Di Zedda e Massidda candidati sindaco: no, no e no. E qualche considerazione sul sardismo d’oggi, di Gianfranco Murtas
Si affacciano le prime candidature alla guida dell’Amministrazione civica di Cagliari e nell’affollamento di liste e di nomi sarebbe utile forse, dalla parte della cittadinanza, definire, come in una matrice di compatibilità e preferenze, i parametri elementari di gradimento. Dico la mia, non perché sia cosa importante in sé, ma perché può valere come testimonianza di una elaborazione che gode, e non se ne dispiace, di chiamarsi politica.
Valgano, a premessa orientatrice, alcuni rapidi cenni di una esperienza personale, nel concreto della vita civica cagliaritana e sarda di questi ultimi quarant’anni. Me ne incoraggia anche – lo dico onorando l’uomo e lodando il suo magnifico lavoro autobiografico “Il cugino comunista. Viaggio al termine della vita” (sul quale mi riprometto di tornare nei prossimi giorni) – l’esempio di un mio quasi coetaneo che ha riversato nella militanza politica, con risultati apprezzati, gli anni migliori della sua esistenza, le sue migliori energie intellettuali, la sua passione civile e sociale: Walter Piludu. Mi hanno evidentemente toccato, in particolare, nei capitoli introduttivi, le confidenze circa la sua simpatia adolescenziale per l’area democratica azionista presidiata dai repubblicani di Ugo La Malfa. Piludu dalla democrazia liberale al comunismo, come Giorgio Amendola giovane, nella temperie della dittatura in fasce, transitato dal liberalismo sociale del padre (di Giovanni Amendola cioè, assassinato dai fascisti, e degli uomini della Unione Democratica Nazionale, ivi compresi, con il giovanissimo Ugo La Malfa, uomini come Mario Berlinguer e Francesco Cocco-Ortu sr. e molti massoni nazionali e sardi) al comunismo allora in conversione, certo non nobilitante, dal gramscismo al togliattismo.
La generazione anagrafica di Piludu è la mia stessa, ho detto. E l’evocarla mi riporta agli anni della mia prima militanza nella Federazione Giovanile Repubblicana, a Cagliari, e con essi risveglia la memoria di molti amici generosi e perduti troppo presto, nel più vasto arco delle interlocuzioni e mutue collaborazioni: da Gianni Bonanno, della FGCI, a Francesco Putzolu e Gigi Dessì, della GLI, ai miei repubblicani Roberto Dessì ed Enrico Ruggeri, meritevoli tutti, per l’eccellenza del genio e della partecipazione, di ben altra sorte. Ci formammo allora, con i socialisti (Beppe Attene allora) e i socialdemocratici, con i sardisti (in testa Michele Schirò), e appunto con i comunisti e i liberali, anche con i democristiani (morotei non ciellini per fortuna), e noi pochi-pochissimi repubblicani giovani.
Funzionava da sponda alla pratica della parola, quella del foglio scritto che la “pagina dei giovani” de L’Unione Sarda accoglieva con avarizia talvolta, con maggior prontezza in altro momento. Con le firme della nostra ecumene democratica che turnavano, garantite da Gian Tarquinio Sini e Lucio Lecis, il maggiore dei nostri fratelli. Il grosso di quelle firme, non l’intero, veniva dai movimenti giovanili dei partiti, ed erano contributi di qualità chi più chi meno, ma certamente erano la testimonianza degli standing di una nuova generazione che stava venendo su. Maturava allenata agli echi delle grandi cose del mondo, com’erano allora – attorno al 1968 e dopo – le guerre arabo-israeliane, il conflitto tragico del Vietnam, quell’altro fra indiani e pakistani, l’ecatombe del Biafra, ma anche la conquista della luna, e da noi l’autunno caldo, il regionalismo all’esordio nazionale, la legge sul divorzio, la caduta del collateralismo aclista e la crescente inquietudine cattolica, certo radicalismo dottrinario e inconcludente del tipo Servire il popolo, e nel negativo-pessimo le deviazioni dei corpi dello Stato e l’inizio della stagione bombarola prima di quella terroristica…
L’Unione Sarda a direzione Crivelli, ancora piegata a valutazioni prudenziali certo eccessive – ci sarebbe voluto Tuttoquotidiano ad animare l’ambiente giornalistico isolano –, ci concedeva degli spazi ed ecco intelligenze purissime come Antonello Mascia (ma anche Gigi Dessì) scrivere di argomenti tabù, come la giustizia militare o l’obiezione di coscienza…
Accompagnavano quelle nostre prime prove dell’età adulta, negli anni ancora degli studi, altri giornali locali che forse soltanto le persistenze – nonostante tutto! – delle divisioni ideologiche impediva ad una parte di apprezzare pienamente. Faccio ammenda per me stesso, riferendomi a Rinascita Sarda – periodico del PCI ad iniziale direzione di Umberto Cardia, poi di Giuseppe Podda, con il giovanissimo Sergio Atzeni al debutto –, che ho potuto compulsare con speciale attenzione e anche censire in tempi recenti, a partire dalla stagione di esordio della legge 588, che disegnava anche un possibile nuovo rapporto fra Stato centrale ed autonomia speciale, fra politica di piano nazionale e programmazione regionale (esordiva allora il centro-sinistra con La Malfa al Bilancio e Programmazione economica).
La qualità del dibattito politico era inimmaginabile a confrontarla con quella scadentissima d’oggi. Che qualità di cultura e di pensiero e di visione! Con Giovanni Battista Melis deputato con competenza omnibus e passione di statista, con la crisi del sardismo condizionato in crescendo dalle suggestioni nazionalitarie e indipendentiste di Antonio Simon Mossa, con la crisi del socialismo dogmatico del PSIUP (e del lussismo), con le rapsodiche ambivalenze sofferte del PSI fra spinta social-sindacale e responsabilità di governo (durante e dopo la scissione social unitaria), con le contraddizioni della galassia democristiana dopo la rottura dorotea ed il passaggio finale di Moro alla sinistra del partito e la graduale sua riconquista maggioritaria in vista della unità parlamentare in chiave antinflattiva e, tragicamente, antiterroristica. La qualità del dibattito politico anche dentro un PCI che scontava l’insopportabilità del centralismo democratico sino agli affanni successivi dell’eurocomunismo, le crescenti divisioni interne gestite con autorevolezza, dopo le segreterie post-togliattiane di Longo e Natta, da un Berlinguer leader riconosciuto e coraggioso nelle strategie di lungo periodo, secondo la logica della progressiva affrancazione dall’influenza del partito fratello sovietico e dell’accettazione dei patti occidentali.
Grande storia, grandi scenari in cui ciascuno potrebbe collocare il tanto (e non importa se minimo) della propria partecipazione, ora di cittadino (elettore e contribuente), ora anche di militante. Lo faccio, con un flash anch’io, ripensando alla mia Federazione Giovanile Repubblicana, piuttosto sempre dialettica, anche in Sardegna, con il partito – partito di estrema minoranza, in cui al nucleo storico mazziniano si erano associate la militanza popolare uscita dal PSd’A e quella dei giovani lamalfiani di sensibilità azionista –, nel tempo che fu quello della leadership di Armando Corona (amico mio personale, non sempre, tanto meno nel poi, le nostre valutazioni e propensioni erano però coincidenti). Tiravamo calci soprattutto guardando alla concentrazione della stampa nelle mani della petrolchimica e a certa politica ambientale che, nonostante la prossimità a noi di Antonio Romagnino e Raniero Massoli Novelli, ma anche della stessa sovrintendente Asso – per non dire ovviamente della stella del ministero neofondato per i Beni culturali e ambientali –, restava di fatto in subordine ad altre opzioni.
Massidda. Venne la stagione di altri giovani militanti e dirigenti – da noi sempre militanti-dirigenti, come nel glorioso Partito d’Azione della resistenza –, e furono i tempi di amici che poi nella vita hanno fatto grandi cose nei campi loro propri, da Roberto Pianta – oggi preside dell’Istituto professionale Pertini – ad Aldo Borghesi – professore di lettere a Sassari ed esponente di punta della cultura storica dell’antifascismo gielle e della autonomia. E vennero poi anche altri, da Franco Turco a Piergiorgio Massidda, a Massimo Deiana – divenuto poi preside di Giurisprudenza e attuale assessore regionale. Con loro ulteriori altri – la generazione delle discoteche – personalità vivaci, intelligenti, abili, amici-compagni protagonisti o coprotagonisti anche nei congressi del PRI, in qualche momento perfino decisivi circa le scelte finali… Mentre, naturalmente, ciascuno – maturando d’anni – maturava anche scelte di vita personale e professionale. Politicamente si seguivano i cambiamenti della scena, e nel proprio partito – di cui talvolta essi avevano assunto ruoli preminenti – si registrava il passaggio dalla segreteria Spadolini a quella di Giorgio La Malfa, aderendo perfino, nel 1991, alla linea del rifiuto di partecipare ancora a governi a guida democristiana/andreottiana per… misura colma.
Poi la incerta confluenza repubblicana in Alleanza Democratica, poi i governi tecnici di Amato e Ciampi – quest’ultimo con Maccanico a Palazzo Chigi –, appoggiati dal PRI/Alleanza Democratica, poi ancora la riforma elettorale e l’esordio del maggioritario, e l’ansiosa e garibaldina, spregiudicata, talvolta amorale composizione delle liste.
Fossi vissuto nel 1924… Ho capito la storia del fascismo, la genesi del partito-regime di settant’anni prima, più in poche settimane del 1994 che nel lungo tempo precedente passato sui libri di storia del Novecento. Vincevano le categorie dell’opportunismo e del conformismo, per cui poteva capitare, a mascherare l’infedeltà, di riportare il fascismo alle categorie nobili una volta del socialismo, un’altra del mazzinianesimo, un’altra ancora del conciliatorismo nazionale o giolittiano o del cattolicesimo sociale dei corpi intermedi, nascondendo a sé invece l’intima rozzezza intellettuale della nuova produzione e l’abbrutimento del senso dello Stato. Tutto questo entrava nella considerazione del cittadino officiato al concorso elettorale, o anche soltanto alla militanza del partito presto unico, scaldandogli il cuore per un personale felice futuro da ras, non importa il rango.
La barbarie valoriale, tutta prepolitica, cominciò allora e nel frullatore indecente entrarono, per dire nomi ancora oggi a galla, Cicchitto e Brunetta, per i quali Filippo Turati e Berlusconi pari erano. Dalla sponda repubblicana – evidentemente non ideale ma puramente pratica – il salto fu di molti e mi dorrebbe troppo l’elencarli e pensarli affiancati, per dire un altro nome di altra famiglia, a un Giuliano Ferrara già stalinista (come Bondi), già craxiano intemerato, in divisa ora di forzista predicatore.
Potevano bastare le parole pronunciate a Palazzo Madama il 17 maggio 1994 da Giovanni Spadolini – da storico, da democratico, da uomo delle istituzioni – per far vergognare un cosiddetto repubblicano (ripeto di tessera, non di idealità) giulivamente in fila per votare il peggior governo che l’Italia si dava giusto nel cinquantesimo del primo esecutivo di CLN, quello con il nostro Stefano Siglienti ministro delle Finanze, lui GL ed azionista sassarese, da quattro mesi libero (per evasione) dal campo di prigionia nazista di Roma.
Massidda ora candidato sindaco di Cagliari, era lì a votare la fiducia al governo sconcio in cui si voleva dare all’avv. Previti la titolarità della Giustizia (e tale sarebbe stato senza il no assoluto e insormontabile del presidente Scalfaro). Votò la fiducia anche numerose altre volte dopo, con l’avv. Previti ricandidato ancora e ancora in quella perla di partito pur se in un tribunale della Repubblica, negando la natura corruttiva di una parcella stratosferica incassata dal suo studio (mi pare 67 miliardi di lire), aveva però ammesso essersi trattato di evasione fiscale. Eppure Forza Italia con il suo dominus, il più illustre (per autocertificazione) presidente del Consiglio dell’intera storia unitaria italiana – più di Cavour, più di Giolitti, più di De Gasperi –, s’era presentata al Paese come l’ideale bonifica del malaffare di Tangentopoli in tutte le sue versioni nazionali e locali…
La schifezza delle leggi mirate non all’interesse generale, ma a quello di casta e d’azienda, ha prodotto o favorito o accentuato uno scadimento dello spirito pubblico, del sentimento diffuso verso le istituzioni che ha impressionato il mondo e smidollato una parte larga della popolazione, negato ai ventenni di oggi anche soltanto l’idea di cosa voglia dire la parola “politica”. Nei giorni in cui dalle istituzioni politiche e finanziarie dell’Unione Europea venivano le lettere di richiamo e disposizioni di risanamento istantaneo dei conti pubblici, tutta la maggioranza arlecchina, con ministri e sottosegretari precettati, era lì, in Parlamento, a votare… l’urgentissima, improcrastinabile legge sul tempi dei processi.
Non c’è molto da aggiungere: ho pubblicato più volte, anche nel sito di Fondazione Sardinia, quel discorso di Giovanni Spadolini, al quale il nuovo padrone del campo politico aveva sbarrato la strada della conferma alla presidenza del Senato, ritenendo che le cariche apicali dei rami parlamentari competessero agli uomini organici alla sua coalizione. Votò la fiducia a quel governo e a quanti altri, peggiori l’uno dell’altro, Massidda che aveva avuto la tessera repubblicana, quella dell’edera evocante la Giovine Europa mazziniana, stracciata in un quarto d’ora per altre opportunità, anche per il canto corale di “per fortuna silvio c’è” (tutto al minuscolo). Massidda coordinatore regionale di Forza Italia come Paolo Pili ben nato nel sardismo (e geniale cooperatore), era stato federale di Cagliari-Oristano del PNF e, per merito di tessera, deputato e direttore de L’Unione Sarda, commissario del Consiglio dell’economia e altro ancora, fino al golpe del 1927-28. Ma può contare qualcosa tutto questo in una matrice dei parametri di merito e compatibilità per la scelta del nuovo sindaco di Cagliari?
La destra – con il plauso di tanti altri che nella cosiddetta prima repubblica avevano militato in formazioni deboli elettoralmente ma nobili per storia e l’apostolato dei suoi maggiori, da Mazzini e Cattaneo a Bovio, da Colajanni difensore della Sardegna dalle letture lombrosiane del Niceforo, fino a Conti e Ugo La Malfa (coscritto in Sardegna nel 1926, nel reparto di San Bartolomeo destinato agli antifascisti, prima di essere da civile rinchiuso 25enne a San Vittore)– ha mischiato, per quanti anni! ai populisti del deodorante proprio i neofascisti addensati in Alleanza Nazionale ed i patrioti padani per il quali il tricolore era degno dell’indecenza e l’inno di Mameli destinato alla rottamazione per eccesso di romanità. Massidda applaudiva giulivo. Applaude, mi dicono, a Bovio. Ma Bovio, onorato nella Cagliari bacareddiana tanto da avere il suo monumento come l’ebbero in quegli anni Verdi e Dante e Giordano Bruno, e onorato oggi nella sede massonica di palazzo Sanjust da chi sa chi è stato, aveva una storia morale esattamente opposta a quella dei ras che con Forza Italia ed i paggi del nulla hanno sgovernato questa nostra vera patria per tanto tempo, fino a ridurci adesso a pensare che anche Matteo Renzi, confrontato con i predecessori, possa valere uno statista.
La destra ha regalato a Cagliari il ripascimento del Poetto, ha regalato un’infinità di chiodi piantati sul calcare dell’anfiteatro romano. Quale considerazione potrebbe mai averne da chi ama la città? Che giudizio ne avevano il professor Lilliu, il professor Romagnino, entrambi insigniti del titolo di Defensor Karalis?
Zedda. La coalizione del centro-sinistra, espressione dell’area nella quale, fin dalla mia adolescenza, mi riconosco – perché le idealità non sono mai riducibili a pedine tattiche o a porte girevoli – credo abbia sviluppato, in questi anni passati, una amministrazione complessivamente positiva della città, pur se non sono mancate le cadute sia di stile, nella interlocuzione civica, sia in talune scelte materiali compiute sul territorio. Le sue maggiori debolezze sono state, a mio parere, negli uomini, il che è sorprendente quando si consideri che la larga parte dei consiglieri della maggioranza, espressione di tutte le sue componenti, si sono rivelati – soprattutto i giovani – all’altezza, preparati nel lavoro di commissione e in quello di aula, direi anche presenti o assidui nei contatti con la cittadinanza, nei luoghi via via scelti per il confronto di opzioni anche tecniche (non così in piazza San Michele però). Con l’eccezione eclatante del verbosissimo presidente dell’assemblea, arrivato a farsi dettare perfino la scaletta da terzi nel giorno del conferimento della cittadinanza onoraria al rettor maggiore dei Salesiani, proprio diminuendo il rango espressivo del Consiglio, e con l’eccezione del sindaco Zedda.
Mi riferisco a quest’ultimo. Alle scorse elezioni non votai al primo turno per una certa insoddisfazione generalizzata anche sulle formazioni dello schieramento di centro-sinistra; al secondo – quello del ballottaggio per la responsabilità di sindaco – scrissi alcuni articoli invitando i repubblicani fedeli all’idea a considerare il sostegno al nome di Massimo Zedda, non essendo compatibili con i nostri valori quelli dell’area democristiana-berlusconiana portatrice della candidatura Fantola (e certo al di là di ogni considerazione sulla persona, degnissima e da me stimata).
Zedda ebbe un grande successo elettorale, certamente non per merito mio né dei dieci o cento voti dei repubblicani. (Peraltro un repubblicano di valore, compatibilmente inserito nei quadri del PD, è nel Consiglio e nella maggioranza: Tanino Marongiu). Ma proprio per questo affidamento alla sua persona mai avrei immaginato che quando si trattò di dare a don Mario Cugusi il riconoscimento civico – ripeto civico, pari a quello che il sindaco di Firenze dette a don Enzo Mazzi fondatore dell’Isolotto – per i mille servizi da lui offerti, lungo trent’anni (diecimila giorni! uno dietro l’altro) come educatore ed operatore di cultura e socialità nelle opere dell’inclusione oratoriana degli stranieri e in quelle della scuola di recupero e di alfabetizzazione, così come in quelle dei felici scavi archeologi e della raccolta della memoria storia millenaria della Marina di Cagliari – si ritraesse. Non voleva urtare la suscettibilità dell’arcivescovo Mani, l’arrogante che don Cugusi aveva punito sollevandolo, per schiena troppo dritta, dalla presidenza parrocchiale di Sant’Eulalia. Ma che c’entrava l’arcivescovo (fortunatamente uscente, per delibera rapida di Santa Sede) in una questione tutta municipale dove andavano considerati l’area archeologica ed il museo, le dinamiche interetniche e la scuola? A Firenze un’amministrazione dalla schiena dritta (in degna successione del repubblicano Lando Conti assassinato nel 1985 dalle BR) rispose al muso lungo della curia metropolitana – era il muso del chiacchieratissimo vescovo vicario generale del tempo – per quel fiorino d’oro offerto a don Mazzi. Don Cugusi non era stato anche lui un benemerito della città di Cagliari?
Potrei ricordare brevemente ma partitamente quanto successe a Firenze, per confrontarlo con quel che avvenne da noi. Quando nel 2006 salì dalla città al Municipio la proposta di riconoscimento pubblico a don Mazzi (e a don Sergio Gomiti) si levò la voce dell’ausiliare, per conto del cardinale Antonelli; il sindaco in un primo momento temette di premiare una personalità certo superiore, ma (proprio per questo) dividente. Poi si alzò l’arcivescovo emerito, il cardinale Piovanelli, prete della scuola Milani-Turoldo-Balducci, che andò all’Isolotto per confermare la sua stima a quel riferimento dei poveri e degli irregolari fiorentini: «Quello di Enzo Mazzi è stato un impegno sociale notevole e un riconoscimento come il ‘Fiorino’ avrebbe certamente il suo significato». Per subito aggiungere: «Che c’entra la Curia? Se il Comune lo ritiene, giudichi e lo dia; quello religioso e quello politico sono due campi distinti» (cf. Adista, 20 novembre 2006, not. 25.584; Micromega, 31 ottobre 2011).
Il cardinale Silvano Piovanelli più laico del sindaco Zedda, comunista chissà di quale (inimmaginata) ortodossia! E’ cosa che conta il rilevarlo. Tanto più quando si consideri la biografia di quell’illuminato arcivescovo (oggi 91enne), ordinato prete da un monumento come Elia Dalla Costa e sperimentato educatore negli anni della sindacatura, a Palazzo Vecchio, di Giorgio La Pira. Per dire la temperie, e la perdita d’oggi…
Come potrebbe Massimo Zedda dare onore, nel 2016 e per altri cinque anni, alla laicità del municipio che era stato di Ottone Bacaredda? