A PROPOSITO DELLA LEGGE sugli ENTI LOCALI: “Io penso e dirò perché, ci sia bisogno di una tregua, di una pausa di discussione, di un approfondimento, di un confronto…”, di PIETRO SODDU
“TERRITORIO: STRATEGIE PER CRESCERE INSIEME”. Intervento dell’on. Pietro Soddu dal titolo “Istituzioni e politiche per lo sviluppo del territorio” in occasione del convegno organizzato dagli ordini degli avvocati, degli ingegneri e degli architetti della Provincia di Nuoro, Nuoro, venerdì 13 Novembre 2015
Stiamo vivendo un momento della politica sarda che vede il tema del governo del territorio e della sua organizzazione al primo punto dell’ordine del giorno.
Ma prima di iniziare il ragionamento voglio raccontare un aneddoto personale.
Quando la professoressa Cabiddu mi ha invitato a quest’incontro, io secondo l’uso consolidato dei sardi, per prima cosa le ho chiesto: «ma lei di dov’è?». E lei mi risponde: «sono di Urzulei, sto a Milano, ma sono di Urzulei».
E allora mi sono ricordato una vicenda familiare che riguardava Urzulei.
Io sono di Benetutti, sono nato e cresciuto lì, ho fatto il sindaco, sono un benetuttese, e perciò quasi nuorese.
La mia famiglia, per metà è famiglia di pastori. Mia madre aveva sei fratelli pastori, con una dotazione di bestiame importante, tutti scapoli nel momento dell’avvenimento che racconto. Gli avevano rubato una cavalla e come era uso e lo è ancora oggi, la si doveva cercare e recuperare a tutti i costi. E dove la si doveva cercare se non nei paesi vicini? Ma i paesi vicini erano territorio straniero, “logu anzenu”, e bisognava stare molto attenti.
La prima tappa per noi era Orune, tribù tradizionalmente nemica secondo la cultura della comunità di cui faccio parte. Il territorio per noi più importante e più familiare era quello del paese, circondato da monti e da colline. I paesi vicini, erano caratterizzati da valori che ognuno di noi considerava diversi per ogni comunità.
Quando uno chiede di dove sei in genere lo fa perché il territorio consente di dare una connotazione identitaria a ciascuno. Se è di Bultei, come l’avvocato Soro che è qui davanti a me, o di Orune, o di Nuoro, o di Orgosolo, non è come me ma è diverso;
non siamo la stessa cosa io e Lorenzo Soro, anche se abitiamo a due passi di distanza. Né quelli di Bultei né quelli di Benetutti attribuiscono ai loro vicini lo stesso carattere, la stessa cultura, lo stesso giudizio gli stessi comportamenti nell’affrontare le condizioni che si verificano nella vita. Molte cose sono cambiate durante la mia vita, a cominciare da ciò che utilizziamo per parlare di territorio. Ad esempio la cultura, l’ultima cosa che ha citato Menne, il patrimonio archeologico, i nuraghi, le domus de janas, il labirinto del mio paese, tutto quello che costituisce il nostro antico patrimonio culturale compreso quello che del nostro Medioevo, i retabli le chiese e le basiliche romaniche, tutto quello che è dentro il nostro territorio, per molti anni non fu considerato importante dalla popolazione residente per la loro identità.
Altrettanto se non di più si può dire del valore paesistico, o del mare o anche dell’edificabilità dei suoli, valore molto recente, frutto del tempo moderno. In qualche decina di anni c’è stata una evoluzione straordinaria, quasi un rovesciamento del valore del territorio rispetto a quello che noi abbiamo ereditato dalla cultura precedente, dove contavano altre qualità rispetto a quelle di oggi.
E quando noi parliamo di come governare il territorio, della governance, di chi deve parteciparvi, di cosa conservare, di cosa valorizzare, di come mettere insieme le relazioni, dobbiamo tener conto di questo grande cambiamento, dei valori in campo rispetto al passato.
La professoressa Cabiddu lo dice molto efficacemente già nell’introduzione del suo libro, che io consiglio a tutti di leggere. L’argomento è complesso, ma viene svolto con molta semplicità, profondità e sostanza giuridica. Si tratta di un libro che va letto perché è importante leggere i libri oggi, e in particolare su argomenti come questo. Non ne leggiamo quasi più di libri e le conseguenze si vedono quando si devono affrontare argomenti come questo di cui parliamo oggi.
