Fra Antonino Pisano, l’icona condivisa, a Cagliari, fra le comunità di Sant’Eulalia e Bonaria, di Gianfranco Murtas

Le recenti vicende dell’Asilo della Marina hanno richiamato l’attenzione di molti – senza peraltro smuovere le volontà necessarie alla loro soluzione – attorno a quell’istituzione educativa antica di un secolo e mezzo e tanto più su quel tanto di anni che s’identificano con il servizio prestato, come una gran madre del quartiere, da suor Giuseppina Nicoli, oggi beata. Un’epoca che press’a poco coincide con il vissuto di fra Antonino Pisano che nel quartiere della Marina nacque e crebbe bambino.


Fra le storie umili, ma io credo luminose – così per i laici, intendo gli agnostici e perfino gli atei, come per i credenti –, quella del giovanissimo mercedario cagliaritano assume, ai miei occhi, spessore di umanità che ispira ammirazione e partecipazione, inducendo chi vi s’accosti, dal nostro stesso territorio cittadino, a un suo inquadramento perfino facile fra tempi e luoghi. Perché la suggestione maggiore nasce forse in questo compromesso materiale, fra la nostra storia civica – negli anni che erano per gran parte quelli della sindacatura Bacaredda e negli spazi da noi stessi attraversati frequentando i centri storici di un capoluogo detto pluricentrico dagli urbanisti – e l’esperienza breve di vita, direi proprio oblativa ed eroica, di un ragazzo semplice, figlio del popolo, destinato ora alla beatificazione e canonizzazione.

Lo scorso anno – dico del 2014 – mi permisi di consigliare al parroco di Sant’Eulalia di mixare, nell’occasione della festa patronale, onoranze speciali, giusto dal punto di vista del quartiere, alla memoria del grande piccolo nostro, che aprì gli occhi al mondo proprio in una casa che insisteva allora nel piazzale della collegiata. Don Marco Lai raccolse l’invito e idealmente gemellò la sua comunità con quella di Bonaria, invitando padre Giovannino Tolu a celebrare e dire a Sant’Eulalia di fra Antonino e me, successivamente (giovedì 13 febbraio), a svolgere una relazione, nel teatro, tanto più mirata ad illustrare quartiere e città di quell’inizio di Novecento. Il tutto allora integrai con un…  francescanissimo giornale volante (preparato nel novantesimo della sua professione semplice: 8 dicembre 1923) che offersi alle due parrocchie, con quei cenni di microstoria che quasi saldavano una biografia personale ad un’altra collettiva.

Qui di seguito riporto, in successione, i due testi. Auspicando che l’entrante 2016, anche con il nuovo assetto e la nuova prefettura della congregazione delle cause dei santi – cui assicurarono per lungo tempo la propria preziosa collaborazione i nostri don Ottorino Pietro Alberti, compianto arcivescovo, e don Luigi De Magistris, oggi cardinale – possa rimettere in pista il fascicolo intestato a fra Antonino. Per il tanto che in esso è contenuto: ben più delle carte, una esemplarità di vita secondo la virtù dei semplici.

Antonio Giuseppe Giovanni, tre nomi nei registri parrocchiali

Chi ne ha lasciato testimonianza personale, o chi ne ha scritto pagine di biografia – da Remo Branca a Cenza Thermes ad Antonio Romagnino  – ce lo ha presentato come uno dei gioielli spirituali della Cagliari del primo Novecento. Santo per indole e  volontà , un adolescente passato al Cielo, dopo lunga sofferenza, a vent’anni soltanto. Antonino Pisano, terzo figlio di  Stefano – pescatore a paga giornaliera (sarà poi cantiniere e guardia daziaria), nato a Sant’Avendrace – e Raffaela Monni – casalinga teuladina –, viene al mondo, il 19 marzo 1907, nel quartiere della Marina, ad un passo dalla parrocchiale, in una modesta casa affittata al pian terreno della piazza Sant’Eulalia civico 5, giusto di fianco alla sede della Congregazione del SS. Sacramento.

La sua è, come molte altre in città, una famiglia dalla prole abbondante. Preceduto da Elvira ed Efisio, è seguito da Mercede, Maria e Gesuina gemelle, e Regina. Il battesimo viene celebrato domenica 7 aprile da don Amedeo Loi. Gli sono imposti i nomi di Antonio – per la speciale devozione materna a Sant’Antonio da Padova –, Giuseppe e Giovanni.  Fungono da padrini uno zio per parte di padre – Antonio Pisano – ed uno per parte di madre – Elena Monni. Una curiosità: il registro baptizatorum sbaglia il cognome, declinandolo con la finale “u”. Non è però Pisanu, è Pisano!

Non è difficile immaginarlo – e così sarà raccontato per davvero dai suoi familiari ed amici – giocare bambino di quattro-cinque-sei anni in casa e nella piazzetta, fra il campanile e le scalette, e poi nelle strade più vicine, in tempi che ancora non conoscono il traffico se non dei carretti a traino ora umano ora d’asino o cavallo. Fra i giochi in casa, nei primi anni della scuola, è quello ingenuo che replica le funzioni viste all’altare della chiesa; in strada è il “corri e acchiappa” il gioco preferito, che dà sfogo alle gambe e alla furbizia. Ma, per Antonino, tutto si compie senza eccessi, con libertà ma anche con disciplina e il senso della misura. Secondo il suo temperamento e anche secondo l’educazione ricevuta.

Dopo i moti luddisti del 1906

Nel 1907 Cagliari vive ancora il trauma della rivolta popolare contro carovita e disoccupazione dell’anno precedente: una rivolta che è costata alcuni morti e gravi disastri materiali. La città conta poco meno di 60mila abitanti (traguardo che sfonderà al censimento del 1911); alla Marina vivono in 10mila, il doppio ce n’è a Villanova – che è il quartiere in maggiore espansione edilizia e demografica –, a Stampace sono qualcosa come 15mila e 9mila a Castello. Le case dei cagliaritani appaiono ancora concentrate tutte nei quattro quartieri storici, cui si aggiungono, alle parti opposte della città, i due sobborghi di Sant’Avendrace e San Bartolomeo, rispettivamente con 3mila e 1.700 residenti. Da molte parti si sollecitano, dopo lo smontaggio dei cantieri così ai bastioni di Castello come alla scuola che un giorno s’intitolerà al Satta, e dopo l’ormai prossima conclusione del palazzo civico di via Roma, nuove grandi opere pubbliche che consentano di dare lavoro agli operai. Questi, oltretutto, continuano a  subire la concorrenza dei tanti che, nei propri paesi del Campidano, non trovano più da campare e per questo premono sul capoluogo.

Al Comune si discute della municipalizzazione dei servizi di pubblico interesse, iniziando dal gas e l’acqua, e si discute dell’avvio di un piano di edilizia popolare, per il quale si individuerà un’area a Campo Carreras, in direzione di Is Stelladas… Presto inizierà la costruzione delle caserme dei carabinieri o allievi carabinieri nella zona delle vie Nuova e Iglesias (poi Sonnino e Deledda) ed anche della nuova scuola di Santa Caterina, dopo l’abbattimento dell’antico monastero delle domenicane. Il resto dei cantieri sarà per aggiustamenti o ampliamenti della rete fognaria o della trama stradale, ecc. Resta quindi il porto, che ha completato il suo ingrandimento, ma che continua ad aver necessità attorno ai moli che s’aprono come un abbraccio a chi raggiunge via mare la città e la mette in relazione con il mondo…

Sono anni in cui tutto si sta rinnovando nelle tecnologie e nel costume, ed anche i ceti popolari partecipano alla novità: nel 1900, in città si è affacciato il telefono; nel 1902 il foot ball; nel  1903 ha fatto la sua apparizione la prima autovettura; nel  1905 s’è proiettato il primo film (muto); ma intanto l’associazionismo ora patriottico ora culturale o sportivo sta mischiando sempre più fra loro i cagliaritani che un tempo riportavano la loro identità al più stretto orizzonte del quartiere di provenienza. Pur se l’orgoglio delle radici, all’ombra del rispettivo campanile, rimane e rimarrà…

Il sindaco Bacaredda ha cominciato a ribattezzare le strade. Anche alla Marina, dove da piazza e vico delle Banche sono venute su piazza e vico Giovanni Spano, mentre piazza Fontana Nuova è divenuta piazza Savoia, la via Gesus s’è chiamata via Cavour, e la via del Fortino ha cambiato in via Darsena e fra breve cambierà ancora in via Porcile, mentre le vie dei Preti e del Pagatore diventeranno Lepanto e Sigismondo Arquer, la via Mores sarà via Napoli, la via Saline sarà via Sardegna…

C’è gran movimento di ragazzi alla Marina, fra le elementari  tutt’attorno alla parrocchiale, alla scuola Cima di via Collegio, al liceo-ginnasio di piazzetta Dettori, all’istituto tecnico nelle scalette del Sepolcro… E gran movimento c’è a Sant’Eulalia, una delle tre collegiate cittadine (con Sant’Anna e San Giacomo) cariche di secoli e prestigio, ciascuna – al pari della cattedrale – con sette o dieci fra parroci e beneficiati…

Nel 1907 è presidente della collegiata il quartese don Luigi Pinna (al tempo anche assistente ecclesiastico del famoso circolo San Saturnino e più tardi canonico del Capitolo metropolitano). L’archivio storico parrocchiale conserva la memoria dei sacerdoti che, nei decenni a cavallo fra Ottocento e Novecento, servono religiosamente la comunità della Marina. Scorrono dalle carte anche i nomi dei reverendi Efisio Argiolas, Fortunato Besson, Salvatore Cabras, Giovanni Carta, Giuseppe Durzu,Giuseppe Lai Pedroni, Federico Loi, Paolo Manca, Giuseppe Miglior (futuro vescovo di Ogliastra, sede episcopale già di monsignor Paolo Maria Serci Serra, anche lui in passato presidente parroco), Saturnino Peri (altro futuro vescovo, prima a Crotone  quindi ad Iglesias), Mario Piu (divenuto poi storico presidente parroco di Sant’Anna), Fortunato Praxolu, Rafaele Sechi… e quanti altri! Altri sacerdoti eminenti funzioneranno nelle chiese filiali, fra cui Santa Caterina alessandrina, a sa Costa, o Sant’Antonio abate, anch’essa a sa Costa, o il Santo Sepolcro, o Santa Lucia, o Sant’Agostino…

La vicenda di vita dei parroci di Sant’Eulalia s’incrocia, inevitabilmente, con quella dei molti che frequentano la chiesa come una loro seconda casa. Don Amedeo Loi – il sacerdote che battezza il piccolo Antonino Pisano – lascerà, per il paradiso, nel 1942. A succedergli sarà don Mario Floris rimasto nel ricordo perfino epico del quartiere come l’apostolo sociale della ricostruzione…

La guerra e il dopoguerra

Cresce in un quartiere dominato dal calendario della parrocchiale con le sue devozioni comunitarie e tutto proiettato, sparpagliato anzi,nelle strade vissute come luogo comunitario, di incontro, dialogo e anche confusione, il piccolo Antonino. Nel ricordo dei più tornerà questo suo tratto socievole, di bontà naturale e pazienza, di vivacità scherzosa e mai però aggressiva;  si dirà di questa capacità di stare in compagnia senza farsene soffocare, ed anche di questa spontanea attitudine a darsi ai doveri di bambino che, prima d’iscriversi alla scuola pubblica, comincia le elementari presso una maestra disponibile. E’ molto miope (addirittura sette ed otto decimi), mostrerà qualche difficoltà nella lettura. Collaborativo in casa nelle piccole faccende domestiche, è pronto alle commissioni nella bottega di alimentari e un domani alle consegne del pane caldo alle cappuccine in clausura.

Lascia il quartiere non si sa precisamente quando, potrebbe essere intorno al 1915, press’a poco all’inizio della grande guerra, cui sono richiamati anche i suoi zii, o addirittura prima. Forse proprio quando alla Marina arriva quella gran donna che è suor Giuseppina Nicoli, che tanti bambini e adolescenti chiamerà a far famiglia chiamandosi marianelli. Si trasferisce di casa, Antonino, prima in via Sonnino, poi in viale Bonaria, dove, al civico 15, abita la madrina che è anche sua zia, da cui viene traslocato per dormire (e più liberamente alzarsi prestissimo, secondo abitudine personale, per andare a servire la prima messa al santuario).

Riceve la prima comunione (il 31 marzo 1918) e la cresima (il 24 settembre 1920) da monsignor Piovella, a Bonaria, eretta parrocchia nel 1917; qui, dopo che chierichetto, è attivo nel circolo giovanile intitolato a San Luigi, seguito con cure paterne da Luigi Spolverini, un sacerdote mercedario educatore nato. E’ un preadolescente con idee molto chiare in testa. Conosce la città, osserva di lato al santuario l’imponente, bisecolare cantiere della basilica fermo da anni. Si appassiona alla vita dei santi. Farsi santo non è poi così difficile…

Crescendo si mostra sempre più pensieroso, docile nella relazione e però concentrato anche su se stesso, maturo prima del tempo. E’ toccato dalla sorte, e dall’esempio, di un terziario, morto di tisi 16enne appena, Giuseppe Madrigale… Si farà mercedario anche lui, non senza aver superato molte prove prima, come l’umiliazione del rigetto per il debole visus ed il passaggio agli studi, per un anno, dai cappuccini. E’ ammesso al noviziato il 5 marzo 1922, 15enne, ed alla professione religiosa l’8 dicembre 1923, neppure 17enne.

La tubercolosi s’incrocerà con la sua vocazione, la sua età e i suoi studi. Morrà nel convento di Bonaria il 6 agosto 1927, appena 20enne, venerato come un figlio santo dall’intera comunità mercedaria. La sua salma riposa alla destra dell’altare maggiore del santuario di Bonaria. Lì è anche un pezzo della memoria popolare della Marina e della comunità di Sant’Eulalia.

Un santo negli anni bacareddiani e in quel principio di dittatura

Visitiamo il santuario di Nostra Signora di Bonaria ed ai piedi dell’altare troviamo una tomba modesta eppure solenne, se la vogliamo intendere come “ponte” fra terra e cielo: accoglie i resti di un giovane cagliaritano di vent’anni, novizio mercenario, che la città ha perduto – o acquistato con nuova potenza – nel 1927, il 6 agosto, solennità della trasfigurazione di Nostro Signore.

