Gli articoli che non abbiamo scritto e le riflessioni che non abbiamo fatto, di Filippo Petrucci

Caro Direttore,

questa è una nota che non credevo fosse necessario scrivere.

Ho aspettato qualche giorno poi, non vedendo particolari reazioni di sorta, ho voluto farla. Venerdì 11 dicembre Nicholas Melis ha patteggiato una pena di 4 anni e mezzo per omicidio preterintenzionale: aveva ammazzato due anni fa Artan Meta, un signore albanese che viveva e lavorava a Villasor da venticinque anni, più anni di quelli che aveva il suo aggressore sardo.

Lo aveva aggredito per una futilità: Artan Meta gli aveva detto di non dare colpi a un distributore di sigarette (pare per 70 centesimi di resto non erogato) e il diciottenne aveva reagito prendendolo a calci in faccia. Si era poi vantato su facebook della sua azione. Il signor Meta cadendo aveva sbattuto la testa ed era morto dopo alcuni giorni di coma. L’Unione Sarda domenica 13 dicembre ha dedicato un articolo all’amarezza e al dolore composto della famiglia del signor Meta che pur comprendendo le cause di questo esito processuale, si domandava come mai, se l’imputato è stato ritenuto semi infermo di mente, avesse comunque potuto poi prendere la patente. La cittadinanza e il Comune di Villasor sono stati vicini alla famiglia Meta in questi due anni, molteplici sono stati i momenti di ricordo.

Ho fatto una ricerca su Google per vedere quanti articoli o ragionamenti siano stati fatti su questo delitto stupido nei due anni trascorsi, o se, prendendo spunto da questo episodio ci fossero state riflessioni sul disagio sociale esistente o sulla genesi stessa di questo tipo di violenze. Zero. A parte qualche articolo nei giorni seguenti al delitto, non c’è poi stato nessun ricordo, nessuno scritto che provasse a farsi domande su quella aggressione.

La destra fascista e reazionaria che avrebbe imbastito un carosello infame se il delitto fosse avvenuto a parti inverse, non ha proferito verbo; ma anche gli intellettuali di sinistra, che intervengono su città e campagne sarde, non hanno avuto modo di soffermarsi un attimo su questo fatto. La violenza sul signor Meta è stato un accanimento banale, da periferia degradata, da sottoproletariato urbano: tu ti permetti di farmi un’osservazione e io ti picchio, perché lo posso fare.

Abitare in un paese, in questo caso era Villasor ma non è rilevante, o in situazioni di degrado più tipicamente cittadine, sembra non faccia più differenza. La volgarità della vita di tutti i giorni, la sua mediocre e ordinaria ripetitività, è comune a tutti gli ambienti, quello cittadino e quello più riparato (e con maggiore controllo sociale) che esiste in realtà più piccole. Forse è l’incapacità di spiegarsi certe violenze che non ha scatenato dibattiti e dubbi.

Resta la speranza che sia questo il motivo, e non il fatto che il morto fosse un signore albanese, che da “appena” venticinque anni viveva in Sardegna.

Filippo Petrucci

 

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    1 Comment to “Gli articoli che non abbiamo scritto e le riflessioni che non abbiamo fatto, di Filippo Petrucci”

