IL GIUBILEO: SIGNIFICATO E ATTUALITA’, di Padre Maurizio Teani

*Professore ordinario di Scienze Bibliche presso la Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna. Il saggio, con le note, è stato pubblicato su Theoogica &- Historica. Annali della Ponlificia Facoltà Teologica della Sardegna.  XXIV, pagg. 97 – 106.

Sommario. In occasione dell’indizione del Giubileo Straordinario della Misericordia da parte di Papa Francesco, il presente contributo intende riflettere sul significato dell’istituzione del giubileo a partire dalla testimonianza biblica. Presso l’antico Israele il giubileo si lega ai due eventi fondatori, l’esodo dall’Egitto e l’alleanza al Sinai, e, in particolare, al comandamento del sabato il quale ricorda all’uomo come la sua esistenza sia segnata dalla gratuità di un dono originario. La preoccupazione che ha portato all’istituzione, rispettivamente, del sabato, dell’anno sabbatico e del giubileo, è sempre stata, ed è anche oggi, la medesima: fare in modo che l’evento dell’esodo venga attualizzato così da promuovere, nelle diverse circostanze sto­riche, la libertà e la dignità di tutti.

 

Il 13 marzo 2015 Papa Francesco ha annunciato l’indizione di un Giubilileo Straordinario della Misericordia. Una decisione in piena coerenza con i conte­nuti e lo stile che caratterizzano l’insieme della sua azione pastorale, Basti qui ricordare l’esortazione Evangelii Gaudium del 24 novembre 2013, in cui la (ri)scoperta della misericordia come cuore del Vangelo e, correlativamente, come cuore dell’annuncio cristiano, è indicata quale via maestra per una profonda conversione missionaria della Chiesa. In questo contributo intendiamo mettere a fuoco il significato che l’istituzione del Giubileo rivestiva presso l’antico Israele. Ciò contribuirà a cogliere la valenza dell’Anno Santo Straordinario, che avrà inizio l’8 dicembre 2015 .

 

Gli eventi fondatori della storia di Israele

 

Quale significato riveste il Giubileo secondo la testimonianza biblica?

A quale esigenza intende rispondere la normativa prevista dal legislatore? Per chiarire adeguatamente la questione, è necessario prendere in considerazione la storia di Israele, all’interno della quale è sorta l’istituzione dell’anno giubilare. Due sono gli eventi fondatori della storia di Israele: l’esodo dall’Egitto e l’alleanza al Sinai. A questi eventi, che costituiscono il nocciolo della fede biblica, Israele si rifarà continuamente, per definire la sua identità e il senso della propria esistenza. I due eventi sono tra loro strettamente collegati.

Va evidenziato, innanzitutto, come l’esodo tenda all’alleanza. In Egitto Dio si è rivelato come Colui che gratuitamente ha preso le difese di un po­polo oppresso e lo ha strappato dalle mani del Faraone. È quanto esprime in maniera lapidaria il testo di Levitico 26,13: «Io sono il Signore, vostro Dio, che vi ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, perché non foste più loro schiavi. Ho spezzato il vostro giogo e vi ho fatto camminare a testa alta». La libera­zione dalla schiavitù egiziana, tuttavia, non esaurisce l’intervento di Dio. Non basta, infatti, essere sottratti ad una relazione alienante. Occorre es­sere introdotti in una nuova relazione liberante. Solo così si può accedere ad una condizione di vita autentica. Il fatto è che non si può vivere sciolti da ogni relazione “vincolante”: a qualcuno (qualcosa) ci si lega. Il problema è entrare in relazioni che non mortifichino ma esaltino la nostra persona nella sua dignità e nel suo valore fondamentali. Per questo Israele, liberato da un regime di schiavitù, è sollecitato a entrare in un regime di servizio, facendo alleanza con il Signore.

Se è vero che l’esodo tende all’alleanza, bisogna subito aggiungere che l’alleanza presuppone l’esodo. Il termine alleanza rimanda all’idea di “le­game”, “vincolo”. Fare alleanza, conseguentemente, è scegliere di legarsi con un partner. È quello che Dio aveva di mira quando era intervenuto in Egitto: fin dall’inizio, prendendo le parti di Israele, aveva fortemente desi­derato fare di quella gente il suo popolo. Ciò è espresso con chiarezza dal passo di Esodo 19,4: «Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all’Egitto, come ho sollevato voi su ali di aquila e vi ho fatto venire fino a me”. L’alleanza segna la nascita di una relazione, con cui si inaugura un nuovo modo di esistere e di agire. Più che un punto di arrivo, essa costituisce l’inizio di’una storia, che i due partners si impegnano a realizzare insieme. Ognuno di loro, nella sua identità e nel suo futuro, dipende dall’altro. Ognuno dei due è definito dalla relazione di appartenenza all’altro: ormai il Signore (Yahwè) è definito dal suo essere Dio di Israele; Israele, a sua volta, è definito dal suo essere popolo del Signore (Yahwè). Ora, una tale alleanza si può instaurare solo tra due soggetti liberi, in grado di decidere senza costrizioni di legarsi l’uno all’altro. Per questo l’alleanza sinaitica presuppone gli eventi dell’esodo. Avendo allora ritrovato la dignità di gente che può camminare “a testa alta”, gli israeliti sono posti nella condizione di poter scegliere liberamente di fare alleanza con il Signore.

 

 

Il dono della Legge e il comandamento del sabato

Facendo alleanza, i due contraenti si impegnano alla fedeltà reciproca.

Ciò, concretamente, si traduce nell’impegno ad osservare le clausole dell’alleanza stessa. Nel patto sinaitico tali clausole sono date dalla Legge, di cui le “dieci parole” (Decalogo) costituiscono il documento fondamentale. È istruttivo che il termine ebraico Torah, che traduciamo con “Legge”, in­cluda il significato di “insegnamento”, “ammaestramento”. Ne risulta che il Decalogo (e tutta la legislazione successiva, ad esso collegata) contiene l’in­dicazione della strada da percorrere per conservare e promuovere la libertà e la benedizione ricevute del tutto gratuitamente dal Signore. La Torah, dunque, è la Parola autorevole che Israele deve tenere come luce ai suoi passi. Solo così sarà in grado di non riprodurre quelle situazioni di schia­vitù, tragicamente sperimentate in Egitto. Ciò è detto chiaramente in Le­vitico 18,3: «Non farete come si fa nel paese d’Egitto dove avete abitato». In questa prospettiva, risulta particolarmente incisiva la risposta rabbinica alla domanda circa il ruolo della Torah. La risposta è che essa fu data a Israele “perché per Dio è stato più facile far uscire gli ebrei dall’Egitto, che l’Egitto dagli ebrei’”. Liberare dall’oppressione non è un’impresa semplice. Ma an­cora più difficile è sradicare dal cuore degli oppressi la logica del Faraone, che affonda le sue radici nel culto (idolatrico) della forza, della ricchezza, del proprio interesse. La forza del Faraone è che arriva ad occupare il cuore di chi ha ridotto in schiavitù, portandolo a pensare come lui. Per questo è  indispensabile la Legge come insegnamento fondamentale della via da seguire, così da salvaguardare in ogni circostanza la vita e la libertà di tutti.

Come si vede «la legge ha un unico intendimento, e cioè che il popolo possa attualizzare il senso manifestatosi all’Esodo».

Quanto detto trova chiara espressione nel comandamento centrale del Decalogo, posto tra i comandamenti che riguardano Dio e quelli che riguar­dano il prossimo: il comandamento del sabato’. Di esso la Bibbia conserva due recensioni (Es 20,8-11 e Dt 5,12-15). Nel testo del Déuteronomio il sabato è posto esplicitamente in relazione con la liberazione dalla schiavitù egiziana: «Ricordati che sei stato schiavo nella terra d’Egitto e che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso» (Dt 5,15)· Os­servare il sabato consiste nel fare memoria dell’evento fondatore di Israele. Sospendendo nel settimo giorno l’attività lavorativa, l’israelita afferma di essere libero perché è stato liberato. In tal modo attualizza simbolicamente lo spirito dell’ esodo «nella festa che esprime la sua libertà»’. Anche nel testo di Es 20 il sabato è presentato come il giorno del ricordo (v.8: «Ricordati del giorno di sabato per santificarlo»), ma viene collegato al “fare” originario di Dio (V.11: «Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il settimo giorno»). L’israelita è chiamato a celebrare l’opera del Creatore, riconoscendo che la sua vita e il suo futuro, alla radice, non dipendono dall’ opera delle sue mani.

Oltre che il giorno del ricordo, il sabato è il giorno della condivisione del dono ricevuto. Colui che è stato liberato è chiamato a farsi mediatore di liberazione. È quanto viene evidenziato da ambedue le recensioni del co­mandamento (cf Es 20,10 e Dt 5,14), il quale appare concretamente «rivolto al pater familias perché faccia riposare coloro che dipendono da lui, i figli, i servi, l’immigrato e persino gli animali domestici. Ciò significa che il dono (della vita, della liberazione, del riposo) è veramente ricevuto solo se è a sua volta donato»”. L’intento del precetto sabbatico, dunque, consiste nell’ar­ticolare il ricordo del dono di Dio (della vita e della libertà) con l’impegno a promuovere la vita e la libertà degli altri. Così, il settimo giorno «non è soltanto il giorno in cui l’israelita si riposa per celebrare la libertà ricevuta

da Dio, facendone memoria. E’ anche il giorno in cui accorda il riposo a tutti coloro che lavorano per lui. E’ agevole a questo punto riconoscere la valenza simbolica del precetto del sabato. « Esso suggerisce infatti che la legge “centrale” dell’israelita (cioè dell’uomo secondo la rivelazione biblica) è quella di donare liberamente ciò che ha ricevuto. Per cui fare il  sabato equivale a perdonare e guarire, soccorrere e insegnare, comunicare la propria saggezza e il proprio spirito, cosi che l’altro, sottoposto a schiavitù, viva dell’unico dono che è vita di tutti. In questo senso Gesù, con i “segni” ope­rati il giorno di sabato, non ha trasgredito, anzi ha portato a compimento il senso del comandamento».           ‘

Ci si potrebbe chiedere perché il sabato sia oggetto di comando. Il mo­tivo va individuato nel fatto che l’uomo facilmente dimentica che la sua esistenza è segnata da un dono originario e rischia a ogni piè sospinto di assumere nei confronti di essa un atteggiamento padronale. Ancora: il sabato è comandato perché l’uomo tendenzialmente restringe a se stesso il dono ricevuto.

 

 

L’anno sabbatico e l’anno del Giubileo

 

Quanto è significato nel ciclo della settimana dal riposo del settimo giorno, viene reso operante nella società israelitica attraverso due istitu­zioni speciali: l’anno sabbatico, celebrato ogni sette anni, e l’anno del Giu­bileo, celebrato, secondo l’espressione di Lv 25,8, ogni «sette settimane di anni», cioè ogni cinquant’anni. Come si è giunti alla istituzione dei due “anni santi”? A quali problemi intendono offrire una soluzione?

Torniamo a rivolgerei alla storia di Israele. Dopo l’esodo dalla schiavitù egiziana e dopo la stipulazione dell’alleanza al Sinai con la consegna della Legge, Israele riceve in dono una terra dove poter vivere da popolo libero. Il libro di Giosuè, dopo aver narrato l’ingresso in Canaan, si sofferma a lungo, per ben nove capitoli (Gs 13-21), a documentare come la terra sia stata distri­buita tra le dodici tribù e sia stata divisa tra le famiglie appartenenti a ogni singola tribù. In tal modo, il redattore ha inteso dare particolare rilievo al fatto che a ciascuna tribù è stato assegnato il proprio territorio e a ogni fa­miglia il proprio campo. Ne risulta che la ripartizione della terra è un dato originario, definisce Israele come popolo di uguali, in cui ognuno ha rice­vuto i mezzi necessari per procurarsi da vivere con il proprio lavoro.

Questa condizione di diritto, se così si può dire, divino, è stata ripetuta­mente messa in crisi dal formarsi all’interno di Israele di estese sacche di povertà. I motivi potevano essere molteplici: il sopraggiungere di una sic­cità, un’invasione di cavallette, le guerre ricorrenti e i tributi imposti dalle potenze straniere, malattie di vario genere. Ora, chi cadeva nell’indigenza non poteva far altro che indebitarsi per poter sopravvivere. Con la conseguenza che finiva spesso per trovarsi nella impossibilità di saldare il debito contratto. Era allora costretto a vendere se stesso (come forza-lavoro) al creditore, arrivando in certi casi perfino ad alienare la terra di famiglia (i raccolti andavano al creditore). In tal modo, veniva a crearsi una situazione senza uscita, in cui il debitore si trovava di fatto condannato a lavorare per sempre per un altro. Si riproponeva così la tragica condizione sperimentata dagli israeliti in Egitto! Una condizione che contraddiceva la storia origi­naria di Israele e ciò che era a fondamento della sua identità. Una condi­zione, insomma, che risultava in palese contrasto con quanto Dio aveva operato per liberare il suo popolo dall’oppressione del Faraone. Si poneva allora l’esigenza di elaborare una normativa in grado di eliminare o, comunque, di contenere gli effetti devastanti innescati dal moltiplicarsi del casi di indigenza. Non si poteva, infatti, tollerare che si venissero a creare si­tuazioni di dipendenza definitive e senza possibilità alcuna di superamento. Si trattava di individuare delle piste percorribili per salvaguardare la libertà e l’uguaglianza di tutti coloro che risiedevano nella terra di Israele, in primis dei più deboli e indifesi. È questa esigenza che ha portato all’istituzione dei

due “anni santi” .

L’anno sabbatico è menzionato in tutte le raccolte legislative presenti

nella Scrittura. La più antica, denominata Codice dell’alleanza (Es 20,22­23,19), prescrive che ogni sette anni la terra sia lasciata incolta (23,lo-11a). Anche la terra deve usufruire del “riposo”! Il rispetto e la cura verso di essa includono, come corollario necessario, un’attenzione particolare verso i poveri e persino nei confronti degli animali selvatici, cosi da permettere loro di trovare il cibo necessario per sfamarsi (23,11b-12). Come si vede, una stessa intenzionalità è all’origine sia del sabato che dell’anno sabbatico: che si tratti di un giorno alla settimana o di un anno ogni sette, «lo spirito è lo stesso: quello che importa è preoccuparsi di ciò su cui e di coloro sui quali si ha potere, rinunciando in loro favore a un dominio totale”. Il Codice deuteronomistico (Dt 12-26), redatto successivamente a quello dell’ alleanza,

non si sofferma sul riposo da accordare alla terra. Presenta invece il settimo anno come quello in cui vanno condonati i debiti (15,2: «ogni creditore … lascerà cadere il proprio diritto») e riacquistano la libertà tutti coloro che si erano venduti come schiavi, non essendo stati in grado di restituire quanto avevano ricevuto in prestito (15, 12-14). Da notare la motivazione addotta a giustificazione di quanto prescritto: «Ti ricorderai che sei stato schiavo nella terra d’Egitto e che il Signore, tuo Dio, ti ha riscattato; perciò io ti do oggi questo comando» (15,15). Anche qui, come nel caso del precetto del sabato, resta fondamentale il riferimento alla liberazione dalla schiavitù egi­ziana: colui che è stato liberato è chiamato a farsi, a sua volta, promotore di libertà.

Il Codice più recente, detto «Legge di santità» (Lv 17-26), oltre a ripren­dere la legislazione relativa all’anno sabbatico (25,1-7), introduce la nor­mativa concernente il Giubileo (25,8-17). Quest’ultima stabilisce che ogni cinquant’anni ciascun israelita torni in possesso del campo assegnato alla sua famiglia al momento dell’ingresso nella terra di Canaan. «Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nella terra per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo; ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia» (Lv 25,10). Il cinquantesimo anno è pre­sentato come un tempo di “liberazione” (derar), nel quale gli indigenti non solo riacquistano la libertà, ma anche – e soprattutto – i mezzi (le case e i campi) per restare liberi. In questo fiorire di libertà risiede tutto il senso del “giubileo”. Il termine rende l’ebraico jabel, che indica il “corno” di mon­tone. Esso veniva utilizzato per convocare l’assemblea del popolo. Anche l’anno della liberazione era annunciato con il suono del corno, il che spiega la presenza del termine nel passo del Levitico.

San Girolamo, nella versione latina da lui curata (la Vulgata), ha reso jabel con annus iubilaei, sulla base dell’assonanza tra il termine ebraico e iubilum (“canto di festa”). Tale traduzione ha il merito di evidenziare la componente di esultanza e di sollievo vissuta da coloro che, con il giubileo, intra­vedevano la possibilità di rifarsi una vita. Una possibilità che veniva offerta a tutti, perché a tutti fosse consentito gustare qualcosa della dignità’ e della libertà perdute. A questo riguardo, risulta degno di nota il valore simbolico rivestito dal numero cinquanta. Esso evocava un tempo maturo, la pienezza dell’età di una persona”, dato che l’arco di tempo cinquantennale rappresentava la durata media della vita. Ma allora, stabilire il giubileo ogni cin­quant’anni significava dare l’opportunità a ogni israelita di poter fare espe­rienza, almeno una volta nella vita, dei beni connessi all’anno giubilare.

Ribadiamolo. La preoccupazione che ha portato all’istituzione, rispettivamente, del sabato, dell’anno sabbatico e del giubileo, è sempre la stessa: fare in modo che l’evento dell’esodo venga attualizzato così da promuo­vere, nelle diverse circostanze storiche, la libertà e la dignità di tutti. Gli stu­diosi concordano nel riconoscere che, con ogni probabilità, la legge relativa all’anno giubilare non è mai stata applicata in Israele. «Ma se è stata mante­nuta nel diritto, significa che la sua portata umana e teologica è essenziale. Infatti questa legge impone un limite al dominio umano sulla terra e sugli altri, e difende il diritto dei poveri contro gli inevitabili abusi di potere di cui sono vittime. Di nuovo, questa legge è una legge di libertà: che il potente sia libero nei confronti del suo potere e che il ricco non sia schiavo della sua sete di possesso. Piuttosto, essi si impegnino a rispettare l’altro, evitando di impoverirlo o di privarlo per sempre della sua libertà».

Passando a considerare la versione greca (la cosiddetta versione dei “Set­tanta”) di L v 25,10, si nota che ambedue i termini ebraici jBbel e derér sono tradotti con aphesis (“condono”, “remissione”). Tale scelta interpretativa, oltre a mantenere il riferimento all’affrancamento dei debitori e al recupero dei terreni, prospetta una liberazione più radicale: il riscatto dalla schiavitù del peccato in una ritrovata relazione con Dio. In questa direzione si muove il testo di Is 61,1-3. Esso è inserito al centro della più ampia unità testuale costituita dai capitoli 60-62, composti da una serie di annunci di salvezza riguardanti Gerusalemme e formanti, a loro volta, il nucleo centrale della terza parte del libro di Isaia (Is 56-66). Il passo di Is 61 si apre introducendo la figura di un inviato di Dio, che ha ricevuto la missione di «portare il lieto annuncio ai poveri» (v. 1a). In cosa consista tale annuncio è specificato dalle espressioni che seguono. Particolarmente rilevante è l’espressione del V.1C (<<proclamare la liberazione degli schiavi») in cui, con la ripresa del verbo qara (‘proclamare”) e del sostantivo deràr (“liberazione”), ricorrenti in Lv 25,10, viene operato un chiaro rimando alla istituzione relativa al cinquan­tesimo anno. Ne risulta che «l’anno di grazia», menzionato subito dopo (v. 2a), non può che indicare l’anno del giubileo, un tempo di liberazione inaspettato che doveva segnare la rinascita di Israele come popolo dopo la catastrofe dell’esilio. Un tempo di grazia immeritato, dato che la miserevole

condizione degli israeliti è vista nel contesto come la conseguenza dramma­tica dell’avere abbandonato il Signore. Ciò risulta in modo netto dalle due composizioni, incentrate sulla confessione dei peccati, che fanno da cor­nice ai capitoli 60-62. La prima (Is 59) è costituita da un salmo penitenziale, che, dopo aver svolto un’analisi impietosa della violenza e della menzogna dilaganti tra il popolo (vv. 3-8), approda alla confessione comunitaria del peccato (vv 9-15). L’altra unità testuale è raccolta in Is 63,7-64,11. Si tratta di una solenne liturgia penitenziale, in cui la storia di Israele viene letta come una tragica sequenza di ribellioni nei confronti del Signore. Senza alcuna pretesa da far valere, si fa allora appello alla paternità e alla misericordia del Signore, un appello sofferto, accompagnato dalla confessione del proprio peccato (64,4-6).