Era stato battezzato al fonte di Sant’Eulalia dal parroco collegiato don Amedeo Loi, domenica 7 aprile 1907, a 19 giorni dalla nascita, avvenuta nella solennità di San Giuseppe lavoratore nella casa al civico 5 di piazza Sant’Eulalia.

Morto di tubercolosi nel convento mercedario in fama di santità, il processo diocesano della sua beatificazione fu avviato all’indomani della guerra, nel 1945, ad iniziativa dell’arcivescovo Piovella, per concludersi dodici anni dopo, il 10 novembre 1957, quand’era ordinario di Cagliari monsignor Paolo Botto.La causa è tuttora pendente presso la Congregazione dei santi a Roma.

Pensare a fra Antonino Pisano – Antonio Giuseppe Giovanni è registrato nell’atto di battesimo – nel nostro contesto di Sant’Eulalia significa adesso rivederlo, con gli occhi del verosimile, nella sua casa della Marina e nelle relazioni del suo vicinato, nel 1907 e per qualche anno, fino a che la famiglia si trasferì verso la via Sonnino, che in quel tempo era denominata via Nuova ed una strada quasi limite di Villanova, uno dei quattro quartieri storici di Cagliari.

Descrizione di una città provinciale nel cuore della belle époque

Oltre quella via Nuova la città presentava allora qualche isoletta abitata in direzione di Monte Urpinu (in parte di proprietà dei Sanjust) o del Poetto, che come spiaggia sarebbe stato scoperto soltanto alla vigilia della “grande guerra”, preferito in crescendo a Giorgino dov’erano diversi stabilimenti.

C’era, in quegli spazi orientali della città, oltre la via Nuova, l’antico convento di San Benedetto, che aveva accolto fra Ignazio da Laconi nel Settecento ed ora era stato utilizzato dal Comune come lazzaretto anti-tbc e altro,

c’era la chiesa secentesca di San Lucifero, bellissima ma malridotta, con le sue tombe sotterranee,

e c’era quella più antica di mille e più anni di San Saturno che aveva avuto una grande storia nell’alto medioevo (dopo la morte nel 304 del giovane martire, qui erano venuti giusto duecento anni dopo i vescovi esuli del nord Africa che avevano portato a Cagliari le spoglie di Sant’Agostino, morto all’inizio del 400, e collocate poi nella cripta che conosciamo nel largo Carlo Felice),

c’era, là davanti, quella grande piazza di San Cosimo che era stata un’area cimiteriale, dove nel XVII secolo, in piena epoca spagnola, l’arcivescovo Desquivel aveva fatto disseppellire centinaia di resti di brava gente che, a torto o a ragione, aveva voluto interpretare come “beati martiri”, e trasferire in cattedrale, con una solennissima processione di sei ore, e collocare infine nella cripta fatta scavare nella roccia sotto il presbiterio apposta rialzato: così Cagliari s’era assicurata il primato su Sassari, che se lo disputava come chiesa locale che vantava anch’essa alcuni protomartiri, come Gavino Proto e Gianuario,

c’era il cimitero monumentale – veramente lontano dall’abitato per una scelta di igiene pubblica – inaugurato nel gennaio 1829 e via via ampliato sia lateralmente che verticalmente, in salita su terreni sia della mensa  arcivescovile che dei padri mercedari

c’era, fin dal 1300 – dal tempo dell’accampamento aragonese che per tre anni aveva guardato alla rocca di Castello, da dove i pisani, compreso che la partita era persa, erano partiti imbarcandosi senza colpo ferire –, il santuario mercedario di Bonaria e, al suo fianco, il cantiere, solo il cantiere fermo da 150 anni, della basilica, sulla sommità della collinetta sopra su Siccu, che era una area paludosa e malsana bonificata soltanto negli anni fra ’20 e ’30;

ma oltre su Siccu – di fronte all’attuale Fiera Internazionale – c’era il poligono di tiro, più oltre l’area di San Bartolomeo con la sua chiesetta intitolata all’apostolo patrono dei macellai, le saline di Stato e la colonia penale che accoglieva i forzati.

Tutt’attorno ai luoghi sacri qualche casa, ma il resto erano orti, frutteti, cardeti, oliveti e anche vigne.

Così era Cagliari. Una città che dai 16mila abitanti che aveva contato  all’indomani della grande peste (quella da cui ci salvò Sant’Efisio), fra 1652 e 1656, aveva raddoppiato in due secoli e mezzo, cioè fino al tempo di Bacaredda sindaco, che è anche l’epoca di nascita del nostro fra Antonino Pisano.

Tutt’attorno campagne, dalla parte di Villanova ma anche dalla parte di Is Mirrionis, e per il resto erano le aree marine, portuali e delle lagune, Santa Gilla a Sant’Avendrace. Tutte strette attorno alla collina di Castello le tre appendici di Stampace, Villanova e della Marina.

Da seicento anni, dopo la distruzione di Sant’Igia –  la città giudicale costruita (per protezione dagli assalti dal mare) a ridosso della laguna di Santa Gilla con il suo palazzo reale, la sua cattedrale ecc. fin verso il colle di San Michele –, Cagliari era articolata in quattro quartieri ben strutturati e due sobborghi (quelli di Sant’Avendrace e San Bartolomeo).

Intorno al 1350, quasi ancora il tempo di Dante, un poeta-geografo fiorentino che si chiamava Fazio degli Uberti, proponendo il suo atlante geografico in versi – il Dittamondo –, quando parla delle città della Sardegna elenca i quartieri di Cagliari come fossero cittadelle autonome: Sassari, Buosa, Callari e Stampace, / Arestan, Villanova e la Lighiera… dunque: Sassari, Bosa, Cagliari (che sta per Castello, e con Castello è la sua appendice di Lapola che dà sbocco al mare), Stampace, Oristano, Villanova e Alghero… E’ una fotografia letteraria.

E’ poi nota la fotografia cartografica di Sigismondo Arquer, conferita alla Cosmografia Universale del Munster (1558) scritta essa pure in italiano.  La città sembra è proprio un quadrifoglio irregolare e tondeggiante, con Stampace e Villanova che sembrano le due ali del corpo centrale, in asse, Castello/Lapola. Tutt’attorno i campi agricoli, terra e sassi.

Fino a che i sardi non rinunciarono alla loro autonomia, accettando la legislazione di terraferma dei Savoia, nel 1847 – tre lustri prima dell’unità d’Italia – la città era costituita anche amministrativamente da quattro ville ciascuna con un suo governo locale competente nelle materie ordinarie (tipo nettezza urbana ecc.).

Così articolata la città è anche descritta dall’abate Vittorio Angius che per il dizionario geografico del Casalis compila, negli anni ’40 dell’Ottocento,  le voci di tutti i comuni isolani. Per Cagliari scrive più di trecento pagine, e tutta la sua esposizione tiene conto di questa articolazione territoriale.

Con la “perfetta fusione” del 1847-48 e soprattutto con l’unità d’Italia del 1861 iniziò per Cagliari una nuova storia, perché unificandosi sia amministrativamente che, soprattutto, territorialmente essa diventava una città con una sua precisa identità che era la somma e la sintesi di quella dei quattro quartieri.

