’ESSERE BELLU A SIGHIRE CUN SA MISSA IN SARDU … sigheus a ndhi foeddare …, di Salvatore Cubeddu
COME SAREBBE BELLA LA MESSA IN SARDO …. un dibattito in corso … di Salvatore Cubeddu
Intervengono: Virginia Saba, Christian Solinas, Gianni Loy (LETTERA A MONSIGNOR ARRIGO MIGLIO ARCIVESCOVO DI CAGLIARI), don Antonio Pinna, Antonio e Antonia, Sergio Vacca.
Stiamo andando avanti così da anni. In determinate occasioni ci permettiamo di pregare utilizzando la lingua sarda, ci emozioniamo, ci esaltiamo, ci stupiamo come non diventi un fatto normale, ovvio, costante, giornaliero, così come succede agli altri popoli, ci stupiamo che ci venga negato e … lo facciamo notare, ma poi …. Ne usciamo frustrati.
Seus sighende osinchi dae annos. Donnia tantu si praghet a pregare foeddande in sardu, s’ispantaus po sa bellesa de s’esperimentu e poita non ndha feus una cosa normali, de sempere e de dognia die, comente est po totu sos ateros populos, e non s’ind’accornotaos comente si dhu proibint … ma dhu naraus, inutili … s’indh’intristaus.
E chie cumandat totu custu? Connoscheus s’arrisposta: unu obisbu po contu suo e nemmancu totus impare sos obisbos sardos podent zare su permissu po bortare in limba libros sacros chene s’autorizatzione de sa Santa Sede.
Da chi dipende tutto questo? La risposta è già conosciuta, nel senso che né un vescovo singolo né la Conferenza regionale dei vescovi può autorizzare una traduzione di testi liturgici in lingua sarda senza l’autorizzazione della Santa Sede. Questo ci viene risposto dai nostri vescovi.
Quindi: non dipenderebbe da monsignore Miglio, che si è dimostrato disponibile a pregare insieme con noi per sa die de sa Sardigna 2015, consentendoci di vivere una straordinaria esperienza collettiva di festa e di identità, insieme cristiana e popolare. Che, nello stesso segno, ha gioito nel sapere della ripresa, anche quest’anno, de sa novena de Pasch’e Nadale a Cagliari, Quartu e Serdiana e, nell’unico ambito che ritiene di sua competenza, non ha avuto problemi a consentire la messa del 5 gennaio appena trascorso.
Issara non si depeus lamentare cun su Munsajore de Casteddu, Arrigo Miglio, chi at pregau cun nois po sa die de sa Sardigna de s’annu passau, chi at biviu cun nois unu esperimentu de fraternidade e de festa, comente populu e comente amigos de su Segnore Jesù-Cristu. E, in su matessi tempus, at tentu praghere chi podiaus faghere ocannu puru sa novena de Pasch’e Nadale in Casteddu, Quartu e Serdiana, e fintzas custa missa de sa festa de Pasca de Is Tres Res.
Non dalla Conferenza Episcopale Sarda, che ha avocato a sé quanto prima richiesto alla Facoltà Teologica, sulla traduzione dei testi. Immaginiamo, quindi, di poter utilizzare presto il frutto del rinnovato impegno dei vescovi sardi.
A ca non dependet mancu de sa Cunferentzia de sos Obisbos Sardos, chi antzis s’est appistighintzada in su cunfruntu de sa Facultade Teologica, po bortare sos libros sacros in limba nostra. Cussa bortadura chi totus seus ispetande cun pistighinzu.
Quindi il nostro pregare in sardo dipenderebbe dalle Congregazioni romane. Rivolgiamoci dunque a loro: il popolo cristiano che sta in Sardegna e i vescovi, tutti insieme. Anzi: rivolgiamoci direttamente a Papa Francesco, che della “teologia del popolo” è il più efficace propugnatore.
Quando? Ora. Chi? Coloro che ci credono e intendono continuare a godere del dono di avere anch’essi una lingua per parlare al loro Signore. Come? Come fanno i cristiani, e tutti: riunendoci insieme, comunicando, decidendo, agendo. Perché? Questa domanda va meglio posta: perché no?
A sa fini torraus sempere a inguni: fintzas po sas pregadorias in sardu dipendeus dae Roma,dae sas Congregatziones romanas. E ita ispetaus, insara? Andaus a chistionare cun issas, totus impare: Obisbos e Populu Cristianu chi seus in Sardigna. Antzis, mezus: andaus andhi foeddare cun su Paba, cun Frantziscu. Est Issu chi foeddat de “teologia de su Populu”!