Il testo di Is 61,1-3 è ripreso da Gesù nella sinagoga di Nazareth, allorché pronuncia il suo discorso programmatico (Lc 4,16-30). In questa solenne cir­costanza si presenta come l’inviato di cui parla il profeta. Investito dello Spirito di Dio, proclama e realizza con la sua azione messianica il tempo de­cisivo della salvezza. Con la sua venuta si rende presente il giubileo defini­tivo , che porta a compimento le attese di liberazione suscitate da tutti gli anni santi precedenti. Si tratta di un tempo di grazia, che è primariamente perdono dei peccati e riconciliazione con Dio e con gli altri. L’esperienza del perdono è fondamentale. Su questo punto hanno sempre insistito i giu­bilei – ordinari e straordinari – indetti dalla Chiesa cattolica a partire dal 1300. Ciò non significa che debba passare in secondo piano la dimensione sociale del giubileo. Significa che, se la coscienza delle persone non viene li­berata dall’ambizione e dall’avidità, a nulla servono le riforme istituzionali. In ogni caso, incontro con la misericordia di Dio e promozione di relazioni con gli altri e con la natura. segnate da cura e rispetto, devono andare di pari passo.

 

 

Conclusione aperta

 

L’istituzione del giubileo, il cui significato è stato delineato nelle pagine precedenti, rimane di grande attualità. Continua a interpellare non solo la Chiesa, ma ogni uomo e donna desiderosi di promuovere la giustizia in un mondo – come non cessa di ricordare papa Francesco – dominato dalla cultura dello scarto e contaminato dall’inquinamento dell’ambiente e delle coscienze. Lo si è visto: l’istanza che ha portato alla creazione dell’anno giubilare è stata quella di promuovere una reale fraternità e una effettiva condivisione all’interno di Israele. Si trattava di tenere conto dei mecca­nismi che, nelle concrete situazioni storiche, rischiavano di compromettere l’uguaglianza di tutti i membri della comunità. È sorta così una normativa che, al di là della sua reale applicazione, mantiene tutto il suo valore come ideale sempre nuovamente da perseguire.

Anche a noi oggi viene chiesto «di prendere del tempo per rompere con ciò che nel corso della storia ha potuto snaturarsi, alienarsi, perdersi. È l’appello che papa Francesco ha lanciato indicendo il Giu.bileo Straordinario della Misericordia. Dopo avere richiamato il testo di Lc 4,16-30, commentato sopra, in cui Gesù interpreta la sua missione alla luce di quella del perso­naggio presentato dal profeta Isaia, il papa afferma: «Questo Anno Santo porta con sé la ricchezza della missione di Gesù che risuona nelle parole del Profeta: portare una parola e un gesto di consolazione ai poveri, annunciare la liberazione a quanti sono prigionieri delle nuove schiavitù della società moderna, restituire la vista a chi non riesce più a vedere perché curvo su se stesso, e restituire dignità a quanti ne sono stati privati» (Misericordiae Vultus n.16).

Per mettere in atto efficacemente tale prassi liberatrice, sarà necessario un supplemento di sapienza da parte di tutti, così da promuovere una convivenza basata sulla cura fattiva e disinteressata nei confronti degli altri e sul rispetto della “nostra casa comune”. Soprattutto, occorrerà fare propri alcuni punti emersi analizzando la formazione e il significato della legge

giubilare. Innanzitutto è basilare avvertire che la vita di ciascuno è segnata da un dono originario. Nessuno è padrone, nessuno può disporre a piaci­mento degli altri e delle cose”. Siamo amministratori dei beni della terra, da usare responsabilmente per promuovere, nelle diverse circostanze sto­riche, la fraternità e l’uguaglianza, dimensioni fondamentali del progetto di Dio sull’umanità. Conseguentemente, si può tollerare che una persona (un popolo) si trovi per un certo tempo in una condizione di inferiorità e di dipendenza. Ma non si può accettare che tale condizione diventi definitiva. Come un tempo in Israele, anche oggi è necessario intervenire di fronte alle forme di schiavitù che si ripropongono nella nostra società mercantile, “inventando” soluzioni legislative e forme di solidarietà in grado di pro­muovere efficacemente spazi di liberazione e concrete forme di solidarietà. Ciò non si potrà attuare se le persone (i popoli) economicamente avvan­taggiati non accetteranno di perdere qualcosa, di «lasciar cadere il proprio diritto» (cf. Dt 15,1-2) in nome della fraternità.

 

 

 

Condividi su:

    Comments are closed.