Il fantasma virtuoso di Efisio Marini, a Cagliari, di Gianfranco Murtas
Il recente lavoro di Pierluigi Serra “Cagliari esoterica”, recupera fra gli altri protagonisti delle scene inquadrate nella sequenza dei capitoli anche il mio Efisio Marini, il fantasma virtuoso in cui mi imbattei per la prima volta in tempi remoti, forse proprio quarant’anni a questi giorni, frugando fra le carte massoniche e, nel mezzo, fra i famosi “Goccius” del 1865 che intendevano astiosamente fotografare, con l’occhio negativo di qualche clericale magari d’ascendenza patrizia castellana, i partecipanti alla loggia Vittoria, l’apripista giunta a figliare proprio allora una loggia che sarà sfortunata, la Fedeltà, ancora nel filone rituale simbolico. Due anni e la Vittoria – forse a palazzo Villamarina, fianco a fianco della cattedrale – sarebbe risorta come loggia di rito scozzese, adottando subito, fra le sue opere umanitarie e filantropiche, il ricovero di mendicità del viale degli Ospizi e sposando la causa eleonoriana sul piano delle glorie patriottiche. Ma nello stesso 1867, il nostro Efisio Marini con Giuseppina e i figlietti Rosa e Vittore, se ne partiva per Napoli, sperando che quella università gli avrebbe riconosciuto i meriti che a Cagliari le spocchie accademiche tardavano a riconoscergli.
Francesco Alziator – la mia stella polare, con Antonio Romagnino, degli studi cagliaritani, da Bacaredda all’indietro e in avanti nel tempo – aveva depistato tutti, con la magia affabulatoria della sua scrittura, riferendo di Carmina e di Vittore destinato a morte bambino, causa prima della follia materna e della morte venuta presto a sanare ogni pena domestica. Ma Carmina – che ritorna nei gustosi romanzi di Giorgio Todde – era Giuseppina e Vittore, fortunatamente per lui, non morì bambino ma adulto, essendo ancora in salute nel 1900, dunque già trentaquattrenne, alla morte del padre in quel di Napoli.
Una decina d’anni fa mi rinchiusi per un mese intero nell’Archivio Storico Diocesano di Cagliari e con il conforto dell’amico don Tonino Cabizzosu e dei suoi ottimi collaboratori, ricostruii per filo e per segno l’intera genealogia dei Marini cagliaritani (e dei Lai pirresi), rimontando fino all’età napoleonica – e dei sabaudi in casa nostra – per sfondare infine, ripassato il secolo, il Novecento, il tempo della grande guerra e, dopo la dittatura, anche della seconda grande guerra, per arrivare alle macerie di via Sant’Eulalia descritte da Alziator peripatetico nelle pagine della rivista degli Amici del libro.
Una storia, quella di Efisio Marini e della sua famiglia d’origine non meno di quella da lui formata a partire da un matrimonio riparatore (per una creatura destinata a sfiorire l’indomani della nascita) celebrato – lui diciannovenne, lei diciassette – nella chiesa genovese di Santa Caterina, in via Manno, da uno dei parroci della collegiata di Sant’Eulalia, il canonico Marturano, zio materno di Efisio. Né meno affascinante è la storia dei Tarasconi, la famiglia di Giuseppina-Carmina e dell’anticipatrice frazione di primo letto in capo a Rosa Medaille – la madre di Giuseppina-carmina – al tempo sposata con un Frazioli caffettiere svizzero, da cui verrà una giovane che, vedovando il marito avvocato, lo spingerà ad assegnare i figli ai parenti ed a farsi prete, tanto da diventare parroco perfino a Villacidro…
La realtà è sovente più complessa e varia e fascinosa della fantasia…
Quella che segue è la relazione che tenni agli Amici del libro il 1° dicembre 2008, e consegnata poi al bel sito Efisio Marini, curato fra gli altri dal mio amico, tanto dotto quanto brillante, Corrado Zedda.
Storia non leggenda «su chi salidi is pippius»
Gli Amici del libro funzionavano ormai da due anni, dopo l’avvio isilese, quando Francesco Alziator dedicò alla figura di Efisio Marini un lungo articolo in due puntate, apparso sul “Convegno” quasi al suo esordio. Sul n. 6 del giugno 1946 (e a proseguire sul n. 9).
All’apparenza, ad unire Alziator ad Efisio Marini era la comune la nascita nel quartiere della Marina: circostanza che sembrava suggerire e aggiungere allo scritto dell’ancora giovane professore, un certo pathos evocativo, un soffio romanzesco (e qualche innocente invenzione) alla biografia nuda e cruda. Dopo gli sconquassi della guerra che avevano seppellito anche la casa familiare dei Marini, era quello il primo e tempestivo ricordo di un grande cagliaritano, cui avrebbe fatto seguito, purtroppo, un lungo silenzio.
Si vedrà però che anche un altro e più solido legame associava il narratore al protagonista della storia: addirittura un legame di sangue, di familiarità.
Soggiungo, insistendo ancora sugli Amici del libro: fu Nicola Valle, presidente dell’Associazione e direttore della rivista, che, richiamando la lapide boviana come unico riconoscimento pubblico a tanto valore, scrisse nello stesso numero del “Convegno”, che usciva all’indomani delle prime elezioni amministrative dopo giusto un quarto di secolo: «Speriamo che Luigi Crespellani, sindaco umanista, voglia rimediare all’oblio immeritato, intitolando a lui almeno una strada». Ciò che si sarebbe avverato alcuni anni più tardi col battesimo delle vie alle spalle del palazzo di Giustizia, ancora fresco di inaugurazione e ancora incompiuto.
La stampa locale – leggi soprattutto “L’Unione Sarda” – negli anni del fascismo se n’era occupata, di Efisio Marini, ma rapsodicamente, e con qualche occasionale ripetitività di argomenti.
Ho ricacciato gli articoli del 1935 – usciti nel centenario della nascita di Marini – e soprattutto quello scritto dal nipote forse più noto, quel Felice Melis Marini pittore e poeta che era figlio della cugina Annunziata Marini e dell’ingegner Enrico Melis Romagnino, il progettista del celeberrimo mercato-partenone di Cagliari visitato da Lawrence e dalla sua “a-r”.
Felice Melis Marini – cui lo stesso “Convegno” avrebbe più volte dedicato numeri monografici – era già avanti con l’età nel 1935, contava ormai 64 primavere, e di primavere ne risvegliò alcune delle sue prime adolescenziali, ricordando le visite compiute, insieme con i familiari, presso la casa di quello zio geniale e inquietante a Napoli: una casa-museo, o una casa-cimitero, allora in «un antico palazzo» di via Monte di Dio – «una strada gaia, in pendenza, che conduceva a Pizzofalcone ed alla Nunziatella» –, una casa piena di pezzi anatomici pietrificati distribuiti per corridoi e stanze; fra essi addirittura il cadaverino integro di una bimbetta. Doveva essere qualcosa come il 1885, forse all’indomani della grande tragedia della epidemia colerica che aveva colpito la Campania. E a pochi anni dalla morte di Giuseppe Garibaldi, del quale Marini – ammiratore del Generale così come suo fratello Salvatore ne era stato soldato agli ordini – aveva pietrificato il sangue uscito dalla ferita occorsa nell’episodio di Aspromonte.
