Il caso Barany. Gli ebrei italiani come «cortocircuito della storia», di Alberto Medda Costella

Quella degli ebrei fascisti, negli anni che precedettero la seconda guerra mondiale e la shoa, è una storia forse minore, un filone perfino rimosso della maggior storia tanto della diffusa presenza ebraica sul continente europeo ed italiano del primo Novecento quanto della democrazia occidentale ed atlantica che la causa degli ebrei ha condiviso e sostenuto contro Hitler e contro Mussolini.

La ribalta che all’argomento ha offerto, sul piano letterario, Antonio Pennacchi con il suo Canale Mussolini, pochi anni fa ha “sdoganato” quel pezzo di verità storica, e gli studiosi anche di area progressista fortunatamente non temono più che il trattarne possa essere scambiato per un’attenuazione di sensibilità ad una lettura idealmente chiara dei maggiori e tragici eventi del secolo scorso e specialmente della persecuzione ebraica cioè ad opera delle dittature affermatesi in Germania ed in Italia (né soltanto in tali paesi).

La Sardegna ha avuto pure  essa, ancorché marginalmente, la sua parte nelle vicende dell’ebraismo fascista, e Alberto Medda Costella – studioso storico del Novecento isolano e del vissuto sociale ed economico dell’Oristanese, in specie della piana bonificata di Terralba-Arborea – ci si è dedicato, apripista, con apprezzabile equilibrio ed utili riferimenti alla letteratura storiografica che, con più titoli, sta approfondendo in questi ultimi anni la materia.

L’articolo che segue biografa Camillo H. Barany, agrotecnico di fede fascista, attivo in Mussolinia (Arborea) negli anni ancora d’impianto di quella comunità rurale, ed offertosi poi alla causa bellica del regime in quel d’Africa.

Gloria e tramonto di un’epigrafe

«Questa pineta piantata

per ricordare e onorare Camillo Hindard Barany ///

medaglia d’oro.

Volontario delle Argonne

Ardito delle Alpi e del Piave

Legionario di Fiume //

Bonificatore a Mussolinia e Littoria»

Sono le parole scolpite nell’epigrafe della pineta davanti al centro colonico di S’Ungroni, lungo la strada rettifilo che taglia in due parti la piana di Arborea.

La stele versa in pessimo stato e al visitatore che dovesse scorgerla accidentalmente tra un pino e l’altro, subito balza all’occhio che parte di quei versi sono stati volutamente occultati, con l’intento di omettere i passaggi più indifendibili di una vita, seppur ricca di eventi, che mal si conciliava col nuovo sentire democratico dell’Italia repubblicana.

Che Barany fosse un uomo particolare lo si intuisce già da questo cippo, di cui conosciamo l’intero testo grazie a delle foto d’epoca che ritraggono il momento dell’intitolazione della pineta e il posizionamento di quell’iscrizione.

Ungherese d’origine, cresciuto nel Lodigiano. A giudicare dal numero di decorazioni prese in varie parti del mondo, possiamo affermare che abbiamo a che fare col classico avventuriero italiano. A soli diciassette anni lascia il suo paese natio Paullo e s’imbarca per il Sud America. Dopo aver combattuto in Messico nella rivoluzione, con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale torna in Europa, partecipando prima come volontario garibaldino della legione straniera francese, poi come alpino negli Arditi. Legionario fiumano, «squadrista nel 1919», prosegue la sua carriera militare in Libia, dove nel 1925 è iniziata la riconquista della colonia italiana, in gran parte sfuggita di mano durante la Grande Guerra. Dopo aver girovagato per l’alta Italia come agronomo, si trasferisce con la famiglia come agente di mezzadria nella tenuta di Maccarese, alle dipendenze della Società omonima vicino a Roma.

Nel 1930 è in Sardegna, questa volta come dipendente della Società Bonifiche Sarde (SBS) nella nuova città di Mussolinia, presso Oristano. Anche qui da fascista della prima ora è membro del Direttorio del Fascio, ufficiale della Milizia, comanda e organizza i fasci giovanili. La signora Elsa Boselli, colona di Arborea, in una mia intervista del 2009, lo ricordava soprattutto per essere stato il fattore (agronomo della SBS al quale spettava il controllo delle famiglie contadine nel lavoro dei campi) cui faceva riferimento la sua famiglia: «No iera cattivo, iera abbastanza bravo…el gavea una vose…Attenti!!! – e aggiunge – iera capitano degli Arditi». Nel 1933 insieme a Gay, Queirolo e Bianchi dà vita a un Direttorio provvisorio per la costituzione di un sodalizio sportivo, che rappresenti la nuova borgata sarda: nasce l’Unione Sportiva Mussolinia, oggi U. S. Arborea.

Di lì a poco è però costretto a lasciare la Sardegna per lo stato di salute dei figli, che forse hanno risentito del clima insalubre della piana appena redenta: destinazione Littoria, l’attuale Latina. La sua permanenza nell’Agro Pontino sarà breve. Parte infatti volontario per la guerra d’Etiopia, ponendosi alla guida come centurione dell’armata “littoriana”. Ferito una prima volta, torna al fronte con un braccio rotto, trovando la “bella morte” il 12 febbraio 1936, «all’Amba Aradam sulle vie imperiali del fascio littorio».

A riportare in auge questo personaggio storico della bonifica di Arborea sono stati certamente i saggi dello scrittore Antonio Pennacchi per la rivista Limes prima ed il suo fortunato romanzo Canale Mussolini poi (con cui ha vinto il Premio Strega nel 2010), che ne ha riesumato la parte sconosciuta ai più, se non a tutti, del suo essere ebreo.

A primo acchito si potrebbe pensare quasi a un ossimoro. Eppure gli ebrei fascisti non furono certo un’eccezione, come tanti di noi potrebbero pensare, anzi, in proporzione, gli italiani di religione ebraica furono quelli che sottoscrissero con più entusiasmo la tessera del Partito Nazionale Fascista. Nell’ottobre del 1933 furono 5.800, pari al 4,1 per mille del totale degli iscritti. Un numero assai alto in rapporto, se si considera che al tempo vi era un ebreo italiano ogni circa mille abitanti.

Il fascismo, oltre a elevarlo a modello del volontarismo nazionale e del perfetto uomo in camicia nera, commissionò a Pirro Rost e Menico Dolcini un testo a stampa celebrativo della sua vita, per assicurare «alla Patria, coll’esempio immortale, altre generazioni di Eroi».

Il regime non fu altrettanto generoso con i suoi correligionari, compresi i fascisti della prima ora, tra cui Ettore Ovazza, esaltatore del sacrificio di Barany nella sua rivista La nostra Bandiera (un periodico di “cultura ebraica”, allineato e antisionista), sfruttando così «l’occasione di irrobustire quella parte dell’ebraismo italiano più vicina alle idee fasciste di grandezza e di arditismo nazionale».

Ovazza non fu certamente l’unico ebreo così esposto verso il regime. Si pensi solamente ai vari soldati, ma soprattutto ai generali nelle forze armate che ricoprirono ruoli di elevata responsabilità, come Giorgio Liuzzi, fascista convinto e congedato dall’esercito nel ‘39 in seguito alle leggi razziali (nel merito si veda il lavoro di Giovanni Cecini, I soldati ebrei di Mussolini, Milano 2008) o ancora alla stessa Margherita Grassini in Sarfatti, sottoscrittrice del Manifesto degli intellettuali fascisti e amante dello stesso duce, a lui così legata da dedicargli una famosissima e fortunata biografia tradotta in diciassette lingue.

Fu però soprattutto nell’architettura che i “bandieristi”, così noti gli ebrei vicini alle posizioni di Ovazza, diedero un notevole contributo. Nella fattispecie nelle città di fondazione, lungo gli anni ’30. Si tratta chiaramente di ebrei oramai assimilati e che in sinagoga, probabilmente, mettevano piede solo per le maggiori festività: dal presidente dell’ACaI (Azienda Carboni Italiani) Guido Segre e l’architetto triestino Gustavo Pulitzer-Finali, ideatori delle città minerarie di Carbonia (Sardegna) e Arsia (Istria), agli altri architetti Mosé Tufaroli (che cambiò nome in Mario alle prime avvisaglie di persecuzione) e Concezio Petrucci (quest’ultimo convolato a nozze con l’ebrea tedesca Hilde Brat), progettisti di Fertilia (Sardegna), Aprilia e Pomezia (Lazio), mentre in solitario Segezia (Puglia) il primo e insieme all’ingegnere Riccardo Silenzi Borgo Appio e Borgo Domitio (Campania) il secondo.

Ancora nel 1934 Benito Mussolini in un discorso tenuto a seguito del fallito colpo di stato in Austria, in cui perì il cancelliere Dollfuss, in merito alle leggi razziali tedesche spese parole confortanti per gli ebrei: «Trenta secoli di storia ci permettono di guardare con sovrana pietà a talune dottrine d’oltralpe sostenute dalla progenie di gente che ignorava la scrittura».

Con la conquista dell’Etiopia e il riavvicinamento alla Germania nazista, si arrivò così al famoso discorso di Trieste del 1938, in cui venne annunciata l’introduzione delle leggi razziali anche in Italia. Nonostante questa discriminazione, diversi ebrei continuarono a rimanere fedeli al fascismo, rammaricandosi di non poter partecipare all’imminente conflitto che l’anno successivo avrebbe portato l’Europa alla distruzione e l’Italia a franare rovinosamente nelle braccia dell’occupazione nazista.

La capitolazione del regime, la Resistenza e la proclamazione della Repubblica a seguito del referendum popolare del 2 giugno 1946, portarono alla rimozione di tutto ciò che di scomodo si voleva dimenticare, sia in un senso che nell’altro, trasformando gli ebrei fascisti in un cortocircuito della storia.

Lo stesso movimento sionista, che fino a quel momento aveva goduto di scarso seguito, cominciò a riscuotere un certo apprezzamento nelle varie comunità italiane (non tutte), che non poterono facilmente dimenticare il tradimento della loro patria, ma soprattutto della monarchia che le aveva fatte uscire dai ghetti nell’Ottocento e che per questo avevano servito fedelmente, dalle varie guerre risorgimentali fino al drammatico 1938.

Per dirla con le parole di Lucio Della Seta, ufficiale dell’esercito dell’8° armata, «I Savoia avevano tradito. […] La coscienza ebraica, chiamiamola così, è tutta di dopo la guerra. Non c’era prima in questo senso. C’era una religione ebraica e basta. Un culto, ma non una differenza con gli altri. […] Io adesso ho due patrie, Italia e Israele».

Oggi, oltre alla pineta compresa di epigrafe che porta il nome di Barany, all’agronomo lodigiano è stata intitolata, ad Arborea, la via che sta tra il Mulino e la ex GIL. Nel monumento in piazza Maria Ausiliatrice, risulta il primo dei caduti in guerra.

 

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