Ciò sarà favorito anche dalla mobilità interna che, ora per ragioni di posto di lavoro rispetto all’abitazione, ora per ragioni di frequenza scolastica del ginnasio o delle superiori rispetto all’abitazione, ora per ragioni di appartenenza associativa rispetto all’abitazione, mischierà le carte e farà degli stampacini buoni conoscitori anche della Marina o di Villanova, dei villanovesi buoni conoscitori di Stampace o della Marina, dei castellani buoni conoscitori di tutte le appendici, ecc. ecc.

Se da molti secoli Cagliari era stata una piazzaforte militare, data la sua posizione strategica nel mediterraneo, ecco che finalmente – dismessa dallo stato di piazzaforte nel 1866 – comincia ad abbattere le sue mura: non soltanto quelle esterne, comprese dunque quelle del porto, che erano bucate soltanto da alcune calate a mare per raggiungere le navi alla fonda, ma anche quelle che dividevano quartiere da quartiere, con tanto di porte di accesso che la sera venivano chiuse.

Delle tante porte di quei secoli, a parte qualcuna a Castello, ci è rimasta quella stampacina degli Alberti, di fianco alla chiesa di San Michele e all’ospedale militare.

Questa mezza autonomia dei quartieri aveva avuto anche una espressione plastica nella funzione esercitata nei secoli dalle parrocchie collegiate, che a Stampace, Marina e Villanova replicavano il modello della cattedrale governata dall’arcivescovo e dal suo capitolo dei canonici. Così a Sant’Anna, a Sant’Eulalia e a San Giacomo funzionavano le collegiate, cioè comunità di parroci, o di cinque o di sette elementi, che di norma assicuravano il proprio servizio liturgico e l’assistenza ai malati un giorno alla settimana, ed avevano un presidente parroco di nomina vescovile. In antico c’erano poi una sfilza anche di cosiddetti beneficiati, preti che campavano cioè con un assegno derivante dalle rendite di case e terreni o titoli lasciati alla Chiesa dalle buone anime che speravano nel perdono dei loro peccati.

Una manifestazione della semiautonomia dei quartieri restava comunque nell’approntamento di alcuni servizi comunali, come ad esempio le vaccinazioni, per le quali si usavano spesso i locali delle parrocchie. E anche nelle elezioni e nei censimenti, sicché i dati che noi abbiamo delle dimensioni demografiche della città derivano dalle conte per quartiere. Ciò anche negli anni di passaggio fra Ottocento e Novecento, cioè anche trenta e quarant’anni dopo che l’unità d’Italia era compiuta, e così l’unità cagliaritana grazie all’abbattimento delle mura divisorie fra Stampace, la Marina e Villanova, e anche – attraverso la scalinata del bastione che è del 1902-1904 – Castello.

Insomma, quando Cagliari finalmente diventava Cagliari davvero e non era più soltanto la federazione di quattro quartieri e due sobborghi, continuavano certe classifiche per quartiere. Così ai censimenti e così, almeno fino al 1901, anche nelle registrazioni delle sepolture al cimitero di Bonaria: lì il direttore segnava in registri separati nomi e generalità dei morti a seconda della provenienza per quartiere.

Quali erano dunque le dimensioni della città quando nasce, nella sua casa di piazza Sant’Eulalia, fra Antonino Pisano?

Alla fine del 1907 i cagliaritani sono 55.800 abitanti. Al censimento decennale del 1901 Cagliari aveva contato 53mila residenti, la provincia (comprendente anche l’Iglesiente, l’Oristanese e l’Ogliastra, circondari retti da un sottoprefetto) 482mila, tutta la Sardegna 796mila.

Nel 1911, al censimento successivo, la città conterà 59.600 abitanti, la regione 868mila.  Conosciamo le dimensioni demografiche dei quartieri:

è Villanova in espansione più di tutti, può contare sulle campagne che digradano oltre la via Nuova in direzione di Monte Urpinu e di San Benedetto, San Lucifero e Bonaria, e sono o saranno aree di espansione edilizia: sorgeranno presto i quartieri di San Benedetto e Bonaria. Villanova – a guardare il decennio 1901 -1911 – passa da 16.500 a 20.100 abitanti: cresce di quasi un quarto.

Stampace cresce di oltre duemila abitanti, passando dai 14.000 ai 16.500.

Castello cresce un po’ anch’esso, pur se non può espandersi per limiti fisici evidenti, andando dagli 8.000 ai 9.300.

Ad est – San Bartolomeo, frazione vera e propria, va dai 1.900 ai 1.600 abitanti, compresi di forzati della colonia penale che lavorano alle saline ma anche nelle opere pubbliche, facendo concorrenza ai disoccupati incensurati;

a nord, Sant’Avendrace, fra Santa Gilla e Tuvixeddu, dà casa a pescatori soprattutto, cresciuti dai 2.500 ai 3.000 circa.

E naturalmente c’è la Marina, stabile nel decennio: 10.100, 10.700.

E’ possibile immaginare, scorrendo qualche almanacco cittadino, com’era, quasi strada per strada, il quartiere ai primi del Novecento.

Un nuovo focus sul quartiere del porto

La Marina, come gli altri quartieri, aveva perduto le sue mura secolari che avevano sei varchi:

la porta detta di Stampace (alla base della attuale via Manno nel suo innesto con la piazza Yenne, all’interno del compendio del bastione militare di San Francesco, in asse cioè con la antica chiesa dei minori conventuali di San Francesco in su brugu, corso Vittorio Emanuele),

quella di Sant’Agostino – dov’è oggi la via Sardegna alle spalle della Rinascente –,

quella del Molo o di Sant’Elmo – dov’è l’innesto via Roma/via Barcellona,

quella della darsena, dove era la seconda calata portuale (col fortino di San Vincenzo),

quella del Gesus – dov’è oggi la via Cavour che fronteggia l’ex Manifattura tabacchi,

quella infine detta di Villanova – dov’è oggi la piazza Martiri, in capo a sa Costa/via Manno nel compendio dei bastioni della Madonna di Monserrato.

Lo stradario del secondo Ottocento/primissimo Novecento elenca 37 fra vie e vicoli, piazze e viali, che sono quelli stessi di cinquant’anni prima registrati dall’Angius. Andiamo a qualche dettaglio, alla distribuzione di uffici pubblici e sede di associazioni e anche di qualche ditta commerciale.

Si può tentare, restando press’a poco negli anni della prima infanzia di fra Antonino alla Marina, un giro ragionato, fra i cento possibili, del quartiere buttando l’occhio qua e là sulle insegne dei fianchi abitati, partendo magari dall’Asilo della Marina e Stampace – in omaggio a uno dei cuori pulsanti  del quartiere, funzionante nel 1907 ormai da 43 anni (e la cappella – che era della Madonna d’Itria, trasferita poi in via Manno – da 26 anni), in attesa della sua suora santa, quella suor Nicoli, superiora vincenziana, figlia della carità, che qui arriverà nel 1914 e durerà giusto dieci anni, per morire dopo aver fatto grandi cose coi marianelli e piccioccus de crobi il 31 dicembre 1924.