Nell’introduzione l’autrice cita un testo il cui autore è uno dei personaggi più contestati della filosofia politica moderna, il tedesco Carl Schmitt. Il libro che lei richiama è intitolato “Il nomos della terra” e tratta i cambiamenti di senso del ‘900. Anche per noi dalla seconda meta del ‘900 ad oggi è cambiato tutto.
È cambiata l’economia, la cultura, la politica, è cambiato il concetto del territorio, è cambiato l’insieme dei valori e dei beni che lo compongono. Noi oggi rispetto al territorio diamo valore a beni, fatti e azioni che prima erano trascurate o addirittura non esistevano. Non facevano parte della nostra discussione e tantomeno destavano la nostra preoccupazione.
Anche il problema che oggi discutiamo, di come e di cosa fare per essere dentro il gioco della governance del territorio senza essere emarginati, è un fatto recente, sia sul piano politico, sia su quello tecnico.
Stamattina l’assessore Demuro ha parlato a lungo di questo tema, mettendo al centro dell’argomentazione la legge 142, il testo che oggi regola la vita amministrativa dei comuni e che sarebbe, secondo lui, una matrice ancora oggi adeguata per regolare e indirizzare le decisioni politiche e legislative che sta per assumere la regione.
Io sono uno di quelli che hanno lavorato a lungo e molto intorno a quella legge, all’inizio degli anni ’90, da deputato e capogruppo della Democrazia cristiana nella Commissione affari costituzionali insieme all’attuale Presidente della Repubblica, anche lui deputato.
Allora abbiamo pensato, che si potessero comprendere in un testo di legge organico, quasi un testo unico che mancava dall’Ottocento, le nuove disposizioni per un buon governo degli enti locali, valorizzando le ragioni non solo generali del potere locale, ma anche le funzioni, le attività e soprattutto il potere di partecipare alle decisioni relative all’ambito territoriale di ciascun ente nei campi nuovi che ho richiamato prima
Nella 142 abbiamo inserito, come è stato ricordato stamattina, anche le città metropolitane, comprendendo tra queste anche Cagliari, forzando un po’ la mano, profittando del fatto che, avendo per Statuto potestà legislativa primaria in materia di enti locali, la Regione poteva procedere immediatamente o abbastanza rapidamente a istituire la Città metropolitana. Ma così non è stato e oggi io non sono più sicuro che la legge 142 sia un testo ancora pienamente adeguato per affrontare i problemi che stiamo vivendo anche per molti altri spetti.
Io ho avuto la possibilità di sperimentarla anche personalmente quando sono stato presidente della provincia di Sassari, negli anni dal 1995 al 2000, ed ho constatato l’inadeguatezza dell’amministrazione provinciale a rispondere alle funzioni di coordinamento e di governo dell’area vasta che sono stati richiamati anche oggi sempre da Demuro, che ha fatto un elogio dei piani di coordinamento provinciale. La Provincia di Sassari lo ha adottato ma non posso affermare che il piano di coordinamento sia un efficace strumento di governo. Per noi non lo è stato e forse non lo poteva essere.
Non credo quindi che basti fare riferimento a questa legge e andare avanti a testa bassa, rifiutando il confronto, rifiutando il dibattito, ponendo come ha fatto il presidente Pigliaru l’aut aut “o si fa così oppure me ne vado”. Non è giusto e non è utile.
Io penso e dirò perché, ci sia bisogno di una tregua, di una pausa di discussione, di un approfondimento, di un confronto che fino ad oggi non si è riusciti a fare, come ho cercato di dire anche all’on. Ganau, Presidente del Consiglio regionale qualche giorno fa senza riuscirci, con mio grande disappunto perché se non ci riesco io, che ho una certa dimestichezza con le strutture regionali a parlare con chi comanda, a dire il mio parere, a esprimere un giudizio, a dare un contributo, e fare ciò che ogni cittadino dovrebbe poter fare, cioè partecipare all’elaborazione del proprio futuro e incidere sull’orientamento delle decisioni che lo riguardano, come può un cittadino comune che non ha l’esperienza, le conoscenze tecniche partecipare al gioco? Come fa a esprimersi su questo tema così importante del governo del territorio?
E qual è il gioco di cui parliamo? Il tema è dominato dalla questione della Città metropolitana.
Io riconosco che le aree metropolitane esistono nel mondo, e si conoscono le grandi, numerose e complesse problematiche di cui soffrono.
Già alla fine del 1960 (in Italia il libro è uscito per Einaudi negli anni ’70), è stato pubblicato “Megalopoli. Funzioni e relazioni di una pluri-città” di Jean Gottmann. Il libro descrive una realtà degli Stati Uniti d’America, costituita da un’area che va dalla città di Boston a Philadelphia. Una area molto vasta che comprende anche New York e Washington. Questa area già dagli anni ’60, è definita e considerata come un’unica area urbana, una megalopoli con tante metropoli.
Un’area che già allora aveva bisogno di essere governata, regolamentata, gestita orientata in modo unitario, garantendo ai cittadini i servizi essenziali, gli stessi diritti, le stesse possibilità a tutti, oltre s’intende a regolamentare non solo lo svolgimento delle attività produttive, le infrastrutture e tutto ciò che serve a un governo unitario del territorio. Molti di voi saranno stati a Londra che ha uno statuto speciale di città metropolitana.
In Europa ci sono altre città metropolitane, ma non in Italia; se in Italia non ne è ancora nata una, se dopo vent’anni da che esiste la 142/90 nessuna città, nessun luogo dell’Italia ha attivato la procedura per costituirsi in Città metropolitana, ci sarà una ragione, che non conosciamo ma che esiste. Ed esiste anche per Cagliari se in questi anni non è stata riconosciuta e costituita città metropolitana.
Io ho vissuto a Cagliari per più di vent’anni, ho abitato al centro e in periferia. Quando stavo in periferia, dalle parti di piazza Giovanni XXIII, un po’ più in là, facevo a piedi il percorso che da quella parte della città porta fino al palazzo della regione. Praticamente attraversavo tutta la città a piedi
Conoscevo tutti i palazzi, tutti i negozi, molte delle persone che incontravo.
Parlavo, salutavo, mi rendevo conto della vita di tutti i quartieri.
È condizione metropolitana questa? O è la condizione normale di una medio-piccola città commerciale come tante in Italia dove tutti si conoscono, dove tutti sanno tutto di tutti, si scambiano il saluto, gli auguri e i doni. È una condizione diversa, in senso urbano, economico e culturale di quella delle altre città medie della Sardegna? Cambia se verrà chiamata Città metropolitana dimenticando che “l’abito non fa il monaco”?
È oggi il resto della Sardegna molto diverso da Cagliari? E quali sono le tendenze per il futuro?
Circolano da qualche anno proiezioni demografiche ufficiali e non ufficiali, elaborazioni di centri studi o di cattedratici universitari che si occupano di demografia.
La proiezione da qui a cinquant’anni è drammatica: la variazione massima prevede una diminuzione di 250.000 abitanti, la popolazione scenderebbe da 1.600.000 a 1.350.000;
la minima prevede una diminuzione meno grave ma significativa di circa 100.000 abitanti. A questo si deve aggiungere l’invecchiamento della popolazione e si devono considerare le dinamiche che non sono di sviluppo e di crescita ma di declino, di grave decadenza di alcuni degli elementi costitutivi della nostra economia. Dove avviene la diminuzione e dove si colloca il rischio maggiore del declino?
Non a Cagliari e non a Olbia, che sono gli unici due poli che si salvano dalla crisi demografica. Avviene soprattutto nelle zone interne, ma anche a Sassari, Oristano, Nuoro, Carbonia, Iglesias e in tutte le città medio-piccole.
Questo è il nostro vero problema, posto anche dal nostro coordinatore, avv. Menne. Purtroppo ancora non è stato detto con sufficiente chiarezza da nessuno, a cominciare da chi governa la Regione, come si fa a impedirlo. E prima ancora come si fa a rispettare e rendere effettivamente operativa la solenne parità sancita nella Costituzione tra i diversi livelli istituzionali che compongono la Repubblica, se si introduce nell’ordinamento una gerarchia tra i comuni normali e le città metropolitane.
E cosa vuol dire pari dignità?
Stamane un relatore ha accennato al problema dell’eguaglianza, che è un problema di filosofia politica fondamentale, se non vogliamo che l’autonomia locale diventi soltanto un’espressione retorica, vuota, inconcludente, anche se molto usata dai sindaci quando proclamano di essere loro i primi responsabili della buona conduzione dell’amministrazione locale, e della sorte del proprio paese che resta solo un proclama retorico se non si danno loro poteri adeguati in linea con le tendenze sociali, politiche ed economiche attuali, se non si fa in modo che i poteri assegnati ai sindaci, a tutti e non solo a quelli delle città metropolitane, siano effettivi e idonei per consentire a tutti di partecipare realmente al governo del territorio. La prof.ssa Cabiddu, autrice del libro, fa un elenco di tutti i campi coinvolti nel governo del territorio e di tutte le condizioni giuridiche, strumentali, tecniche e prima ancora valoriali necessarie per un buon governo con il coinvolgimento e la responsabilizzazione degli enti locali.
Cosa viene fuori dal lavoro della prof.ssa Cabiddu? Riassumo brevemente la mia impressione partendo dal concetto di ambito ottimale che domina il dibattito ma non orienta la struttura normativa della proposta di legge regionale di riforma degli Enti locali in maniera chiara e sufficiente per quanto riguarda le funzioni dei comuni.
In Sardegna i cosiddetti ambiti ottimali di governo sono tutti regionali, quelli
già definiti e quelli in via di definizione. È regionale l’ambito delle acque, è regionale quello dei rifiuti, dei trasporti, del paesaggio, della scuola, dell’occupazione, e presto anche l’ambito della sanità lo diventerà, come è stato dichiarato di recente dal presidente della Regione alla platea degli amministratori locali e delle ASL. La Regione sta regionalizzando tutto, concentrando tutto, e per quanto è dato capire la concentrazione è considerato un elemento ineluttabile. Prima non era così.
Quando io ho fatto il sindaco, nel 1956, molte delle funzioni fondamentali per il governo del territorio erano attribuite ai comuni. Basti pensare che il comune aveva come dipendenti comunali: il medico condotto, il veterinario condotto, l’ostetrica condotta, l’ufficiale sanitario, il personale amministrativo scolastico. Il comune gestiva il servizio idrico, elettrico e tutta una serie di funzioni che oggi sono fuori dall’ambito comunale.
Ricordo per tutti che i comuni gestivano il dazio, avevano l’imposta famiglia, l’imposta sul bestiame e tutto questo significava anche governare il territorio, ma solo il territorio di ciascun comune con scarsi o inesistenti collegamenti strutturali con altri territori. Cosa che oggi è invece assolutamente necessaria.
Cosa fa oggi il sindaco? Quali sono i suoi reali poteri di governo sul territorio del comune che amministra? Non dico nel territorio vasto nel quale si colloca ormai il destino di tutti, ma nel territorio limitato del proprio comune
Io sono molto solidale con i sindaci e li ammiro, a parte quelli che si servono di consulenti, segreterie, portavoce, di tutto quell’apparato di pomposità e di clientelismo che domina oggi la politica locale, regionale e nazionale, che tutti definiscono negativamente come casta. Sono solidale e qualche volta ammiro il loro coraggio ma non posso dire che governano il territorio.
È questo il problema che emerge anche da questo incontro, e l’obiettivo è o deve essere come fare perché siano loro a governare il territorio, insieme a tutti gli altri soggetti coinvolti e a risponderne ai loro elettori.
Va detto chiaramente che il problema non si risolve con un’altra parola magica che ricorre ripetutamente in tutti dibattiti, non si risolve con il decentramento.
Di quale decentramento parliamo, cosa decentriamo effettivamente, quali sono oggi le materie gestibili separatamente a livello comunale? Se ci pensiamo sono molto poche e quasi sempre si tratta della fase esecutiva e non dell’indirizzo.
Non si tratta dunque di decentrare. Non si tratta neanche di utilizzare un altro principio che resiste ancora nella filosofia politica generale e nella politica militante, il principio di sussidiarietà, perché anche il principio di sussidiarietà è svuotato nei contenuti fondamentali che aveva in passato. Cosa è oggi sussidiario, qual è la parte di un problema più vicino al cittadino?
È difficile dire oggi quali siano le materie collegabili e gestibili in modo ottimale nell’ambito comunale.
Il problema è stato sfiorato da Demuro questa mattina, senza arrivare alle conclusioni normali e logiche, cioè che la matrice non e più quella dell’autonomia comunale e neppure dell’autonomia funzionale. Cosa è oggi l’autonomia, cosa significhi, quali sono i suoi confini e le sue potenzialità? Per me il problema non è garantire l’autonomia ma condividere il potere, dovunque esso si collochi.
Il problema è di fare in modo che il sistema che viene elaborato a livello nazionale ed europeo prima di tutto, sia un sistema che associa, che include, che corresponsabilizza, che fa in modo che il sindaco di Lodè o di Benetutti, o di Orune partecipi con lo stesso livello di dignità democratica alle decisioni che riguardano il paese che amministra, decisioni oggi assunte da organismi diversi, non autonomi in senso classico ma dotati di un’autorità superiore che include il livello locale, regionale, statale e europeo.
Questo problema non è neppure sfiorato dalla nuova proposta che introduce una sorta di nuovo ordinamento gerarchico degli enti locali che non rientra nei principi costituzionali, non risolve i problemi di governo ottimale del territorio. Per queste ragioni io sospenderei la decisione di riforma degli enti locali, in corso in Consiglio regionale. Ho detto al prof. Demuro, che è l’assessore alla riforma della Regione che forse è questa che dovrebbe essere fatta prima di quella degli enti locali.
Non abbiamo obblighi così cogenti da costringerci a decidere frettolosamente, senza pensare al futuro, senza pensare all’orizzonte che dobbiamo definire per il futuro, che non può essere lasciato alla fine del percorso, ma posto all’inizio come base e orientamento per tutte le riforme.
Oggi è un po’ complicato, ma si può ugualmente rovesciare il procedimento, mettendo all’ordine del giorno prima di tutto la legge generale costituente, quella che viene normalmente chiamata legge Statutaria.
Non lo Statuto, che regola i rapporti con lo Stato, ma quello interno, la legge Statutaria.
Secondo me va pensata e fatta secondo uno schema costituente, dove non c’è solo l’organizzazione dell’ente Regione isolata da tutto il resto della Sardegna, ma c’è la Sardegna con tutte le sue istituzioni.
C’è il governo della regione; c’è il governo degli enti locali; ci sono i poteri degli uni e degli altri.
Ci sono le sedi di coordinamento e le forme della concertazione necessarie per governare democraticamente ed equamente la Sardegna come un territorio unitario, un’isola metropolitana si potrebbe dire.
Se metropoli ci deve essere la metropoli deve essere la Sardegna. E basta.
Non Cagliari, Sassari, Oristano, Nuoro, Olbia ma la Sardegna vista unitariamente e governata secondo principi di equità e eguaglianza, superando le mentalità localistiche e frantumate di cui parlavo all’inizio.
Si tratta di un passaggio obbligato necessario se si vuole garantire la partecipazione delle zone interne ai benefici derivanti dalla condizione urbana moderna, dai servizi più moderni, dall’economia verde, dalla ricerca, da tutti i fattori del territorio che va visto unitariamente come sistema che comprende l’aria, i boschi, il mare, le città, i monumenti, la cultura, le tradizioni, ecc..
Come si dice e come sappiamo, tutti questi valori hanno sia una dimensione locale, sia una dimensione regionale e una ancora più vasta e vanno visti nel loro insieme e governati secondo le esigenze della globalizzazione. Basti pensare al cambiamento climatico (lo stiamo vivendo anche in questi giorni), che riguarda interi paesi, che riguarda l’intero mondo, non riguarda solo noi e non lo governiamo noi da soli come non possiamo governare tutti gli altri fattori che interferiscono sulla condizione dello sviluppo, alla quale ci ha richiamato Menne. Questo comporta che la Regione deve partecipare alle decisioni nazionali ed europee per i livelli maggiori dell’interferenza, dell’integrazione, dell’interconnessione, dell’interdipendenza tra i vari territori e gli enti locali devono partecipare alle decisioni di livello regionale e contribuire ad elaborare e approvare le posizioni della Regione.