Faccio una parentesi: di quelle gite partenopee conserva memoria visiva, grazie alle fotografie che erano in famiglia, ma che sono purtroppo andate in fumo per l’impulso fondamentalista di una congiunta fattasi monaca e che poco si compiaceva di uno zio come il medico che “combatteva la morte”, la gentilissima signora Marilena Fantola Marini sposata col professor Elio Del Piano, che a suo tempo ho intervistato. Viene, la signora – Marini per parte di madre –, dal filone di Ignazio, il fratello di Efisio di due anni più giovane di lui, il quale aveva sposato una Agus, al cui ceppo d’origine appartiene anche l’indimenticato nostro Gianni Agus. Ignazio e sua moglie e i due figli – uno avrebbe seguito, da adulto, i commerci di ferramenta del padre, e l’altro sarebbe stato un primario ospedaliero noto e stimato – andavano con qualche frequenza, negli ultimi decenni dell’Ottocento, a Napoli, tanto più dopo la morte prematura di Carmina – pardon, Giuseppa – che aveva lasciato Efisio solo con i due figli ancora adolescenti.
Dicevo della stampa. “L’Unione Sarda” se ne era occupata molto, del nostro dottor Efisio, nell’ultimo decennio del secolo vecchio, tanto più intorno al 1898, quando s’era trattato di decidere che fare delle spoglie di Pietro Martini, pietrificate e poi restituite a elasticità tono e colorito da Marini nel 1866, fotografate da Agostino Lay Rodriguez quattro mesi dopo in perfetta somiglianza ad un vivente, e in attesa da più di trent’anni di essere ostentate in un apposito monumento (una cassa con oblò) per cui si erano raccolte, all’indomani della morte, molte libere offerte. Siamo al tempo delle dure polemiche fra Marini, che insisteva per il monumento, ed il sindaco Bacaredda che, rassegnato alla perdita del denaro questuato, involatosi con il molto altro nel fallimento bancario del 1887, intendeva sbloccare la pratica con l’assegnazione di un loculo municipale di prima classe.
Poi se n’era occupata, ancora “L’Unione Sarda”, in quell’autunno del 1900, per quanto che era successo a Cagliari dopo la morte triste e anzi tristissima, in povertà, di Marini a Napoli: la corrispondenza di lutto – la Società Operaia (di cui il defunto era socio onorario) che scrive alla figlia Rosa, rimasta depositaria dei segreti della pietrificazione, e la risposta di questa anche a nome del fratello Vittore; l’iniziativa del Circolo universitario teso a raccogliere fondi per la erezione di un monumento questa volta al cagliaritano non capito dai cagliaritani, e prima ancora la sua commemorazione nell’aula magna dell’università, davanti a un pubblico largo ed ecumenico, qualificato e plaudente: oratore Giuseppe Ciuffo, studente a Medicina, che non manca di ricordare di ricordare una definizione che del Marini dette Francesco Saverio Nitti, prossimo presidente del Consiglio dei ministri, che ben lo aveva conosciuto negli anni napoletani: «Era un sardo e come spesso sono i sardi, era una natura buona e onesta, ma leggermente sospettosa e anche tendente alla misantropia»». Tanto quanto bastava per escluderlo da ogni carriera.
E ancora nel 1902 (assieme all’“Avvenire di Sardegna”, foglio di area repubblicana che bissava nella testata l’“Avvenire” del De Francesco), quando nell’atrio dell’università venne affissa una lapide la cui epigrafe era stata dettata nientemeno che da Giovanni Bovio, il filosofo pugliese ma residente da lunghi anni a Napoli e amico di Marini: mazziniano e massone aveva da condividere molto con Efisio Marini che, per la sua supposta appartenenza alla Libera Muratoria, entrò di velocità, nel 1865, trentenne dunque, nei versi dei “Goccius de is framassonis”.
Questo il testo inciso sul marmo della lastra oggi in un’aula del rettorato, ma al tempo sulla «faccia esterna della prima colonna a sinistra entrando nell’atrio dell’ateneo» (allora l’ampio vano d’ingresso dell’università era dominato da una sola statua, che tutti identificavano con Cicerone, e che oggi è confinata in un angolo appartato, monca di testa e di entrambe le mani): «A Efisio Marini che attenuando la forza corruttrice placò la morte non la fortuna né l’ignavia dei vivi, che lasciarono spegnere tanta fiamma senza alimento. O Italiani, la Giustizia postuma è rimorso». La frase – un autentico monito morale – aveva sostituito la prima formulazione che era stata proposta dagli studenti: «Al grande che fu ricompensato della sua opera meravigliosa col disprezzo e la miseria».
Il medaglione era opera di Pippo Boero, l’autore, l’anno prima, del busto di Giuseppe Verdi, collocato nello square delle Reali, oggi piazza Matteotti. Boero, artista maturato alle Belle Arti di Roma e alla scuola di Ettore Ferrari, futuro Gran Maestro della Massoneria di Palazzo Giustiniani, era allora giovane di 25 anni, massone iniziato in una loggia della capitale, passato poi, al rientro cagliaritano, alla locale “Sigismondo Arquer”. Del suo lavoro scrivono “Il Goliardo” (16 febbraio 1902), “L’Avvenire di Sardegna” (23 marzo e 2 maggio 1902), “L’Unione Sarda” (3 maggio 1902).
Presente Rosa Marini – una signorina poco meno che cinquantenne, riservata e devota alla memoria del padre –, fu il prof. Carlo Fadda, cagliaritano docente di diritto romano e prossimo rettore a Napoli, a tenere, all’inizio di maggio, la conferenza “in memoriam”, affiancato dal rettore Fenoglio (preside di Medicina: la facoltà che al giovane dottor Marini aveva negato la cattedra o un insegnamento comunque continuativo), mentre il notaio Michele Cugusi lesse il verbale di consegna del monumento, poi sottoscritto da una decina di notabili e anche dal presidente del Circolo universitario Efisio Ballero, al quale l’iniziativa si doveva. Presente, fra decine e decine di studenti e di cagliaritani qualsiasi, molti dei quali dovettero sostare in strada per l’incapienza degli spazi, anche il prof. Giuseppe Picinelli che da due anni circa aveva raccolto da Bacaredda divenuto deputato gli oneri e gli onori della sindacatura civica.
Seguiamo ancora il percorso della stampa locale. Di Marini si occupò nel 1907 Spiritus Asper – vale a dire Raffaele Gessa, critico musicale e per vario tempo anche redattore del quotidiano allora ancora in viale Umberto/Regina Margherita, che aveva sede proprio in una delle case della famiglia Marini, fra il viale e la piazzetta – che riprese polemicamente un articolo del settimanale del “Corriere della Sera” attribuente a un giovane maniscalco toscano il merito del perfezionamento della metodica conservativa dei corpi.
Non riprendo i termini della difesa d’ufficio, ben argomentata da Spiritus Asper, che simpaticamente inizia così: «Unicuique suum! Senza dubbio persino le abbondanti basette di Efisio Marini si saranno commosse nella sua tomba per la strabiliante notizia, di questi giorni, pubblicata in parecchi giornali e specialmente nel n. 34 della milanese Domenica del Corriere». Conclusione: «Il vivente studioso maniscalco toscano ha fatto completamente dimenticare l’insigne nostro concittadino defunto! Fortuna – somma fortuna – vuole però che dal prezioso segreto del cav. dott. Efisio Marini sia depositaria la superstite sua figlia».
E siamo al fascismo ineunte, 1923 e 1924. Per una decina di volte, con lettere, commenti, ricordi del tempo che fu, riflessioni sull’ingratitudine umana, torna il nome di Marini sulla stampa sarda. F. Todde – F come Francesco, o come Felice: ci furono dei Francesco e anche dei Felice nella famiglia di Giorgio Todde, lo scrittore che tutti forse amiamo, e chissà non si tratti di qualcuno di loro – riferisce di una conversazione, a Napoli, con una Rosa Marini proseguente l’opera paterna; PIC – vecchio allievo degli anni ’60 dell’Ottocento – ricorda di un cervello umano pietrificato ed esposto ad una certa mostra bonarina allestita a ridosso del 5° centenario dell’arrivo a Cagliari della cassa con la statua della Vergine e il Bimbo; TOT ribatte a PIC fornendo alcune precisazioni circa la titolarità o meno di docenza universitaria a Napoli – è il riferimento al titolo di “professore” generalmente attribuitogli, anche se la docenza non fu mai quella dell’ordinario; Alessandro di Sant’Elia rimbalza dalle pagine cinquantenarie della “Stella di Sardegna” – la rivista sassarese diretta da Enrico Costa cui collaborò gran parte della intellettualità sarda, Bacaredda compreso, e che ospitò a puntate “L’iniziazione ai miei studi” del can. Spano – con un articolo-lettera riguardante la partecipazione di Marini alla Esposizione di Parigi; Spiritus Asper in bis che ricorda il proprio contributo filo-mariniano del 1907 lamentando lo svarione della scheda pubblicata da Sonzogno che fa nascere Marini in Castiglia; l’insegnante dolianovese Lodovico Saba che vuol valorizzare come documento storico la foto del Martini scattata da Agostino Lay; ancora PIC che, come lo stesso Spiruts Asper, riprende quanto pubblicato dal napoletano prof. Licastro sul “Giornale d’Italia” pagine nazionali circa varie pietrificazioni illustri… E insomma, per un anno e più è un bel risveglio di interesse.
Passa un decennio. Siamo adesso al 1933: esce sull’“Unione Sarda” ormai tutta fascista un lungo articolo che viaggia per curiosità dalle imbalsamazioni faraoniche egizie alle applicazioni mariniane. E siamo poi al 1935 anno centenario di cui ho detto, in cui l’articolo di Felice Melis Marini viene comunque buon ultimo dopo un redazionale e dopo una lettera che propone come doverosa una dedica stradale al grande nome (proposta inascoltata sarà rilanciata, ho detto, da Nicola Valle nel 1946).
Eccoci finalmente ad Alziator, al “Convegno”, e agli Amici del libro. Dopo i quali – dico qui per completezza di informazione, seppure in velocità – meriti speciali per la ricordanza e anche, taluno, per il tentativo di scavo nuovo e comunque di riordino dei materiali, sono da citare almeno Oliviero Maccioni, con il suo “Cagliari fra cronaca e immagini”, Marcello Serra, per un articolo sull’“Almanacco di Cagliari” del 1985 (dove, non so perché, è scappata insistente una chiamata in causa di Libero Bovio invece che di Giovanni Bovio, padre di Libero e di Corso), gli ottimi amici di gran merito riuniti attorno a Corrado Zedda ed Antonello Maccioni, che hanno anche impiantato un sito internet a nome di Efisio Marini.
Alziator, ho accennato, era pronipote di Efisio Marini: perché suo nonno materno – il padre cioè di sua madre Matilde – era quel Salvatore Marini, fratello di Efisio (e di Ignazio di cui ho detto prima, sposato con una Agus), che del dottor Efisio era anche il collaboratore più fedele e valido. Nei romanzi di Todde egli è l’unico fratello del quale si fa cenno esplicito.
Alziator dunque conosceva la casa dei nonni e dei bisnonni, in via Sant’Eulalia a sinistra salendo – giusto di fronte a dove era ed è palazzo Belgrano (divenuto poi sede del Galileo Galilei).
Quella casa era crollata per i bombardamenti del 1943. E già nel 1942 era crollata la palazzina appena appena più giù sulla via, di fronte alla scalinata di Sant’Eulalia, dove un aereo era piombato distruggendo e ammazzando.
La casa dei Marini al civico 15 era stata in antico, sembra, degli Arthemalle; acquistata dai Marini, all’inizio degli anni ’40 dell’Ottocento era stata ristrutturata; della facciata e forse non soltanto della facciata, s’era occupato addirittura il Cima; si conservano i disegni di quel prospetto. Alziator la ricordava per averla frequentata fin da bambino, anche se questo lo tace, ché vuol presentarsi autore e non testimone. Dalle macerie qualcosa ancora emergeva. Queste le righe che la descrivono e ne restituiscono quel tanto di fascino che hanno, credo, tutte le case antiche: «Una grande casa, con un ampio portone, tanto ampio che ci sostavano le carrozze, dalle stanze sconfinate, con le volte svolazzanti di stucchi dorati all’uso barocco, dai caminetti in marmo di molti colori… Una casa che avrebbe fatto la sua figura nel quartiere di Castello». Le bombe delle fortezze volanti avrebbero lasciato soltanto qualche avanzo di portone e di muro sopra le solide fondazioni…
Lì abitavano Girolamo Marini – commerciante con scagno al porto – e sua moglie Fedela Marturano con i loro sei figli, di cui Efisio era il primogenito, Ignazio il secondo, Giulia – che avrebbe sposato un medico, Francesco Cara, imparentato con dei naturalisti e botanici di gran nome nel suo tempo e anche prima e anche dopo – la terza, e poi ecco Salvatore (il nonno di Alziator), e ancora Pietro e Giuseppe – il quale ultimo avrebbe sposato una Montaldo che era la sua cognata rimasta vedova per la morte appunto di Pietro. Giuseppe – il fratello più giovane di Efisio –, se la notizia può aiutare a dare umanità ai protagonisti di una storia lontana, morì per un infarto mentre prendeva il bagno a Giorgino, nel luglio del 1910.
In uno degli altri appartamenti del palazzo, in quella prima stagione di metà Ottocento, viveva certamente anche uno dei fratelli di Girolamo, il notaio Efisio sr. (padrino oltreché zio del nostro Efisio) sposato anche lui con una Marturano, che poi era la sorella di Fedela Marturano madre di Efisio.
Un flash sui Marturano: anch’essi erano numerosi, una decina almeno tra fratelli e sorelle di Fedela, e dunque zii materni di Efisio: uno era prete, monsignore, parroco della collegiata di Sant’Eulalia e poi canonico del capitolo metropolitano. Aggiungo che anche un altro zio, don Aitelli, ma zio acquisito (perché fratello della moglie di Luigi Marini, che un altro dei fratelli di Girolamo), fu parroco di Sant’Eulalia qualche decennio prima, quando anche si ipotizzava il trasferimento della parrocchiale, veramente in cattivo stato, e ormai più cimitero che chiesa, nella chiesa ex gesuita di Santa Teresa (il futuro Auditorium di piazzetta Dettori).
C’erano questi preti in famiglia, per parte di madre e per parte di padre – e un terzo se ne potrebbe pure aggiungere, di poco più giovane –, ed essi partecipavano alla prima formazione scolastica di Efisio, che peraltro poteva soltanto scegliere, per le elementari e le classi ginnasiali, fra gesuiti e scolopi; ma c’era anche una vocazione laica, scientista, sperimentalista, che era quasi connaturata in Efisio, e che poi si sarebbe radicalizzata.
Ma non era l’ideologia, o la religione, ad aver distinto nei tempi trascorsi ed a distinguere ancora i Marini. Lo spiega, magari un po’ romanzando, Alziator: «Erano mercanti, padroni di terre e di cascine, nella loro schiatta c’erano gradi accademici, onestà e denari quanti se ne volevano, ma non amavano avere a che fare con la Corte pretenziosa dei viceré, e con il loro vario servitorame di spada e di livrea. La loro abitazione aveva da essere nel quartiere dei consoli e dei mercanti».
Classe 1835, quando la Sardegna era ancora Regnun Sardiniae, e quando nel quartiere della Marina, che era una delle tre appendici del Castello, funzionava un Sindacato di quartiere che era una specie di giunta amministrativa di territorio per la buona conduzione dei servizi d’interesse collettivo (viabilità, nettezza urbana, ecc.) – Efisio Salvatore Giovanni Marini – Efisio come lo zio-padrino, Salvatore e Giovanni come i nonni paterno e materno – ha 13 anni quando la delegazione sarda chiede a Carlo Alberto la perfetta fusione col Piemonte (novembre 1847) e quando perciò anche alla Sardegna è concessa la prima costituzione (1848); ha 26 anni quando viene sancita l’unità d’Italia e il Parlamento finalmente italiano vota per Roma capitale.
Ma nel 1861 Marini ha ormai compiuto la prima parte della sua vita: si è laureato a Pisa in medicina e in scienze naturali – buon allievo di un cattedratico importante e famoso, il professor Giuseppe Meneghini, cui il giovane medico e ricercatore di fossili dedica – ed è proprio il 1861 – il suo primo lavoro a stampa, “Idee di Paleontologia Generale”.
Dopo la laurea ha lavorato, certamente da precario, come perito settore: lo ricorda perfino Giorgio Asproni, in una pagina del suo celebre “Diario”, per una missione di medicina legale in quel di Nuoro. Era il maggio 1858, e non è che l’impressione del canonico ribelle deputato da otto anni nel Parlamento subalpino fosse positiva, chissà se a ragione o a torto: «L’avv. Corbu crede che lo Scaletta (l’imputato) debba inoltrare all’Avvocato Fiscale Generale querela criminale contro al Presidente per avere falsate le attestazioni orali dei testimoni: e contro il Dr. Marini per la falsa perizia sopra le supposte percosse e contusioni cagionate al Sig. Bonino».
Occorre però aggiungere che dodici anni dopo, nell’agosto 1870, un mese prima di Porta Pia, il giudizio cambia: a Napoli – dove entrambi vivono –, «Sono stato in casa tutto il giorno. E’ venuto a visitarmi il Dr. Marini di Cagliari, ed è molto soddisfatto dei successi delle sue cure mercé l’invenzione di certo liquido che guarisce le malattie cancerose. I medici gli fanno guerra. Invidia e bottega dappertutto. Il Marini è uomo modesto e di modi semplici: non ha neppure ombra di ciarlataneria». Un annetto prima s’era affidato alle cure del dottor Marini anche il senatore Musio, uno dei grandi protagonisti, nonché della scena pubblica del tempo, anche del “Diario” asproniano.
La ricerca dei fossili e il loro studio – da cui tutto parte, da cui verranno le intuizioni per i famosi sali della conservazione dei corpi – datano dagli anni più giovani di Marini, forse già dall’adolescenza. Todde ci ha ricavato uno dei romanzi più belli della sua saga (“L’occhiata letale”, ambientato nel 1854, l’anno della visita cagliaritana di Edouard Delessert), da questa precoce attitudine e pratica, che ben combina poi con i sapori ed i colori dei sentimenti d’amore.
Di quelle ricerche scrive egli stesso nelle “Idee di Paleontologia Generale”, riferendosi ai terreni terziari fra Elmas e il capoluogo, ma anche dell’Iglesiente. E di quella fase lì delle sue ricerche annota cose molto acute ed intriganti Antonello Maccioni in un bel saggio (“Efiso Marini e la conquista dell’eternità”) uscito su “Studi Sardi” del 1992/1993. Un saggio che introduce la variabile “alchemica” nella ricostruzione delle sperimentazioni mariniane: «distillazione, fusione e sublimazione», tre fasi che vanno in parallelo a quelle del processo fossile: «asportazione delle molecole organiche, incrostazione con acque calcarifere, combinazione del calcio».
La gran quantità dei suoi reperti saranno da lui donati al museo geologico, che giustamente ne prenderà il nome. Lo troviamo citato intanto già dallo Spano, nella sua celebre “Guida della città di Cagliari e dintorni”, che è del 1861, alla pagina 115 dedicata alla Sala mineralogica dell’università: «E’ degna finalmente di vedersi la collezione di fossili terziarii che si trovano tra il Masu e Cagliari, fatta dal Dott. E. Marini, assist. al Museo, e da lui data in dono al medesimo. I pezzi salgono a 60, tra cui vi sono impronte di foglie di paritaria». (Lo Spano, che al tempo di uscita della sua “Guida” era magnifico rettore, precisa che il museo, fondato dal re Carlo Felice quand’era viceré, con donazione all’università nel 1806, e via via implementato, si componeva di «sei distinte sale», fra zoologica, mineralogia ed archeologia, con tanto di direttore, assistente, applicato e preparatore con due inservienti. E aggiungo io che direttore del museo d’antichità e di quello di zoologia sarà per lunghi anni, andando verso la fine del secolo quel prof. Gaetano Cara che era poi il suocero di Giulia Marini, la sorella di Efisio).
Citazioni della stessa sala sono anche nelle guide successive a quella dello Spano; ricorderei la “Piccola Guida di Cagliari, Oristano ed Iglesias” che è del 1872 («Sala mineralogica… la collezione dei fossili terziarii fatta dal dott. Efisio Marini»). Non in quella del 1894 del Corona – chissà perché –, ed invece ancora in quella dell’editore Valdès del 1902, che dopo aver menzionato i conferimenti La Marmora, Traverso, Lovisato, ed altri ancora, ricorda anche «la collezione dei fossili terziarii esistenti tra Elmas e Cagliari, fatta dal dott. E. Marini, cagliaritano, l’illustre pietrificatore», del quale alcune pagine prima la stessa guida ha citato la lapide “in memoriam” inaugurata soltanto pochi mesi prima, e inserito il nome, ultimo della serie, fra “Uomini illustri” della città.
Alziator ci romanza sopra, nel suo stile che è anche la sua virtù migliore: «Quante volte fallì nei suoi tentativi, quando le sue ricerche cominciarono a dare qualche frutto? Chissà mai? La loquacità non fu mai un debole dei Marini, né in particolare lo fu di Efisio… La sua stirpe caparbia non si poteva smentire. I Marini, così era stato insegnato anche ad Efisio sin da bambino, quando vogliono una cosa debbono ottenerla, quando tentano debbono riuscire».
Nel 1856 – si ha questa testimonianza dai giornali del tempo – egli trae dalle formule per la stampa fotografica elementi di conoscenza che gli saranno utilissimi per le applicazioni cui si dedicherà negli anni successivi. Partecipa a una mostra fotografica a Cagliari, conosce i primi fotografi – e del Lay Rodriguez fu amico intimo e quasi coetaneo (io ipotizzo perfino una parentela: la madre di Efisio era una Lai e la riterrei, ancora però senza prove, stampacina, come a Stampace vissero i Lay). Conosce e frequenta i primi fotografi, e sperimenta. Intanto frequenta medicina a Pisa. E da due anni si è sposato.
Al monumentale di Bonaria, e nella ricognizione del canonico Spano, c’era – ed è andata dispersa purtroppo – anche la lapide di mia madre, Rosa Medaille Arthemalle, che morì prima di Fedela, la madre di Efisio, nel 1853, un annetto dopo aver messo al mondo la mia sorellina più piccola, che a sua volta visse soltanto tre anni. Ci lasciava in sette, accuditi da nostro padre Antonio, che di mestiere faceva il caffettiere alla Marina a sa Costa, e ad una sorella di primo letto, già convolata a nozze con un paesano di Nurachi.
Noi ci sposammo pochi mesi dopo la morte di mamma, nel 1854… Efisio a 19 anni ed io a 17… Ci sposammo ad aprile; ero incinta di Gerolamo jr. – Salvatore Gerolamo Ernesto, lo chiamammo quando nacque a settembre –, creatura sfortunata: visse giusto due giorni, il nostro Gerolamo.
Le nozze erano state benedette dallo zio di Efisio, canonico Ignazio Marturano, nella chiesa di Santa Caterina alessandrina, a sa Costa: quella chiesa bellissima che sarebbe stata bombardata nel 1943 e sarebbe stata sostituita, dai moderni, con i magazzini UPIM e Zara. Nostri testimoni: Raimondo Ponsiglioni e Raimondo Fogu. Dinastie importanti, di professionisti o di imprenditori di quel tempo…
Come ho raccontato prima, mia madre se n’era andata in Paradiso giovane poco più che quarantenne. Aveva sposato mio padre Antonio Tarasconi nel 1829, l’anno della prima visita a Cagliari di re Carlo Alberto. La grande storia e la piccola storia… A proposito: quando tornò in Sardegna – nella Sardegna non ancora piemontesizzata –-, dodici anni dopo, il re Carlo Alberto visitò anche Pirri e si godette lo spettacolo dei balli in costume sardo proprio dalla casa più bella che era dei cugini Marini…
Dicevo…Da un precedente matrimonio mia madre aveva avuto tre figli, due femmine ed un maschio: Luisa Maria ed Andrea Nicola morirono però piccolini, a 3 anni e a 2. Dopo neppure un lustro di matrimonio, non ancora ventenne, mamma era rimasta vedova di Giovanni Frazzioli, uno svizzero venuto a Cagliari per impiantare una caffetteria e commerci di bevande. Ne aveva sia alla Marina che a Villanova.
Anche mio padre Antonio, originario dell’isola di Capraia, era nel settore, credo si siano conosciuti così, mamma e babbo. Quello era l’ambiente.
Non la voglio fare tragica, la ma cosa era davvero tragica… Pensate un po’… Questa donna ancora giovanissima, con tre bambini, perde il marito. Trova, per grazia di Provvidenza, la bontà di mio padre, che se la sposa dieci mesi dopo, con procedura abbreviata. E neppure due mesi dopo questo matrimonio, due dei tre bambini Frazzioli muoiono. Sembrava quasi si dovesse fare tabula rasa per ricominciare…
Quando sposò, babbo aveva 32 anni. Avrebbe vissuto a lungo, fino agli 84, nella casa che poi prese in via Sassari.
Noi figli Tarasconi eravamo sette, io ero la quarta. Antonio, Angelo ed Efisio, i maggiori; Francesco, Domenico e Paoletta, i minori. Naturalmente i nomi qui li ho semplificati, in sette ne contiamo mi pare 27! Io da sola faccio Giovanna Giuseppa Maria…Nipote Cucuccio Alziator mi ha chiamato Carmina, e anche Giorgio Todde. Bel nome Carmina!…
Alcuni dei miei fratelli hanno proseguito con le offellerie – caffè e anche dolciumi, paste… –, uno (Francesco) è diventato medico, e anche padre e nonno o bisnonno di medico; un nipote è stato per molti anni fra i fotografi più apprezzati di Cagliari, una nipote – sposata con Cova – ha gestito un negozio di ottica…
Col tempo ci siamo un po’ tutti sparpagliati, fra la Marina, Stampace e Villanova… e noi altri, Efisio ed io, a Napoli addirittura! Oggi a Cagliari non c’è più nessuno. I Tarasconi sardi sono ormai tutti nel Sassarese, fra Alghero e Fertiglia e Sassari…
Nel marzo 1857 avemmo Rosa – anzi Antonia Fedela Rosa, Rosa come mia madre; dopo nove anni, nel luglio 1866, è venuto Vìttore – Enrico Vittore Ignazio, Vittore come Victor Hugo… Efisio era stato molte volte in Francia per i suoi studi, per le esposizioni, per le accademie e le premiazioni, per incontrare l’imperatore Napoleone III…
Ancora per pochi mesi, fino al 1867, abitavamo anche noi alla Marina, i bambini sono stati battezzati tutti a Sant’Eulalia. Poi, il trauma del salto del Tirreno…
Dunque a 19 anni Efisio ha fatto matrimonio riparatore: la moglie è Giovanna Giuseppa Maria – Giuseppa per tutti, Carmina per noi altri –, Tarasconi di cognome; la benedizione nella chiesa dei Genovesi – quella che sarà oggetto di una visita speciale, dopo un grosso lavoro di restauro, nel 1924, da parte del quindicenne “philosophus solitarius” Francesco Alziator, che ne ha lasciato una traccia in un diario che era inedito fino a quando non l’ho pubblicato io, nel libro sulla “Città chantant, monarchica clericale e socialista”, ora sono giusto dieci anni.
Dopo la laurea – che ha dovuto prendere in continente perché da Cagliari, lui ancora matricola di medicina, lo hanno costretto ad allontanarsi, con l’accusa, non inverosimile, di aver sottratto dal gabinetto scientifico un pezzo anatomico per le sue sperimentazioni – ha fatto tante cose, oltre a continuare nelle ricerche e negli esperimenti.
«Mesi e mesi di ricerca sotto le volte a botte del Museo di Scienze, in quelle buie sale tra Via dell’Università e le Mura del Balice… Da lì il Marini passò all’anfiteatro anatomico. Poca strada doveva percorrere dal Museo sino alla Sala incisoria. La Scuola di anatomia umana stava, in quei tempi, e vi restò sino ai primi decenni di questo secolo – sono parole di Alziator nel suo scritto apparso sul “Convegno” – in un edificio a pian terreno, sui bastioni che guardano la Piazza Yenne. La Sala incisoria si apriva nel cortile interno del Palazzo universitario, proprio di fronte all’ingresso del gabinetto di Efisio Marini. Era una sala spaziosa, rotonda, senza finestre, con un’ampia cupola con le vetrate su in cima, come una cappella di chiesa. Ora è demolita. I bombardamenti l’avevano risparmiata, i piani regolatori ne hanno avuto meno riguardo. Allora, intorno era silenzio e solitudine. Da una porticina su Via del Cammino Nuoro, a piedi dalla Torre dell’Elefante, a sera, erano introdotti i cadaveri da sezionare; sui cadaveri di quella scuola, Efisio Marini tentò i primi esperimenti e su di essi dovette anche avere i primi successi».
E’ assistente al Museo di storia naturale. Le ambizioni sono però altre: guardano all’Istituto di anatomia umana governato dall’autorità del celebre professor Giovanni Falconi – l’inventore dell’ago curvo – o, chissà, ad un incarico in un Gabinetto di anatomia patologica che si diceva dovesse istituirsi da un mese all’altro, da un anno all’altro.
Sono ancora gli anni in cui egli insegna scienze naturali all’Istituto tecnico – lo stesso che si intitolerà, negli anni ’80, proprio a quel Pietro Martini che, fattosi cadavere, allo sperimentatore aveva dato gloria imperitura. Documentata e invidiata. Soggiungo, sul punto, che una ricca dotazione di fossili sarebbe stata donata dalla famiglia all’Istituto allora forse ancora in via Barcellona, o magari appena arrivato alle scalette di San Sepolcro, dove sarebbe rimasto per ottant’anni: ma niente si è ritrovato né l’Istituto ha l’inventario dei suoi beni mobili.
E a proposito di perdite. Altre se ne possono piangere: come la foto autografata e donata nel 1868 alla Società Operaia che con delibera del 23 marzo lo aveva voluto suo socio onorario. Marini si era trasferito ormai da pochi mesi a Napoli, e in occasione della sua prima rentrée cagliaritana, l’11 ottobre, era andato nella sede di via Barcellona, a un passo dalla porta del Molo – uno degli accessi alla Marina –, per raccogliere l’onorifico riconoscimento (una medaglia con l’epigrafe «Al dottor E. Marini redivivo Segato i Soci operai della sua città natale») e sdebitarsi con quella grande fotografia menzionata da Francesco Corona nella sua “Cronistoria” del sodalizio mutualistico, che è del 1899: una foto-ritratto insieme con quella del Martini “risuscitato” e anche con quella del «famoso tavolo da lui preparato con resti umani, che tanta meraviglia destava nel mondo scientifico (premiato all’esposizione mondiale di Parigi) quali oggetti – scrive il Corona – trovansi nella sala della Società fra altri generosi doni e ricordi».
Quando dunque verso la fine del 1867 Efisio Marini decide di abbandonare Cagliari che gli si è sempre mostrata ostile tanto più nei settori pubblici, accademici e professionali, nei quali sperava legittimamente di far strada, egli ha con sé la moglie – di due anni più giovane di lui, giusto trentenne nel 1867 – e due bimbi: Rosa di 11 anni e Vittore di uno.
Lasciano Cagliari all’indomani di un grosso evento, che ha fatto parlare tutti, a torto o a ragione: della pietrificazione del cadavere di Pietro Marini, il bibliotecario dell’Universitaria, lo storico e pubblicista, il cofondatore (con i fratelli Antonio e Michele, reazionari anch’essi come lui) del giornale “L’Indicatore Sardo”, l’intellettuale codino ma rispettato che era inciampato brutalmente nei falsi di Arborea.
Era accaduto nel febbraio 1866 (che è l’anno della terza guerra d’indipendenza, che è l’anno anche in cui uscirono da una loggia massonica di Cagliari dei testi importanti per la diffusione della dottrina liberomuratoria, cui anche Marini era stato associato nei famosi “Goccius” arma di qualche aristocratico frustrato avverso i borghesi classe in ascesa anche nella società locale), – era accaduto che Marini avesse trattato quel corpo di sessantenne – di un vecchio per quel tempo – nei suoi bagni arricchiti di sali in dosaggi segreti. I sali si conoscono – li abbiamo trovati di recente, riportati molto probabilmente dalla mano di Salvatore Marini su un foglio custodito dai discendenti –, non si conoscono i dosaggi. Era febbraio. A giugno, quattro mesi dopo cioè, nel cimitero – là dove una aula si apre alla destra della cappella e dove le spoglie di Pietro Martini custodite in una cassa sarebbero rimaste sospese in alto per trent’anni prima di essere portate nel colombario municipale – quella salma fu esumata ed ispezionata per certificare l’esito, a distanza di tempo, del trattamento chimico. Ebbene, quel cadavere aveva conservato non solo la sua integrità, ma anche il colorito e la elasticità propri di un corpo vivo ancorché non particolarmente vispo.
Fu fotografato da Agostino Lay Rodriguez, e quella foto rimase esposta per diverso tempo in qualche vetrina di negozio del centro. E tutti appunto avevano commentato, più in male che in bene. Non valsero a far cambiare il segno dei giudizi infondati e prevalenti gli articoli di Felice Uda, pubblicista e Fratello della loggia “Vittoria”, presente all’apertura della cassa ed alla fotografazione della salma intatta: «Il cadavere era dinanzi a lui, pasta molle, duttile, elastica arrendevole al tatto, quasi l’anima l’avesse allora abbandonato. Marini aveva un assoluto impero su di lui; egli poteva atteggiarlo a gravità di storico, comporlo nella fittizia animazione d’un amichevole colloquio, dare al suo labbro quella piega abituale di simpatica ironia ch’era così famigliare al valentuomo».
Fra gli anni delle due lauree e questi della sperimentazione sul cadavere del Martini e del conseguente amaro, forse irato abbandono della sua città natale, era corso quasi un decennio in cui Efisio Marini ancora giovanissimo aveva dato il meglio di sé.
La fama conquistata fu grande, ed era già grande anche prima del trattamento Martini. Del 1865 è la pietrificazione del sangue di Giuseppe Garibaldi perso in Calabria e imbottigliato dal medico del generale, sembra, e spedito a Cagliari. L’eroe dei due mondi ringraziò per iscritto con parole encomiastiche: «Grazie per la bellissima medaglia, opera del vostro genio veramente straordinario. La vostra terra natale andrà superba di voi ed i miei figli avranno imperituro un ricordo di me e dell’autore dell’opera stupenda».
Della cosa si seppe molti anni dopo…
Sì, nel 1882 eravamo, o meglio: eravate – ché io appartenevo già alle Valli Celesti… –, nel periodo della residenza napoletana di Efisio e dei miei figli.
Efisio scrisse una lettera al quotidiano “Roma”, raccontando delle due teche col sangue del generale. E riferì di aver conservato il secondo medaglione per donarlo alla sua città natale…
Il giornale giunse a Cagliari e questa lettera fu ripresa dall’“Avvenire di Sardegna”, sempre nostro amico.
Immediatamente il sindaco di allora, Salvatore Marcello, indirizzò a Efisio una lettera – pubblicata anch’essa dal quotidiano di De Francesco – con cui gli diceva che l’Amministrazione comunale sarebbe stata onorata del dono: «… la cittadinanza cagliaritana gliene serberà perpetua riconoscenza…».
Se non sbaglio, Efisio, non gliel’ha mai donata, però, quella teca, al Comune…
Io li conservavo, fin dall’inizio, quei giornali che parlavano di Efisio, tante e tante volte in prima pagina, nelle appendìci che poi proseguivano all’interno… Sono decine… Ho addirittura una raccolta ordinata di quegli articoli… Spesse volte erano, soprattutto nel “Corriere di Sardegna” che passava per organo della Massoneria di Cagliari e anche di Oristano, Nuoro e Sassari, riprese di pezzi apparsi su giornali continentali o addirittura esteri… Ve ne do un esempio rapido.
Dicembre 1864: «Lettere pervenuteci da Parigi ci mettono in grado di annunziare che il nostro concittadino dottore Efisio Marini ebbe una cordiale e simpatica accoglienza in quella città. Appena arrivato, egli si mise in relazione colla scuola d’anatomia e diede saggi delle sue preparazioni agli illustri prof. Tardien e Sapey. Gli fu esibita e messa a sua disposizione una camera con due inservienti. Fu grande la sorpresa nel vedere conservate…», ecc. ecc.
Marzo 1868: «“Sardi fuori patria”. Annunziamo colla più intima soddisfazione che il nostro amico dott. Efisio Marini, dietro rapporto d’una commissione della Accademia imperiale di Parigi che esaminò i suoi preparati ed il suo sistema di conservazione, fu dall’Imperatore insignito della croce di cavaliere della Legion d’onore.
«Il nostro amico, che fece dono a quel sovrano del magnifico tavolo di cui ebbe già ad occuparsi il nostro appendicista, ebbe alla Corte delle Tuillerie la più cordiale accoglienza e fu spesse volte chiamato dall’Imperatore e dall’Imperatrice che vollero esaminare i suoi lavori.
«Il tempo delle prove per il nostro ottimo amico è passato. Valgano le onorificenze che gli vengono offerte all’estero a compensarlo delle sofferenze che gli cagionarono le basse e meschine guerre degli invidi detrattori della sua fama, qui nella sua città natia».