(A Cagliari essa era già venuta giovanissima nel 1884, per insegnare qualche tempo al Conservatorio della Divina Provvidenza di Castello).

Possiamo trascorrere adesso tre o quattro minuti per ripassare, almeno con l’immaginazione, la mappa del quartiere nel primissimo Novecento:

nella via Baylle ecco ancora la Caserma di fanteria Sant’Agostino ed i consolati degli Stati Uniti e della Liberia, e anche la sede della società dei reduci delle patrie battaglie – i soldati delle guerre d’indipendenza tornati a casa, alle loro attività di lavoro, e costituitisi in società mutualistica, nel caso qualcuno si fosse ammalato o avesse perso l’occupazione…,  gli uffici assicurativi della Mutual e l’officina meccanica di Dino Devoto, la panetteria “forno romano” di Domenico Costa, il panificio viennese e fabbrica di gazzose della vedova Mereu, i pellami e cuoiami di Pasquale Schirru, la farmacia del dottor Bonu che ha ingresso anche sul Largo.

In via Napoli ecco il consolato del Cile e l’armeria Veritier.

Nella via Barcellona ecco la Camera del lavoro, con una dozzina di sezioni aderenti (camerieri, cuochi e pasticceri, lavoratori dell’azienda gas e acqua, infermieri, ferrovieri, mugnai, sarti, pompieri, scalpellini, marinai e stivatori e braccianti del porto, ecc.), ma anche il circolo degli impiegati e – proprio dal 1907 – la loggia massonica, borghese e filantropica, intitolata a Sigismondo Arquer, il giurista cagliaritano accusato di luteranesimo e bruciato vivo dall’Inquisizione nel 1571: l’inaugurazione nell’anno centenario della nascita di Giuseppe Garibaldi, il labaro esposto a palazzo Fulgher, di proprietà della Congregazione del SS Sacramento, che l’aveva avuto in lascito ereditario. Presenti qui anche l’ufficio pacchi delle Poste e l’officina meccanica e garage Boscaro e la rivendita di materiali elettrici di Domenico Roberto.

Nella via Sant’Eulalia ecco la Banca d’Italia e la Congregazione di carità – una specie di centrale di tutte le opere pie, con un consiglio d’amministrazione formato da rappresentanti del prefetto, della Provincia, del Comune, ecc.  – e il Monte di pietà, fondato addirittura nel Settecento a Castello e sceso poi in piazza Martiri e infine in via Sant’Eulalia appunto, che sarà assorbito negli anni futuri dal Banco di Napoli: la sede era proprio dov’è ora la parte del campetto che dà alla strada, e che fu donato nel 1990, insieme con un assegno di cento milioni per il museo del Tesoro, dal Banco di Napoli al Comune perché lo girasse alla parrocchia.

In via Sicilia l’Archivio notarile con il deposito degli atti  dei distretti di Cagliari e Lanusei, e là a fianco la sede della Società degli Operai, che si trasferirà presto in via XX Settembre.

Nella via Porcile il Circolo universitario e anche l’ingresso principale dell’ albergo La Scala di Ferro, il maggiore della città, con l’annesso stabilimento dei bagni d’acqua dolce.

E poi in su Stradoni, cioè nel viale Umberto I ribattezzato Regina Margherita – per onorare la moglie dopo che il marito con casa insieme al Quirinale – il consolato di Danimarca ma anche la Fratellanza militare, la Canottieri Ichnusa, la Corale Verdi, la Cassa Ademprivile – giusto dal 1907 abilitata a funzioni di istituto di credito per l’agricoltura – e la direzione della Compagnia Reale Ferrovie Sarde, ma soprattutto la Manifattura tabacchi in basso – dove in antico era stato il convento dei minori francescani risaliti poi a Santa Rosalia, la chiesa dei siciliani cioè: nel convento di su Stradoni aveva vissuto ed era morto fra Salvatore da Horta, e la chiesetta di Nostra Signora del Gesus aveva dato il nome anche a una delle porte della Marina, appunto quella del Gesus.

Ancora in su Stradoni funzionava, a palazzo Marini, all’altezza della piazzetta Regina Margherita (dov’è oggi il floricultore Pani), la redazione e la tipografia dell’Unione Sarda: così dal 1890 e per 25 anni, fino al trasferimento a Terrapieno, alla vigilia della grande guerra. La palazzina era stata costruita dallo zio paterno di quel dottor Efisio Marini, noto per essere un perito settore – medico delle autopsie – che aveva inventato la formula della pietrificazione dei cadaveri, e che era nato in via Sant’Eulalia, giusto di fronte a quello che sarebbe diventato il Galilei poi sede della Banca d’Italia, e che era anche nipote, ma per parte di madre, del canonico Marturano, parroco collegiato di sant’Eulalia. Allora – anni 1907 e successivi – era direttore dell’Unione Sarda un giovane professore di lettere, espertissimo di poesia cagliaritana, Raffa Garzia, rampollo dei Garzia che erano prediletti anche della nostra Congregazione del Santissimo: tutto nel quartiere.

Fra parentesi: come quotidiano L’Unione Sarda aveva proprio dal 1907 un concorrente ne Il Corriere dell’Isola, giornale clericale che era la continuazione de La Sardegna Cattolica, uscita per una decina d’anni a cavallo fra i due secoli. Direttore il conte Enrico Sanjust di Teulada.

Di fronte alla redazione dell’Unione Sarda, quindi sul fianco sinistro salendo lungo su Stradoni, era il Politeama Margherita, il teatro lirico e di prosa inaugurato del 1898, che sarebbe caduto per un incendio negli anni della seconda guerra mondiale, nel 1942. Forse più aristocratico e di musica seria, ma anche sede di comizi, era il Civico, al Balice/via Università, mentre il Politeama mostrava una maggiore varietà di repertori, per la soddisfazione del pubblico cagliaritano appassionato di lirica e prosa.

E poi uffici e negozi alla grande, assicurazioni – dalle Generali Venezia all’Adriatica di Sicurtà – e banchieri – da Manfredi e Vernier (a palazzo Mazza-Serventi, all’angolo con la via dei Pisani) a de Bonfils (il cui palazzotto era una reggia affrescata, di fronte a dov’è oggi l’hotel Regina Margherita) –, e la fabbrica di berretti (all’angolo con la via Eleonora d’Arborea) di Nicolò Pugliese, benemerito presidente dell’ospedale Civile…

In piazza Martiri aveva sede la società del Tiro a segno nazionale, che educava all’uso delle armi – il poligono era stato in piazza d’Armi, trasferito poi in via San Bartolomeo (attuale viale Diaz) – dato che, al tempo, almeno ogni qualche anno i cagliaritani come tutti gli italiani maschi erano chiamati a combattere, prima nelle guerre dell’indipendenza dall’Austria, poi nelle campagne coloniali d’Africa, quindi in Libia contro i turchi dell’impero Ottomano, poi nella 1915-18, quindi nelle imprese fasciste, ecc.

Non mancavano il bar di Luigi Trois e l’offelleria Tramer, la biancheria Altieri, due rivendite di carbon fossile, ecc.

Nella via Mazzini ecco la tipografia Meloni e Aitelli, della famiglia di uno dei parroci di Sant’Eulalia di metà Ottocento, il deposito dell’Editrice Libraria per abbonamenti a rate mensili, la gioielleria Edoardo Usai, le assicurazioni The Grasham, il consolato di Svezia e prestissimo – 1909 – la casa dei vagiti del piccolo Giuseppe Dessì lo scrittore di Paese d’ombre – Villacidro cioè –, battezzato al Santo Sepolcro (a causa dei lavori nella parrocchiale), così come qualche mese prima il piccolo Francesco Alziator, nato nella parte alta della via Baylle quasi allo sbocco con la via Manno.

Nella via Spano ecco il consolato di Grecia e soprattutto, dal 1890, il Banco di Napoli con il suo Monte Pegni.

In via Cima ecco la società dei proprietari di case, la pretura del 2° Mandamento

Nella via Manno ecco la società Agricoltori sardi (nel senso non di contadini ma di possidenti), quella del Patronato dei liberati dal carcere – giusto di fronte alla chiesa di Sant’Antonio abate, la chiesa che nel 1921 ascolterà un discorso pro missioni di monsignor Roncalli destinato a diventare papa Giovanni XXIII, e che si divide i fedeli di sa Costa (e non solo), sul fianco destro salendo, con quella dell’arciconfraternita degli immigrati genovesi intitolata ai Santi Giorgio e Caterina (frequentata dalla Deledda nei due anni di residenza cagliaritana, nel ’99 e ‘900)…

Ancora, nella via Manno, la pretura del 1° Mandamento, il Comizio Agrario, il Credito Fondiario, la Società Bancaria Sarda, il Convitto nazionale, i consolati di Argentina, dei Paesi Bassi e anche di Austria-Ungheria davanti a cui i cortei degli studenti democratici sfilano spesso rovesciando la bandiera (per dire della loro avversione alla Triplice Alleanza che lega l’Italia alle autocrazie di Austria e Germania).

E con questo, almeno altri trenta fra studi professionali – avvocati soprattutto ma anche agenti di cambio – ed esercizi commerciali che fanno molto belle époque: lampade a petrolio, specchi e ingrandimenti fotografici, posaterie e tovaglierie, abbigliamento vario, pellami esteri e nazionali, calzolerie, la libreria di Nino Fanni Cocco, ecc.

Nella via Torino ecco il comando della Divisione militare della Sardegna, il consolato di Bolivia, la tipografia Valdes già Muscas…

Nella via Principe Amedeo ecco il circolo militare ed il commissariato, la direzione territoriale del Genio, il superdentista Luigi Casotti…

Nella piazza Dettori ecco il liceo Dettori e di fianco – nel futuro Auditorium che era stata la chiesa gesuitica di Santa Teresa – l’Archivio di Stato.

Nella piazza San Sepolcro l’Azienda gas ed acqua e la ditta Fratelli Picciau (closet e sanitari in genere, piastrelle e tubi).

Nelle scalette del Portico Sant’Antonio ecco il comando delle guardie municipali, e – dov’era l’antico Fatebenefratelli (trasferitosi nel ’48 al nuovo ospedale Civile di Stampace) – l’Istituto tecnico intitolato allo storico Pietro Martini, sezioni fisico-matematica e commerciale-ragioneria, insieme con l’Istituto Nautico.

In piazza Savoia ecco la direzione provinciale delle Poste e Telegrafi e poco più giù, di fronte a Sant’Agostino, il Policlinico generale, il primo poliambulatorio di Cagliari con le corsie anche per i poveri nullatenenti, messo su da un gruppo di medici, primo fra tutti il dottor Raffaele Aresu, consigliere comunale e massone della loggia Sigismondo Arquer.  E anche lanerie e seterie, drapperie di De Angelis.

Più vicino alla parrocchiale, nella via Collegio, ecco la scuola tecnica maschile (dove poi andrà la Manno) intitolata all’architetto Gaetano Cima maschile…

In via Sardegna ecco l’albergo Quattro Mori, il panificio meccanico di Pietro Ferrari, il premiato bar Portorico con deposito di vini fini e liquori, il laboratorio del decoratore Vincenzo Camedda…

Nella via Roma ecco il consolato britannico – a palazzo Pernis, il famoso “dente” senza porticati – e quello di Germania – a palazzo Devoto, di fianco alla chiesa di San Francesco di Paola, e anche la bicicletteria Pani e Rocca, le officine con garage Del Corvo e Vivanet, i grossisti di carbon fossile Pernis e Vergara, la calceria dei Fratelli Barbera che hanno fornito materiale per i bastioni e il nuovo municipio, la ditta d’affissioni Marcialis, gli uffici della Vinalcool  e tre o quattro case assicuratrici, l’albergo Cavour, alcuni caffè di richiamo, sotto i portici che ormai pezzo a pezzo vanno connotando la strada, come il Torino, il Roma, ed anche il cinema Iris…

Nella Darsena la capitaneria di porto e la barriera daziaria, e prestissimo l’Intendenza di Finanza con la guardia di Finanza, il capannone della Rari Nantes (fondata nel 1909)…

Nel Largo il mercato – il famoso Partenone cagliaritano del 1884 dovuto all’ingegner Enrico Melis, residente anch’egli della Marina (in via Spano), e che avrebbe abbagliato con i suoi colori e le sue voci il grande scrittore inglese David H. Lawrence che lo visitò nel 1921 e lo fece protagonista del suo libro “See and Sardinia”, con i 180 box de susu per la frutta e verdura, e i 56 de basciu per la carne e il pesce. E, col mercato, il laboratorio chimico-municipale, il consolato di Danimarca, ecc.

La Marina è il quartiere del porto, cioè – in un’isola come è la Sardegna – della “porta” verso il mondo: è il quartiere dunque degli spedizionieri e dei commerci, delle banche e delle assicurazioni.

Sono almeno cento i professionisti che hanno studio nel quartiere e trecento sono le ditte che debbono servire non soltanto la città ma anche l’hinterland e la provincia nella fase di sviluppo modernista ormai avviato in agricoltura e nell’artigianato e anche nelle comodità domestiche: trattano coloniali  e colori, concimi chimici e carboni vegetali, carrozze a nolo e cartolerie, distillerie e veicoli a due ruote (non ancora a quattro), mobili e insaccati, abiti e stoffe  e altro ancora.

Il quartiere è, per popolazione, sei-sette volte quello che sarà in questi anni d’inizio Duemila: fra le strade più densamente popolate quelle proprio a ridosso della parrocchia, le vie dei Pisani, Cavour, Lepanto ed Arquer, che hanno storie antiche, descritte bene in “Forma Karalis” di Dionigi Scano e raccontate, anche e soprattutto per zuffe e piccoli incidenti di vicinato, nella cronaca dei giornali cittadini che dedicano in ogni numero alcune colonne di piombo ai fatti e fatterelli della vita quotidiana.

Questa è la Marina che accoglie il piccolo fra Antonino, figlio di un pescatore giornaliero nativo di Sant’Avendrace e di una teuladina.

Con i negozi e gli uffici pubblici, non è sbagliato vedere la vita del quartiere polarizzarsi attorno alle chiese, ciascuna con la sua storia, il suo carisma, da Sant’Agostino nuovo in via Baylle a Santa Lucia in via Sardegna, da Sant’Antonio abate e Santi Giorgio e Caterina a sa Costa al Santo Sepolcro nella via Dettori, ciascuna con la rispettiva arciconfraternita di diritto pontificio o confraternita diocesana, da Santa Rosalia in via Torino a San Francesco di Paola in via Roma, officiate rispettivamente dai minori osservanti e dai minimi o paolotti che dir si voglia.

L’anima religiosa della Marina

Le suore vincenziane dell’Asilo della Marina con la loro casa/scuola e cappella fanno la loro parte, soprattutto nella missione sociale e fanno da contrappunto alle monache Cappuccine di clausura nel riparo delle mura castellane.

La collegiata di Sant’Eulalia poi ha la regia di tutto, per prestigio storico, funzione canonica e soprattutto per la superiorità del suo organo, che proprio nel passaggio fra Ottocento e Novecento la pone in posizione d’eccellenza in città: perché ogni sua messa solenne, quella domenicale o quella per le grandi feste del calendario, è insieme liturgia e spettacolo che affascina. E’ qui che si presentano per la prima volta i nuovi spartiti che questo o quel compositore ha licenziato forse per devozione, forse per aspettarsi applausi e gloria.

La Congregazione del SS. Sacramento, che ha ingresso essa stessa nella piazza Sant’Eulalia, è il vero polmone finanziario della parrocchia. Ha ricevuto cospicue eredità nel corso dei secoli, è impegnata fin dalla sua costituzione, nel Seicento – quando analoghe Congregazioni sono sorte anche a Castello, Stampace e Villanova per la devozione eucaristica, in risposta alla teologia luterana che ha derubricato il mistero dalla transustanziazione alla pura consustanziazione –, nel soccorso dei poveri del quartiere oltreché nel supporto alle necessità parrocchiali.

Un rapido focus sulla collegiata: quando fra Antonino viene al mondo ed è battezzato al fonte parrocchiale, la guida della comunità è di don Luigi Pinna, quartese poco più che trentenne, in carica come presidente dalla primavera 1903, ma a Sant’Eulalia, come collegiato, già da due anni.

Quando poi il presidente parroco don Paolo Manca viene rimosso dall’arcivescovo Pietro Balestra (ci sarà anche uno strascico giudiziario fra arcivescovo e parroco), gli subentra: con lui sono don Fortunato Praxolu, don Mario Piu (poi storico presidente parroco a Sant’Anna), don Efisio Argiolas e don Amedeo Loi – entrambi, questi ultimi due – che scaleranno la presidenza a suo tempo.

Si potrebbe dire, fra parentesi e per aggiungere gloria alla comunità di Sant’Eulalia, che dal suo clero vengono, nell’ultimo secolo e mezzo, almeno tre vescovi e un quarto dal ceto dei suoi chierichetti: diventano vescovi don Paolo Maria Serci Serra (Ogliastra, poi Oristano, infine Cagliari), don Saturnino Peri (Crotone in Calabria, poi Iglesias), Giuseppe Miglior (Ogliastra); Luca Canepa (a Nuoro), dai chierichetti.

A fare un’altra zoomata su Sant’Eulalia ancora nell’anno 1907 può ricordarsi quanto segue: sei le messe domenicali, soltanto la mattina: alle 5, alle 6, alle 7, alle 8,30, cantata alle 10, alle 12; cinque messe al Santo Sepolcro direttamente dipendente dalla parrocchiale.

Per la solennità di Sant’Eulalia – siamo ormai a un mese prima della nascita di fra Antonino – predica di padre Stefano Jacobi, minore conventuale parroco a Spoleto; pontificale del vescovo Raffaele Piras, quartucciaio, di fresca nomina a Penne ed Atri, in Abruzzo; servizio musicale e vespri della cappella civica diretta dal maestro Brunetti.

Inizia presto la quaresima: celebrazione delle Quarant’Ore con processione e benedizione finali; prediche dei quaresimali (sull’esistenza di Dio, su Cristo nella storia, sul miracolo, sui mezzi per arrivare alla fede: studio amore preghiera); raccolta a pro delle chiese povere (fanno già 130,15 lire); predicazione per le sacre missioni (viene il decano capitolare Serra e il canonico teologo Perra); partecipazione con panegirico alle feste centenarie di San Francesco di Paola; benedizione papale alla fine del mese giuseppino e Te Deum.

Finalmente è qui il battesimo di fra Antonino, che ha per secondo nome quello di Giuseppe.

Da fine aprile iniziano le devozioni mariane che coprono tutto maggio; il 9, solennità dell’ascensione, le prime comunioni. Quindi viene giugno, dedicato al Sacro Cuore, con predicatori ad hoc…

La religione condiziona, anzi ritma, tutta la vita collettiva di Cagliari, dei suoi quartieri e dei rioni che compongono i quartieri e sovente si identificano con la chiesa o la comunità religiosa conventuale di riferimento (alla Marina si pensi ai paolotti o ai minori osservanti, o alle chiese di via Manno ecc.). Fra l’altro si potrebbe ricordare che nella metà degli anni ’20, per stemperare tensioni all’interno della collegiata nasceranno da Sant’Eulalia altre due parrocchie autonome: Sant’Antonio abate (tale rimasta fino a tutti gli anni ’50) e Sant’Agostino (che poi rinuncerà prima della guerra).

Dal 1901 è arcivescovo di Cagliari un francescano conventuale, fra Pietro Balestra, uomo di carità ma reazionario. E’ lui che ha delegato alla aristocrazia cittadina la cura e la guida del laicato. E quando nel 1905 don Virgilio Angioni – il futuro fondatore dell’Opera Buon Pastore, e per intanto parroco collegiato di San Giacomo – fonda un gruppo di apostolato laicale che chiama “fascio democratico cristiano – Leone XIII” e un giornale che ha per testata “Il Lavoratore”, che vedono le cose dalla parte dei poveri – i quali l’ingiustizia della disoccupazione o delle alte pigioni la soffrono tutti i giorni – egli s’oppone: ha paura dei socialisti e teme che i cattolici che combattono contro l’ingiustizia si facciano socialisti a loro volta, e sceglie ancora la carta del paternalismo dei ricchi. Il giornale deve chiudere.

Le trasformazioni moderniste del capoluogo

D’altra parte meriterà ricordare che negli anni fra il 1905 e il 1907-8, fino al 1910 o a quando fra Pietro Balestra s’invola anche lui in paradiso, a Cagliari la tensione politica è molto accesa. Bacaredda è il nome più importante dell’amministrazione comunale. Ha iniziato la sua magistratura alla fine del 1889, ed è rimasto fino al 1900. Poi ha fatto per tre anni il parlamentare, quindi è tornato al Comune ricandidandosi alla carica di sindaco. Ha fatto grandi cose, convinto che le opere pubbliche – come sono stati il nuovo municipio di via Roma, o i bastioni con la passeggiata coperta e la scalinata, o le scuole (il futuro Satta copre anche i bisogni della Marina, non solo di Stampace) – oltre ad abbellire la città favoriscano l’economia, facendo circolare il denaro e soprattutto dando lavoro agli operai disoccupati.

Tutto questo ha ritardato però la soluzione di problemi gravi e immediati sofferti dai ceti poveri, come sono le case – di fatto sono sottani malsani – o i prezzi dei generi di prima necessità.

La modernizzazione della città – per esempio con le vetture del tram, che arrivano a Pirri e Monserrato e Quartu per raccogliere vino e uva e trasportarli allo scalo di via Roma per l’esportazione, e che però cis’ tolgono il lavoro ai carrettieri; o le celle frigorifere del mercato allungano la buona conservazione degli alimenti inducendo i bottegai a speculare sui prezzi, ecc. – ha causato malessere crescente e nel maggio del 1906 è scoppiata la rivoluzione a Cagliari. Scioperi, cortei, manifestazioni di protesta, minacce, le prime devastazioni (i tram rovesciati, il vino finito in mare, gli uffici del dazio danneggiati), gli scontri con la forza pubblica, alcuni morti, diversi feriti. Tre giorni di guerra. Fino a che la giunta comunale si è dimessa, e i moderati (compresi i cattolici benestanti) hanno fatto blocco per paura non soltanto degli estremisti, ma in generale dei partiti popolari – repubblicani, radicali e socialisti – che hanno avuto alcuni loro esponenti incarcerati qualcuno per un anno prima del processo.

Nel 1907, a maggio e giugno, nella chiesa sconsacrata di Santa Restituta, si celebrato il processo: centinaia fra imputati e testimoni. Fra gli imputati anche un ragazzo, uno studente di Sanluri a pensione in via Baylle, che un giorno diventerà niente meno che giudice della corte costituzionale, Giuseppe Lampis.

Nella vita cittadina dunque, l’anno di nascita di fra Antonino è l’anno del mega-processo per i fatti del 1906, è l’anno del tentativo della città di tornare alla normale vita sociale ed amministrativa, pur se questo avviene con grande fatica. Infatti si passa da una crisi politica all’altra, Bacaredda riprende il suo ufficio, ma poi lo ricede presto a un commissario prefettizio e quindi al sindaco Giovanni Marcello che guiderà la città per tre anni. Lui tornerà in sella nel 1911 e lo resterà fino al 1917, l’anno terribile di Caporetto; poi dopo la guerra, per un anno fra 1920 e 1921, quando a dicembre morrà lasciando un grande ricordo anche in chi lo ha contestato e magari detestato.

Il 1907 nella vita cittadina è un anno di passioni ideologiche anche: perché una Chiesa chiusa a riccio, che pretende di avere ogni verità anche su terreni che non le sono propri, ha accentuato una risposta anticlericale. E proprio in via Sant’Eulalia, dove hanno sede i repubblicani – e qui si tratta di repubblicani in tempo di monarchia, gente che si ispira a Mazzini e magari a Goffredo Mameli – si organizzano i primi comizi anticlericali che hanno però anche una componente sociale, di protesta sociale.

Giusto l’anno dopo, nella parallela via Barcellona, metterà sede una nuova associazione, quella cosiddetta dei “martiri del libero pensiero: Giordano Bruno” cui parteciperà anche il giovanissimo Antonio Gramsci e altri studenti del vicino liceo Dettori con lui.

Nel 1907 muore il grande poeta Giosuè Carducci, ma per noi sardi è tempo anche di una bella affermazione in campo artistico: 24enne soltanto, Francesco Ciusa, nuorese, vince alla Biennale di Venezia con il suo capolavoro “La madre dell’ucciso”. “Io sono Francesco, il padre della madre / dell’ucciso, e son l’avolo del figlio… / Così a vent’anni, puro come un giglio / divento nonno prima d‘esser padre”, aveva verseggiato Sebastiano Satta che gli era amico. Da allora Ciusa vivrà gran parte della sua vita a Cagliari.

Negli anni che vedranno l’infanzia di fra Antonino trascorsa alla Marina, l’adolescenza nella casa di via Nuova (Sonnino) e la prima giovinezza nel convento mercedario di Bonaria (con un anno di studio anche nel seminario dei cappuccini) la città si trasformerà radicalmente.

I primi anni, quelli che scavalcano i primi due decenni, sono ancora di pace; vengono municipalizzati i servizi del gas e dell’acqua, si costruiscono le prime case operaie nell’area di Campo Carreras (fra l’attuale via Bacaredda e la piazza Galilei), si allarga l’offerta scolastica con nuovi stabilimenti, ad iniziare dalle elementari di Santa Caterina, a Castello, ed impostando a Villanova il Riva (progettato nel 1907, inaugurato nel 1915), si sviluppa l’Opera salesiana con oratori e scuole a Palabanda, si rinnovano e diffondono le reti dei servizi essenziali come quelli fognari e dell’illuminazione, si sistemano le strade urbane e si eliminano gli stallaggi dal centro cittadino perché antigienici, si inaugurano nuove linee tramviarie e si arriva finalmente al Poetto…

I monumenti, fra le ideologie e la vita sociale

Fra le imprese sociali più belle, nel periodo, è il volontariato di trenta studenti universitari cagliaritani, soprattutto di medicina, a Palermo all’indomani del terremoto di Reggio e Messina del dicembre 1908. Barellieri, infermieri, facchini. Fra essi anche Armando Businco, che diventerà un grande clinico e cui sarà intitolato il nostro Oncologico.

Poi toccherà agli atleti dell’Amsicora e a quelli dell’Arborea di esibirsi per molti giorni in Sicilia per raccogliere fondi a favore dei disastrati.

Iniziano le produzioni della birra Ichnusa dalla Vinalcool fondata da un tal Capra che a Sant’Eulalia, nel 1861, fra le proteste e il rifiuto del parroco, aveva cercato battezzare la figlia con il nome di Mazzini e Garibaldi.

Si piazzano nuovi monumenti pubblici, nello stesso 1913 Dante Alighieri davanti al Dettori e Giordano Bruno a Porta Castello, ultimo lembo del quartiere della Marina e della competenza di Sant’Eulalia. A novembre del 1914 il Consiglio comunale si riunisce per la prima volta nel muovo municipio di via Roma, lasciando l’antica sede di Castello.

Dal 1915 e fino al 1918 la città partecipa alla tragedia bellica che porterà Trento e Trieste, città italiane, nei confini della patria, strappandole all’Austria, e segnando con i suoi uomini – non soltanto con la gloriosa Brigata Sassari – molte imprese eroiche: Cagliari perderà 297 suoi figli, e un’altra trentina per eventi connessi. I loro nomi sono elencati nella cappella del transetto di destra della Basilica di Bonaria.

Seguirà il travaglio del dopoguerra, della smobilitazione, della disoccupazione di massa, della riconversione economica, del malessere sociale, fino agli scontri politici, violenti e talvolta assassini, delle squadre fasciste contro i democratici, e alla affermazione del regime di dittatura.

Certamente fra Antonino avrà avuto una eco di cosa s’agitava nella città e nel vasto mondo, ma il centro dei suoi interessi era un altro: e nel mezzo dell’agitazione generale – dell’agitazione di quelli che combattevano per la giustizia e la democrazia, e dell’agitazione di quelli che combattevano per imporre la dittatura – conservò, per quanto sappiamo, lui ragazzo di quindici-vent’anni, altre priorità: quelle mistiche, dell’oblazione personale nella malattia, a qualunque costo, per la gloria di Dio.

 

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