    1. By gianfranco murtas, 23 dicembre 2015 @ 15:18

      Caro Salvatore,
      leggo l’articolo sull’epilogo processuale legato alla vicenda luttuosa di Villasor di due anni fa, all’assassinio volgare e stupido – se mai esistano aggettivi a dar qualità negativa a un delitto – di Artan Meta. Leggo questa nota di Filippo Petrucci nel momento stesso in cui, tornando da Castello, ripensavo che proprio 27 anni fa, in questo stesso giorno e in queste stesse ore arrivava in città, come una folata gelida dalla costa dell’hinterland, la notizia della morte misteriosa di don Tonio Pittau, parroco della cattedrale di Santa Maria. E qui nessun epilogo processuale ci è dato, né mai ci è stato dato, di apprendere e commentare.
      Quando mi si chiede – e capita spesso – quale ragione umana possa scorgersi per credere in quella nuova e altra e sconosciuta dimensione di vita che usa chiamarsi paradiso, a me viene spontaneo, avendo la bisaccia vuota, di proporne una intuitiva: quella della compensazione ristoratrice e riequilibratrice – che mi pare debba essere anzi legge di natura –, a chiunque sia stato privato, dalla malattia o dalla stupidità dei vicini, o dalla balzana casualità delle circostanze, di quanto pur gli competeva in quanto creatura del mondo, potendo e dovendo dare valore al suo tempo e al suo talento. Nient’altro.
      Ed il primo pensiero, trattandosi di queste vicende, mi pare debba sempre andare a chi è sacrificato, quasi a cullarlo in un dolce compromesso di umanità. Il che però non chiude la faccenda e non ci esime da altre osservazioni e responsabilità umane e civiche.
      Perché viene poi da pensare a un “ambiente” che, più spesso per insipienza che per cattiveria, non ha i mezzi per capire quanto prezioso e gustoso possa essere l’altro capitatoti davanti per le motivazioni più varie, che sovente sono poi offerte inaspettate e provvidenziali d’investimento umano, di conoscenze nuove, di inoltri in orizzonti più larghi. E pesa qui, tanto più se si tratta di giovani, il deficit educativo di cui essi stessi, dalle proprie famiglie o dalla scuola, dalla parrocchia o dalla comunità locale in senso generico, sono fatti vittime.
      Alle soluzioni compensative in termini di giustizia dovrebbe provvedere la sapienza della legge – il cui senso profondo è la difesa dei deboli dalle prepotenze della giungla – e l’abilità, oltreché la moralità, degli organi chiamati alla responsabilità pubblica della sua applicazione. Mi pare inadeguata la legge – né tanto o soltanto per la durata della pena detentiva – nel caso del giovane assassinio di Artan Meta (e ricorda quanto impegno abbia messo, quand’ero in salute, alla pedagogia della giustizia minorile), mi pare assolutamente non (essere, o esser stata) all’altezza la magistratura che si è occupata – ora sono già passate quasi due generazioni! – della vicenda mesta di don Pittau.
      I magistrati, senza alcuna ragione fondata e comunicata né alla famiglia né alla opinione civica, non hanno proceduto alla ricognizione della salma le tante volte che è stata loro richiesta dai parenti e, elemento ancor più grave, su tanta volontà omissiva essi si sono radicati non valutando che neppure quando si sarebbe dovuto, in quei giorni penosi del dicembre 1988, quel povero cadavere era stato ispezionato dall’anatomo patologo. E mentre una mano pietosa seppelliva, ai margini della strada, la materia cerebrale lì recuperata, nessuna altra mano – nelle stanze comandate dalla giustizia – sfiorava quella nuca fracassata da un qualche randello nella forza di chi avrebbe quindi precipitato il peso in un burrone, ricoprendolo per scherno generale, anche dei magistrati, con un manto di scena.
      E dunque? Gli assassini per la loro parte, l’insufficienza delle investigazioni dall’altra, l’indifferenza sconcertante di un clero locale che non ha avvertito il dovere di onorare quella elettiva fraternità ferita mortalmente, così ci siamo mossi tutti quanti in una surrealtà rimasta tale, fra il sangue e l’ignavia.
      Mi domando che senso abbia oggi il giubileo di chi – laico o chierico e magari vescovo – , mai compromessosi nel dramma, continui ventisette anni dopo a non compromettersi.
      Onore dunque alla memoria di Artan Meta qui associata a quella di Tonio Pittau, che da giovane prete conobbe, curandola per anni, la condizione di vita dei migranti nelle miniere vicino a Bruxelles. Un lavoratore albanese valeva quanto i nostri riparati nel Belgio.