Questo è il modello! Moderno, democratico, paritario, efficiente e non escludente, come appare a molti il modello proposto dalla Giunta della Regione.
Voi state seguendo come me le vicende attuali. Vediamo tutti i giorni le storie dell’emigrazione, del terrorismo e del clima impazzito. Apprendiamo passivamente le decisioni del capitalismo globale, delle delocalizzazioni, dei disinvestimenti e così via.
Si tratta di una serie di problemi che ci coinvolgono tutti, che vogliamo o no, ma non dipendono da noi, non sono da noi governabili se non partecipando insieme agli altri livelli superiori alla loro regolamentazione e al loro controllo.
Noi viviamo una condizione che alcuni chiamano di caos, una condizione molto complessa.
Come sapete. C’è una scienza del caos, che trovo molto interessante anche sotto il profilo che stiamo trattando.
Molti non chiamano la condizione moderna caos ma complessità.
Un illustre sociologo tedesco, Niklas Luhmann, molto noto agli esperti e molto letto negli anni ’60 e ’70 del Novecento, ha cercato di dimostrare che la complessità la si affronta con l’autonomia dei singoli comparti di attività o materie. Con l’autonomia della politica, della scienza, del sistema militare, della società civile, della sanità, dell’istruzione e così via.
Scuola autonoma, industria autonoma, sanità autonoma, tutti i principali settori devono essere autonomi, devono avere una loro autonoma organizzazione. Questo, ridurrebbe la complessità, cioè la difficoltà di governarli tutti insieme con una visione unitaria, orientandoli al perseguimento del bene comune e dell’interesse generale, semplificandoli attraverso la separazione.
Gli Scienziati del caos dicono invece che dal caos si esce sempre ma non con l’autonomia dei fattori che lo causano.
Il caos non è una condizione normale, è una condizione eccezionale dalla quale si esce sempre, ma nessuno sa dire come. Dicono semplicemente che nel caos c’è sempre un elemento, che chiamano attrattore, che attrae e mette insieme gli elementi del caos e li riunisce in un nuovo ordine.
Ma nessuno dice quale è questo attrattore e perciò lo chiamano “attrattore strano”. Questo è quello che secondo gli scienziati avviene nella natura, nei fenomeni della vita biologica animale e vegetale. Nessuno finora ha detto che il caos che regna nella politica, nella società, venga risolto con un attrattore sconosciuto, magari scelto dal mercato. Nessuno lo dice espressamente ma qualche volta mi viene il dubbio che il presidente Pigliaru, che è un mercatista, pensi proprio questo anche per il caos che c’è oggi in Sardegna.
Dobbiamo però seriamente chiederci, per quello che conosciamo noi, se possa il mercato essere il dominus del futuro della Sardegna, se sia giusto e utile lasciare che le forze del mercato, le convenienze private, i profitti, l’interesse individuale, le ragioni del capitalismo globale, gli utili ricavabili a minor spesa a determinare, senza correzioni di tipo equitativo e solidaristico, lo sviluppo di tutti i territori. È lecito chiedersi se la Sardegna e ogni singolo territorio debba contare solo sulle possibilità di sviluppo naturale, sulle risorse che ci sono nel singolo territorio, se questi sono elementi sufficienti a farci uscire dal disordine, dal caos, dal declino, e se dobbiamo lasciare che sia il mercato a scegliere per noi il futuro. Io dico di no.
Credo che il mercato sia fondamentale ma che da solo non basta ed è anzi pericoloso. Occorre l’intervento di altre forze e tra queste c’è innanzi tutto la politica ed è fondamentale per la sorte di certi territori il sistema istituzionale locale, che incide sullo sviluppo, sulla sua qualità e anche sulla quantità.
E anche qui….. cito un libro.
I presidente Pigliaru qualche tempo fa mi suggerì la lettura di un libro americano intitolato “Perché le nazioni falliscono. Le origini di prosperità, potenza e povertà” di Daron Acemoglu e James Robinson, edito da Il Saggiatore.
Il libro inizia descrivendo la condizione singolare di Nogales, città dell’America del Nord divisa in due tra Stati Uniti e Messico. Entrambe le parti abitate da persone di origine messicana, da gente latina non anglofona: una metà di questa città sta in Arizona e l’altra metà sta nello Stato messicano di Sonora.
Le due popolazioni hanno la stessa origine, la stessa cultura generale, gli stessi miti, la stessa religione, eppure le due parti sono completamente diverse: quella dell’Arizona funziona benissimo mentre quella messicana è totalmente inefficiente, ha alti tassi di criminalità, disordine, servizi che non funzionano e così via.
Due città totalmente diverse pur vivendo fianco a fianco.
Gli autori del libro attribuiscono questa differenziazione non al mercato, o alle condizioni naturali, ma alle istituzioni e al loro funzionamento.
Il Presidente Pigliaru, nonostante la lettura di questo libro, non pare dare alle istituzioni lo stesso livello di importanza che gli danno gli autori. Forse per questo sottovaluta quello che sta succedendo attorno alla proposta di legge di cui stiamo parlando, che tratta di Comuni, Unioni dei comuni, Città metropolitane, ma ignora la Regione e le autorità che operano in tanti settori, le istituzioni naturali, i codici di comportamento, le regole che governano le città, perché conta anche il modo con il quale noi sardi affrontiamo l’economia moderna, contano i costi di transazione che sono costretti a pagare gli imprenditori che operano in Sardegna.
Questa tesi non è mia, è di un premio Nobel dell’economia, anche questo americano.
Ci sono costi nella condizione regionale e nazionale di cui si parla tutti i giorni e che si tenta di ridurre con le riforme del mercato del lavoro, con la messa in angolo dei sindacati, con la riforma della contrattazione, con l’eliminazione di quella che si chiamava concertazione a livello nazionale. Tutto ciò che pure fa parte della nostra vecchia cultura politica viene considerato come elemento di pesantezza da eliminare. Ma io non sono sicuro che sia questa la strada migliore.
Io, data la mia età, sono nostalgico e qualche volta penso che molte cose funzionavano meglio prima. Ora dobbiamo concentrare, dobbiamo specializzare, dobbiamo dare ad ogni ambito un governo, e allo stesso tempo continuiamo a spezzare il territorio in tante entità autonome e separate.
Facciamolo pure, ma il rischio che vedo io è grande perché manca una vera governance democratica, perché vengono esclusi dal governo del territorio i poteri locali , le comunità e, in definitiva, la democrazia.
Come dice il mio amico Gustavo Zagrebelsky: «la democrazia è stanca», è molto stanca. Molti non hanno più voglia di andare a votare e forse neanche voi che siete qui e io stesso.
Non è per pigrizia o per cattiva volontà, non perché non riconosciamo il valore della democrazia, ma perché non comprendiamo più il senso della politica, non ci ritroviamo più rappresentati nelle istituzioni, in quello che fanno i nostri eletti, nella rappresentanza democratica che non è più quello che noi vorremmo, non contiene più gli elementi, i valori di moralità, di responsabilità, di intelligenza, di fantasia che oggi sono essenziali per governare la società che sta cambiando radicalmente di segno.
Avviandomi alla conclusione ritorno all’inizio del mio discorso, e riprendo le tesi di Schmitt sulla sovranità in tempi di eccezione.
Chi è il sovrano quando occorre decidere senza perdere tempo evitando che il sistema degeneri in una crisi irreversibile?
Io non condivido la tesi “schmittiana” che ha legittimato il nazismo e indebolito la ragione democratica. Continuo a pensare che la prima cosa da salvaguardare sia la libertà e la democrazia e per questo ritengo che la sovranità debba restare in capo al popolo, che la esercita come dice la Costituzione repubblicana, secondo i principi e le leggi, compresa questa che stiamo oggi argomentando.
La politica si trova ad affrontare problemi di grande complessità e ha difficoltà a stabilire la direzione, senza creare nuovi problemi e anzi spesso percorrendo sentieri ambigui e pericolosi.
In questo quadro dobbiamo dunque collocare il tema del governo del territorio, seguendo la traccia che ci offre il libro della Cabiddu.
Tra le tante suggestioni che ho ricavato dalla sua lettura userò quella provata nel leggere della grande importanza che viene sempre più assumendo la V.A.S. (Valutazione ambientale strategica) che non è la V.I.A. (valutazione impatto ambientale) ma qualcosa di molto più cogente, che comprende insieme questioni tecniche e questioni politiche da non sottovalutare.