In quel tempo, e anche dopo, non si contano i riconoscimenti scientifici ed accademici internazionali, le partecipazioni alle Esposizioni di Parigi, Londra, Vienna, Torino, Milano, Roma… Ricordo i titoli di ufficiale delle Palme Accademiche o della Corona d’Italia…
Ricordo – scorrendo rapidamente la sua scheda biografica – quelli dell’Accademia Nazionale di Francia e nell’Associazione Scientifica di Astronomia, Fisica e Matematica… Ma ricordo anche, sempre a Parigi, un “brevetto di invenzione” della durata di quindici anni, che gli fu riconosciuto, dal ministro di Agricoltura, quando non aveva ancora trent’anni!
Speculare all’apprezzamento nazionale ed internazionale fu il muro di invidia e maldicenza che si alzò contro Efisio nella nostra città. A scorrere la stampa si troverebbe la prova di attacchi e sfottò che erano iniziati, in verità, già dai primi anni ’60.
Il rilancio delle sue speranze sembrò affidato, da principio, alla proposta dell’istituzione, a spese congiunte di Comune e Provincia, di un «gabinetto anatomico Marini» – idea lanciata da un giornale genovese e ripresa dal consigliere civico e futuro sindaco Emanuele Ravot, Fratello della “Vittoria”. Senza seguito, però…
E’ vero: nell’aprile 1865 la proposta fu depositata in Consiglio. Relatore era Giuseppe Lullin, consigliere camerale, e con lui sottoscrissero diversi altri Fratelli massoni, sia quelli democratici-mazziniani che quelli liberali-monarchici, da Serpieri a Rocca, da Thermes a Scano, ad altri ancora…
Allora Efisio aveva studio in contrada Gesus civico 33, dov’era l’antica porta dirimpetto alla manifattura dei tabacchi… Lì ricevette anche alcuni giornalisti nazionali e stranieri, e studiosi interessati alle sue sperimentazioni…
Nel 1874, a Sassari, un comitato presieduto dal conte Alessandro di Sant’Elia lanciò una sottoscrizione per la coniazione di una medaglia d’onore da donargli con tanto di attestato di ammirazione. Una sottocommissione si costituì a Cagliari, ad iniziativa di alcuni appartenenti alla Massoneria: i magistrati Antonio Giuseppe Satta-Musio – che era stato anche deputato, ed era il fratello del rettore di Orune Francesc’Angelo, che sarebbe stato ucciso sul ponte di Marreri (come ci ha raccontato Bachisio Zizi in un bel romanzo) e Carlo Costa, il professore e avvocato Gavino Scano, il professore e ingegnere Filippo Vivanet…
Ci furono manifesti e raccolte di fondi per paesi ed uffici in città… Si raccolsero molte lire, mi pare di ricordare qualcosa come 700 nel Cagliaritano, e oltre 1.500 in tutta l’Isola…
Efisio ringraziò Sassari con il dono, nel 1876, di un pezzo anatomico pietrificato: la mano di una fanciulla con polsino in argento, inciso con la dedica alla città. Così anche nel cofanetto. Credo sia conservato nella collezione anatomica intitolata al professor Luigi Rolando, in quell’università.
Ma prima s’è detto del trattamento riservato alle spoglie del commendator Martini. Ricordo benissimo anch’io la cosa. Io stavo per partorire Vìttore, allora. Efisio era eccitatissimo per questa sua avventura professionale che si sovrapponeva a quell’altra nostra domestica. La foto del commendatore fu diffusa a Cagliari e destò molta curiosità. Lo si rivedeva, quattro mesi dopo la morte, come era…
Una rivista medica fiorentina scrisse… ce l’ho qui… «egli ha superato il suo predecessore in questo, che è riuscito a ridurre allo stato lapìdeo la stessa sostanza nervosa, cosa a cui non era arrivato il Segato. Egli mostra infatti il sangue e pezzi di vari visceri, reni, fegato e lo stesso cervello, ridotti allo stato lapìdeo, mentre per le altre apparenze loro di conformazione e di colorito lasciato a divedere la natura loro primitiva»…
Insomma, quando la dissecazione non era completa, riusciva a restituire le membra alla forma e ai volumi naturali, e incidendo quelle carni mostrava in sezione muscoli, tendini, nervi, arterie e vene, sembrava una nuova creazione… Non c’era l’anima, ma Efisio non era Dio…
Il segreto della formula era non tanto nella tipologia dei sali con cui Efisio riusciva ora a pietrificare ora a superare la pietrificazione recuperando colorito ed elasticità ai corpi, era nei dosaggi… La mano di suo fratello Salvatore le aveva elencate, una volta, le sostanze: «Cristalizare, silicato di potassa e verde rame per le renelle, carbonato di litina…».
Nel 1865 – l’anno prima del gran successo con le povere membra del Martini, ma dopo già tanti successi fuori patria – fu accusato, da un anonimo, di essere massone. Come se ci fosse da vergognarsi della cosa, anzi!….
Nei famosi “Goccius” che allora erano stati diffusi, alcuni versi dovevano riguardarlo direttamente: «Unu tontu che sa perda / su chi salit is pipius / de spilliri circat is bius / nendi ch’imperdat is Mortus / ma cun tottu is confortus / ha fattu cuccurumbeddu». «Un tonto – o un duro (più probabilmente) – come le pietre colui che mette i bambini sotto sale, tenta di pelare i vivi dicendo che pietrifica i morti, ma con tutti i conforti, ha fatto capitombolo». Che non è gran poesia, si capisce subito. La fama di scientista che lo accompagnava doveva legittimare il sospetto, e con il sospetto la accusa.
Certo è che una scheda del Grande Oriente d’Italia relativa alla loggia “Vittoria” dà per scontata l’appartenenza scrivendo ad un certo punto: «Nel 1867 il Fr. Prof. Efisio Marini presenta all’accademia medico-fisica di Firenze una relazione sulla mummificazione e la conservazione delle carni». Tanto deriva da una segnalazione registrata nel “Bollettino del Grande Oriente della Massoneria in Italia”.
Giusto la metà della sua vita Marini la visse a Cagliari, l’altra metà a Napoli. Qui ebbe degli incarichi universitari, mai però, neppure lì, quella cattedra che sognava. Gli chiedevano in cambio la formula segreta, ma poi erano disposti a dargli – nonostante gli interventi del rettore e dello stesso ministro – niente di più che incarichi annuali. Oppure la cattedra in un liceo. Pensando a quanto effimera possa essere la parola quando le convenienze venali sono robuste, rinunciò lui a tutto.
Cambiò più volte casa – via Montedidio, via Ricciardi, via Summonte –, si fece interno a quella società urbana, e molto lavorò, e meritoriamente, tanto più quando scoppiò in città, proveniente dal nord Italia, una terribile epidemia colerica.
I primi anni partenopei, trascorsi con la famiglia – ma poi Giuseppa morì nel 1879, lasciandolo solo con Rosa allora 22enne e con Vittore appena 13enne –, furono intensi e le frequentazioni sociali di livello, fra intellettualità e professioni, e politica. Salvatore Di Giacomo, Matilde Serao, Arrigo Boito sono alcuni nomi che si fanno generalmente elencando amici ed ammiratori.
Un importante disegnatore/caricaturista – Antonio Manganaro – lo ritrae, fra tanti napoletani della haute e amministrativa e accademica: «non c’è che lui, non c’è che lui» è la didascalia che lo indica come ormai la sua figura s’è fatta in una specie di vecchiaia precoce. Egli ha soltanto, forse, 41-42 anni, ma ne dimostra quasi il doppio: ampia calvizie, niente più favoriti ma invece due grandi baffi a manubrio, uno sguardo mesto e pensoso; una piccola borsa scura a tracolla, sul rendigote, e le mani dietro la schiena che reggono il bastone che in capo ha – ma qui è rovesciato e gioca fra le gambe – una lunga mezza luna con la scritta del memento del mercoledì delle ceneri: «et in pulverem reverteris».
Una curiosità: questa caricatura appartiene ad una sottocartella di cinque tavole (ribaltata nel 1943 nel libro “Napoli com’era e com’è” di Luciano Jacobelli); le altre rappresentano le fattezze del Duca di San Donato – uno dei padroni della Napoli politica ed economica del tempo, anche come presidente del Banco di Napoli –, dell’assessore al piano regolatore comm. Zizzi, del mandolinista Silvestri autore d’una celebre “Serenata”, e del giurista professor Enrico Pessina. Curiosamente, a Cagliari la via Marini sarà proprio una traversa della via Pessina.
Ma forse il maggior sodalizio fu quello stretto con Giovanni Bovio, repubblicano – capo ideologico del postmazzinianesimo dopo la morte del Profeta –
e alto dignitario del Grande Oriente d’Italia, per lunghi anni Grande Oratore della giunta di governo. Un pugliese di Trani trasferitosi anch’egli a Napoli e fattosi napoletano d’adozione. Docente universitario per chiara fama, filosofo.
Di due anni più giovane dell’amico cagliaritano, si era proclamato cittadino della repubblica, di una repubblica inesistente in Italia negli anni lontani che ancora precedevano l’unità territoriale e costituzionale della patria, che peraltro sarebbe stata monarchica.
Arrivò a Napoli nel 1869, un annetto dopo Marini. Fu tra i promotori e protagonisti dell’Anticoncilio – la risposta degli anticlericali razionalisti alle assise conciliari convocate da Pio IX (il Concilio Vaticano I) ed interrottesi con la breccia di Porta Pia. Andò da un concorso all’altro, per la cattedra ora di letteratura ora di filosofia – pur avendo più interesse per il diritto –, fra liceo ed università. Finì tutto finalmente con il posto di professore pareggiato di Enciclopedia del diritto, cui seguì la pubblicazione di tre sodi volumi di storia del Diritto, di scienza del Diritto, di filosofia del Diritto. E negli anni molti altri se ne aggiunsero. Pubblicò anche testi teatrali, drammi serissimi, con personaggi come San Paolo o San Tommaso d’Aquino. Ogni volta fu un caso. Dalla città del papa aveva avuto nel 1864 scomunica e interdetto, al tempo dei drammi teatrali – trent’anni dopo – si replicarono le condanne.
Eletto in parlamento pronunciò il suo primo discorso nel gennaio 1877 per la disciplina delle attività dei ministri di culto. La Camera avrebbe pubblicato, nel 1915, una ampia selezione dei suoi interventi. Fu a Montecitorio per nove legislature, fino alla morte giunta nell’aprile 1903. Tre anni dopo quella di Efisio Marini.
E’ da credersi che i comuni circoli universitari, gli interessi scientifici – chiamali razionalisti o positivisti o in altro modo –, una certa sensibilità civile o politica che non s’integrava con il sistema conservatore della monarchia e dei governi del tempo, Crispi, di Rudinì, Pelloux ecc., questo legò in amicizia Bovio e Marini.
Non è stata ancora esplorata questa pagina che potrebbe essere fra le più ricche della biografia napoletana di Efisio Marini, e costituisce quindi un filone privilegiato di ricerca futura. Certo è che la conoscenza si approfondì e si fece cosa pratica, azione solidale per il bene della città, nei primi anni ’80, quando Napoli fu raggiunta dall’epidemia colerica scoppiata nel sud della Francia e poi scesa regione dopo regione lungo tutto lo Stivale. Collaborarono allora come un sol uomo laici anticlericali e militanti dell’apostolato cattolico con in testa il cardinale arcivescovo Guglielmo Sanfelice (di cui si legge che Marini avrebbe pietrificato il cadavere un giorno lontano)… Tutti parteciparono al soccorso, le parrocchie e le logge, i repubblicani e socialisti ed i confratelli della Madonna o di San Gennaro, senza differenze e senza ambizioni di benemerenze fra i volontari… I massoni avevano le tre stellette sul petto e la croce verde sul braccio, nessuno si scandalizzò…
Marini riuscì a frenare le forme dissenteriche proprie del virus attraverso quell’acetato di alluminio che, fra gli altri composti, aveva utilizzato per i suoi bagni conservativi, anche se poi preferì puntare su altre sostanze con minori controindicazioni… Fu, Marini, un campione di carità civica, un santo autentico nella competenza e nel servizio alla causa dei malati, nel 1884, alla Sezione Mercato e Torre Annunziata!
Si consideri, per avere appena un’idea delle dimensioni di quell’epidemia, che soltanto nella prima decade del mese di settembre furono riscontrati oltre 3.300 casi, il 90 per cento fra i quartieri poveri e malsani. Allora Napoli contava 45mila vani e 54mila bassi…
Fissò sulla carta la sua testimonianza scientifica, trasmessa al commendatore Mariano Semmola, Ispettore sanitario della Croce Bianca. Una copia di quel libretto preziosissimo, firmato con dedica dall’autore, si trova nella nostra Biblioteca Universitaria. Inviando quel testo prezioso alla Biblioteca – quella Biblioteca che era stata diretta in anni remoti dal commendator Martini –, egli cercava ancora il contatto con quella Cagliari che era sempre stata avara con lui… Triste a dirsi, ma vero: «la giustizia postuma è rimorso»!
Nell’ottobre dello stesso 1884 ricevette, con altri medici e volontari, il diploma di benemerenza – di «valentissimo e solertissimo» – della Croce Bianca. Della sua opera, della tecnica curativa assolutamente geniale, e più ancora dei risultati conseguiti, scrisse a lungo “Il Piccolo” di Napoli (ancora non usciva “Il Mattino”): «L’apparecchio per enteroclisi ed ipodermoclisi che adoprò ed usa il Marini è assolutamente nuovo e da lui ideato…».
Concedimelo, Efisio. Io non avrei voluto lasciarti così giovane – giovane tu e giovane io –, avrei voluto invecchiare con te.
Ti ho amato moltissimo, credo di aver capito tutto del tuo mondo interiore da subito, allora, quando cominciammo a far l’amore.
Eri bello, bellissimo – GUARDA, HO PORTATO IO LE TUE FOTOGRAFIE, IN SEQUENZA D’ETA’ SONO QUI DIETRO, E IO MI SONO MESSA VICINA A TE –, avevi occhi che mi prendevano, intelligenti e malinconici… Ti ammiravo, non ti amavo soltanto!
Giovane di vent’anni, avevi sembianze di un uomo vissuto, di un professore patriota risorgimentale…
Avevi una parola pacata, forse vincevano i silenzi, ma erano silenzi pieni, i tuoi… Pieni di pensiero e di sentimento. Quanto t’ho amato, per gli sguardi e le carezze, per le parole e anche per quei silenzi!
Di me, non ho deciso io, lo sai, ma Domineddio…
Sono dovuta migrare, molto prima di te, nelle Valli Celesti dov’è la pace delle creature amate…, quella pace che gli uomini neppure immaginano, se non i poeti forse, o gli uomini della musica, o i mistici…
Non ti sono mai stata lontano, però… E quando, nel non tempo, ci siamo rincontrati qui, sul manto di Domineddio, ci siamo presi di nuovo com’era stato allora, e la tristezza l’abbiamo cambiata in felicità, una strana felicità…