Candu? Como luego. Chie? Chie dhia cretet e cheret sighire a s’alligrare de s’arrichesa chi teneus podende pregare a Deus e a Jesù-Cristu cun d’una limba nosta, azzunta a totus sos frades chi pregant cun sa limba issoro. Comente? Comente faghent totus, sos cristianos in ispezie: bidendesi impare, foeddandinde, detzidende, faghinde. E poite? Custa domanda andat posta mezus: e poite nono?
Lezìde ita iscriene sos amigos chi sunu istrados a sa missa del Santu Larentu.
Virginia Saba
7 h ·
Condivido il momento di estrema bellezza che ho vissuto questa sera sul colle di Buoncammino. Nella piccola chiesetta di San Lorenzo, dove finisce la terra e comincia il cielo, sono rimasta incantata nel vedere come una messa celebrata in lingua sarda possa restituire dignità a uomini finalmente rispettosi della propria identità. Quelle parole nella lingua delle nostre madri erano più vere. Come dardi magici hanno riscaldato l’anima tanto da fare sembrare gelida la celebrazione in italiano. Le launeddas e la musica di Vittorio Montis hanno reso ancora più incredibile l’incanto. Ora se davvero qualcuno si vuole opporre a tanta bellezza, se non capisce, se altri preferiscono contaminare le radici con altri accenti, se ci chiedono di nasconderle, se dobbiamo chiedere permessi per usare la nostra lingua, continueremo a non essere nessuno.
Io oggi mi sono goduta la mia spiritualità di donna sarda.
Ed è stata una bellissima sensazione.
E questo è un frammento dell’omelia di don Antonio Pinna che ringrazio per la meraviglia che ci ha regalato. Tra l’altro citando un ateo. Gramsci. Già.
“S’ammostat scéti a chi càstiat o bollit castiai. Custu Istedhu chi s’ammostat no dhu bint totus: dhu bint scéti sa genti-ogus-in-artu, sa genti chi non tenit timoria de cosas differentis, de cosas noas e in su matessi tempus antigas, cosas promitìas, isperu de genti chi scit ca dhi ammancat ancora e sèmpiri sa cosa prus importanti: unu pastori chi connoscit a nòmini dónnia brebei sua, e comenti cun Mariàm sa Maddalena dha tzèrriat in sa limba sua, e solu chistionendi sa limba insoru is ogus suus s’aperrint a reconnosci su maistu. Sa dì de s’incontru chi at a essi su nostu, isperaus nosu puru de s’intendi tzerriaus cun su nòmini nostu in limba nosta.
[e assora sentza bisòngiu de permissu perunu, ca is corus nostus, assumancu assora, ant a essi totunu].
Dal blog di Virginia Saba, visibile sul suo facebook
(basta cliccare sull’immagine)
https://www.facebook.com/sabavirgin/posts/10208211614948681
e da quello di Cristian Solinas:
Christian Solinas …Quanta bellezza, alle soglie del sublime, dove cielo e terra si sfiorano sull’altare della storia, della nostra cultura, di una lingua che ancora fa vibrare le corde più riposte dell’animo, stimolando sulle note di uno strumento arcaico ed arcano l’insopprimibile esigenza di avere consapevolezza di sè e delle proprie radici per potersi confrontare meglio col mondo…non per rinchiudersi nella celebrazione del passato o per contemplare l’isolamento ma per essere noi stessi nell’universo…Guidando stasera pensavo a come quel gioiello architettonico, edificato in stile romanico provenzale dai Monaci Vittorini di Marsiglia per ordine di papa Gregorio VII all’indomani dello Scisma d’Oriente, abbia attraversato i secoli, le numerose modificazioni, addirittura le successive intitolazioni ( prima a San Pancrazio, poi a N.S. del Buen Camino fino a San Lorenzo ), mantenendo tuttavia la sua funzione, quasi l’orgoglio delle sue origini, la riaffermazione continua del suo “esserci” nella storia e nel tempo…Ebbene davanti a tanto splendore, ad un cenacolo spontaneo di donne e uomini che hanno voluto celebrare in una sera piovigginosa di gennaio la propria Fede con la propria lingua e le sue tradizioni, ho compreso l’angoscioso piacere del sublime…quel nodo in gola che ti prende osservando la grandezza e l’estrema bellezza di un qualcosa che potrebbe distruggere in un istante chi la prova, la vive o semplicemente la osserva…Nel frattempo Bach accompagnava i miei pensieri… https://youtu.be/Gv94m_S3QDo
LETTERA APERTA A MONS. ARRIGO MIGLIO, ARCIVESCOVO DI CAGLIARI
di Gianni Loy
Caro Arrigo,
Don Mario Ledda ha appena impartito la benedizione. Dopo aver varcato la soglia della chiesetta di San Lorenzo, ci siamo ritrovati nella sommità del colle del Buon Camino, all’ombra della vecchia struttura carceraria. Ite missa esta. La messa è finita, andate in pace. O piuttosto: la messa incomincia, andate a viverla. Fine o inizio che sia, è stata una cerimonia strana e triste. A tratti surreale. Si è trattato di una celebrazione che ha profondamente umiliato me ed altri.
Può la celebrazione dell’Eucarestia umiliare? Può! E possibile, certamene, se al giorno d’oggi ancora sei costretto a ricordare il sacrificio della Croce alternando, con bizantino equilibrio, tre diverse espressioni linguistiche, il sardo, il latino e l’italiano. E’ stata una pena!
Mentre Don Mario, scrupoloso nell’obbedienza, pronunciava la formula: Hoc est enim corpus meus, piuttosto che pensare al sacrifico mi chiedevo: se il celebrante, tenendo il pane tra le mani e mostrandolo all’assemblea, avesse invece pronunciato la formula: “custu est su corpus meus”, forse che il mistero non si sarebbe ripetuto? E quando due sacerdoti si sono alternati nella lettura dello stesso vangelo di Matteo, leggendolo prima in italiano e, subito dopo, in sardo, mi sono chiesto: ma tutto questo ha un senso?
Il senso di quella sofisticata mescolanza di idiomi era, ed è, soltanto quello di impedire che espressioni della mia lingua materna, a differenza di quanto accade per le altre lingue del mondo, possano evocare il mistero dell’ultima cena. Non riuscivo, non riesco, a capire in nome di quale comandamento del Signore, la lingua che è stata dei miei padri, la lingua e che ho trasmesso ai figli miei, non possa essere utilizzata per il canone.
La risposta che mi attendo, se avrai la bontà di aiutarmi a dissipare i miei dubbi, non è di carattere liturgico, burocratico, ma di carattere teologico. Per poter comprendere a fondo la mia sofferenza, devi sapere che a mio padre, secondo una cultura che affonda le sue radici nell’epoca dell’antico testamento, è stato dato il nome di Arremundiccu, che è nome, nostro, di santo, e così l’hanno sempre chiamato i suoi genitori. Per poter ottenere il sacramento del battesimo i genitori hanno dovuto accettare che il suo nome diventasse Raimondo.
Mio nonno, a sua volta, si chiamava si chiamava Afineddu ma per battezzarsi ha dovuto prendere il nome di Serafino. Il padre di lui si chiama Pissenti ma per poter trovar posto nei Quinque libris ha dovuto prendere il nome di Vincenzo. E così via di generazione in generazione. Credo che comprenderai la sofferenza di chi vede aggredita la linfa vitale rappresentata, per larga parte, dalla lingua materna. Maria di Nazareth, del resto, crebbe Gesù con la propria lingua materna e non con quella degli occupanti.
Se avrai la pazienza di interrogare alcuni dei vescovi che, assieme a te, compongono la conferenza episcopale sarda, qualcuno di essi potrà riferirti delle severe punizioni che, in altri tempi, venivano inflitte ai seminaristi scoperti ad utilizzare la lingua materna! E’ follia, incultura, lo so. Non è rimpiangendo il passato, recriminando, che si fa la storia, neppure quella della salvezza. La conoscenza, però, aiuta a guardare il futuro. Non ho rancori. Perdono gli autori di atti finalizzati a sradicare da questa mia terra la lingua e la cultura che sono state, per secoli, di mio padre e di mia madre (in su celu sianta), e dei loro padri e delle loro madri prima di loro per i secoli dei secoli.
Forte della mia coscienza, consapevole del dovere di lasciare in eredità ai miei figli la natura così’ come l’ho ricevuta, comprensiva sia delle sue componenti materiali che di quelle culturali, come la lingua, ho libertà di espressione nella lingua che è stata dei miei padri ed oggi è la mia. Essa, la lingua sarda, è l’unica con la quale comunico con i miei figli. Mi è consentito scrivere, pubblicare, leggere, Svolgo, in lingua sarda, una parte del mio lavoro di insegnante. Chi lo ritiene può elaborare, in lingua sarda, la propria tesi di laurea. Posso persino pregare, in lingua sarda.
L’unica cosa che mi è impedita in questa lingua, cioè che tu, in quanto vescovo, mi impedisci, è di partecipare con la lingua dei miei padri, al mistero eucaristico. Lo trovo, arcaico, inconcepibile, paradossale. Se don Mario recitasse il canone in una lingua sconosciuta, in ucraino, in olandese, in friulano, senza che né lui né l’assemblea comprendano una sola parola, magari con una pronuncia che neppure riflette correttamene il testo, il vescovo non avrebbe niente da ridire, l’ortodossia sarebbe rispettata?
L’unica cosa che sembra importare alla Chiesa sarda è che non si pronunci, in lingua sarda, la sacra formula: “pigai e buffai-ndi tottus, custu est su calixi de su sanguni miu, po s’alliantza noa e eterna …”.
E’ possibile che la chiesa sarda non abbia altro più importante di cui preoccuparsi? Caro Arrigo, il vescovo è il “pastore” del gregge o è il “supervisore”, il “sorvegliante”, secondo l’etimologia del termine επίσκοπος(episcopos)? Secondo la tradizione della mia terra, il “pastore” conosce le proprie pecore ad una ad una, parla con loro nella loro lingua. Condivide la loro condizione. Il “sorvegliante”, invece, ha il solo compito di garantire il rispetto di regole esterne alla comunità, dettate in nome di una ortodossia il cui significato, francamente, mi sfugge.
Non ho né il diritto né la competenza per addentrarmi nei particolari di questo “diritto”. Eppure, pensando proprio al Codice di diritto canonico, che ti riconosce quale successore degli Apostoli, e pensando al Papa che, liberamente, ti ha nominato per santificare, insegnare e governare, mi chiedo se davvero la proibizione di recitare il canone in lingua sarda, possa essere in qualche modo ispirata o riferibile all’insegnamento degli Apostoli.
Mi chiedo anche se Papa Francesco, succeduto al Papa che ti ha nominato, sia al corrente del fatto che ai sardi è oggi impedito di celebrare la Santa messa nella propria lingua materna. Mi chiedo se pensi che Papa Francesco, se ne fosse informato, potrebbe condividere una decisione del genere.
So che la questione non riguarda una sola diocesi, bensì la Chiesa sarda nel suo complesso, la sua conferenza episcopale. Ho persino il sospetto che, come purtroppo la storia insegna, i maggiori responsabili della emarginazione della nostra lingua e della nostra cultura, in ambito religioso, non siano coloro che, come te, arrivano dal continente, ma proprio i vescovi nostri conterranei, o almeno una parte di essi, quelli che dovrebbero essere più sensibili al dovere di onorare il padre e la madre.
Non riesco ad immaginare alcun particolare motivo di diffidenza, da parte tua, da parte del Vescovo di Cagliari, nei confronti dell’utilizzazione della lingua sarda nella celebrazione del sacrificio di Cristo. Ma sei tu il vescovo, vescovo che preferisco nelle vesti di pastore piuttosto che in quelle di episcopo, pertanto è a te che devo porgere due semplici domande che richiedono un’altrettanto semplice risposta: “si o no?”.
1. Esiste alcuna ragione, di carattere teologico, che possa giustificare il divieto di celebrare il sacrificio della messa in lingua sarda?
2. Il vescovo, il pastore, della diocesi di Cagliari, davvero proibisce che possa celebrarsi la Santo Messa in lingua sarda?
Cagliari 6 gennaio 2016
Un abbraccio
Gianni Loy
Fine modulo
Antonio Pinna • 15 ore fa
Caro Gianni, solo una precisazione, perché già alcuni mi accusano di cose di cui io ero interessato o in qualche modo protagonista, come in questo caso, e non si sono mai preoccupati di parlarne con me, meglio a quanto pare supporre complotti che supporre fraternità senza aggettivi sacri. Allora, il vangelo in sardo, noi sappiamo bene, non è stato letto subito dopo l’italiano. Anche questo era previsto: nelle condizioni doveva essere letto all’inizio dell’omelia. Solo che io vi ho lasciato sedere, come d’abitudine, ho fatto una premessa dicendo che “per uno strappo” ci veniva concesso di leggere il vangelo in sardo al momento dell’omelia. Ho anche detto che questo faceva pare della nostra tradizione: basta avere pratica con le omelie conservate nei nostri archivi, che cominciano sempre con la citazione latina e la traduzione in sardo di una frase evangelica. Ottime traduzioni del resto. Ricordo bene le espressioni del Can. Marras senior di Oristano. Ebbene, ho anche detto che per fare le cose che si fanno sempre non abbiamo bisogno di permessi o beneplaciti, pena di assomigliare a quel personaggio di Le Petit Prince che aspettava il momento giusto per comandare al sole di tramontare. E il sole ubbidiente tramontava. E noi ubbidienti abbiamo fatto quello che i nostri antichi facevano, Solo che date le circostanze, vi ho invitato ad alzarvi di nuovo in piedi, perché la nostra lingua, sempre, ma soprattutto quando esprime anch’essa non solo con pari diritto di tutte le altre, ma apportando sfumature sue proprie, ecco soprattutto in quel momento la nostra lingua aspetta di essere onorata. E nosu onorada dh’eus. A faci a istedhu chi no est istedhu coment’e is àterus, poita si bit in Betlemmi, ma in Gerusalemmi no, non dhu bint. Aici apu nau chistionendi de s’evangéliu e pentzu de non essi andau fora ‘e làcana ( “fuori tema”, po icussus chi funt imparendi su sadru…).
Antonio Pinna,
che ha guidato i canti e tenuto l’omelia in San Lorenzo,
dandone copia per ricordo ai presenti, in un foglio che conteneva l’antico canto “Celesti tesoru”,
insieme al Salmo responsoriale composto dal nostro noto e apprezzato compositore Vittorio Montis, Salmo che secondo le indicazioni abbiamo cantato con il solo ritornello al momento liturgico suo proprio, ma che poi ci siamo gustati più a lungo al momento della comunione. Aggiungo, che a parte questi aspetti che tu dici, abbiamo pregato in santa pace e in spirito familiare. Del resto alcune testimonianze espresse da alcuni presenti sempre on line lo testimoniano in abbondanza.
vedi altro
Antonia • un giorno fa
Caro Arrigo, per me faresti meglio ad occuparti dei parroci che fanno scappare i fedeli della parrocchia facendo notare che loro sono i padroni e comandano loro (Ma la chiesa, intesa come edificio, non è dei parrocchiani?) e la Chiesa non sono tutti i fedeli o solo il parroco? Almeno questo è ciò che mi è stato insegnato durante i numerosi anni di catechismo
Antonio • un giorno fa
Secondo me, Caro Monsignor Arrigo, dovresti avere uno sguardo un po’ più critico nei confronti dei parroci che fanno scappare i fedeli perchè “La chiesa (N.B.: in quanto edificio di culto) è casa mia e decido io” (parole testuali di un parroco di Cagliari durante una riunione per la organizzazione della Messa di prima Comunione)
Sergio Vacca Sono andato ad assistere alla Messa della sera del 5, essendomi stata segnalata da Gianni Loy come insieme di celebrazioni in lingua sarda e sollecitato da un altro amico. Per me è stata una tappa del riavvicinamento alla pratica religiosa, trascurata per oltre quarant’anni, spinto dal dramma che mi ha colpito un anno e mezzo fa. Per me mezzo per continuare il dialogo con Chi mi ha improvvisamente lasciato in una mattina piovosa del luglio nuorese. Non ho perciò tutti gli strumenti, ad incominciare da quello linguistico e poi teologico o canonico, ma credo – ed è ciò che voglio testimoniare – che la questione, nei termini in cui la ha posta Salvatore Cubeddu, stia veramente nella pavidità della classe dirigente ecclesiastica sarda. Non voglio usare i termini, oggettivamente pesanti, che utilizzava Cicitu Masala per descrivere certa borghesia che ha rappresentato la cosiddetta classe dirigente della nostra isola, ma dal dibattito in corso mi pare di capire che i Vescovi sardi, anche di nascita, siano tuttora appiattiti su quegli schemi e direttive canoniche che Papa Francesco cerca di superare. Aspettando – secondo l’antico detto napoletano – “che passi la nottata”, ossia che il prossimo Papa ristabilisca le antiche regole e soprattutto le gerarchie.
Allargare il dibattito e portarlo in tutte le sedi utili a far diventare il problema della lingua sarda anche nelle cerimonie religiose di dominio pubblico, credo sia “cosa buona e giusta”
Sergio Vacca