Governare il territorio significa innanzi tutto preservare l’ambiente, evitare i più gravi inquinamenti e sconvolgimenti, dare risposte alle esigenze della vita moderna con adeguate infrastrutture, impianti e stabilimenti produttivi, sistemi di raccolta e smaltimento dei rifiuti, reti energetiche e viarie, porti, aeroporti, dighe, condotte, gasdotti e altre infrastrutture invasive molto spesso rifiutate o osteggiate dalle popolazioni che le subiscono.
Tutto questo si aggiunge alla più antica questione dell’uso del territorio a fini edificabili urbani, turistici e industriali, che costituiscono tutti insieme il campo vasto e complesso delle nuove problematiche cui devono far fronte gli enti locali.
A me sembra che la proposta che stiamo esaminando non risponda, se non molto marginalmente, a nessuno di questi ardui problemi né sul piano politico né su quello tecnico, che rimane affidato a agenzie titolate a emanare le V.A.S., senza la dovuta e necessaria valutazione politica generale e locale.
Per queste ragioni io penso che non si possa provvedere a definire una normativa all’altezza dei tempi se non si affronta il problema della sovranità sui beni come quelli dell’ambiente o sull’uso dei suoli ai fini produttivi e abitativi non in termini separati per ciascun territorio comunale o per parti modeste di territorio, governato da piccole unioni intercomunali, ma sulla dimensione più vasta, che come abbiamo detto, in Sardegna quasi sempre corrisponde alla dimensione dell’intera regione.
Tutto questo non fa che confermare l’esigenza di approntare contemporaneamente gli strumenti normativi essenziali e decidere le scelte economiche territoriali, il modello di sviluppo e il modello della democrazia governante, come comunemente si dice oggi. Occorre cioè definire contemporaneamente la legge Statutaria, la legge urbanistica, il piano di sviluppo e infine l’ordinamento degli enti locali, visti nell’orizzonte più vasto e complesso dei nuovi problemi e dei nuovi poteri.
Per concludere questo discorso citerò un altro grande del novecento scomparso nei giorni scorsi, René Girard, un francese emigrato negli Stati Uniti, antropologo, uno dei grandi dell’età moderna.
Girard ha teorizzato l’esistenza due fondamentali atteggiamenti dell’umanità dall’origine dei tempi.
Secondo René Girard l’umanità è dominata da due componenti psicologiche: il desiderio di imitare quello che fanno gli altri, desiderare il bene degli altri, avere quello che hanno gli altri. In definitiva, mimetizzarsi e della ricerca di un capro espiatorio, responsabile delle sofferenze e dei dolori, delle carestie, della peste, di tutto quello che ha ferito il mondo antico e anche il Medioevo ovunque, anche in Sardegna, spesso devastata dalla peste e dalle carestie che hanno ridotto la popolazione nel 1400, a circa 120.000 abitanti, 20.000 fuochi. Sono dati approssimativi ma, ammettendo anche un errore del 50%, eravamo molto pochi. Secondo Girard, l’umanità è uscita da questa condizione con il Cristianesimo, anzi proprio con il sacrificio di Cristo, il capro espiatorio volontario che ne ha decretato la scomparsa.
Ma forse per noi non è proprio così dal momento che con tutta evidenza siamo ancora alla ricerca di soluzioni cosiddette di tipo mimetico, vogliamo fare quello che fanno gli altri, vogliamo essere come gli altri, in Sardegna forse più che altrove, nonostante l’autonomia, nonostante l’autogoverno che ci consentirebbe di essere originali, di scegliere noi l’orizzonte di senso nel quale collocarci, di decidere noi quali siano e come si rispettano i valori fondamentali della dignità, della giustizia e della crescita equa e giusta, chi deve essere responsabile delle decisioni che ci riguardano. In questo senso mi pare che quello che sta succedendo nella politica regionale non si muova sulla strada giusta, non vada nella direzione della più moderna democrazia, non garantisca un buon governo del territorio e un equilibrato, equo e giusto modello di sviluppo.
La speranza è per dirla con il Manzoni: « che il buon senso non sia scomparso ma se ne stia nascosto per paura del senso comune» e che tutto questo che abbiamo detto serva a ridare coraggio a tutto quelli che hanno ancora buon senso.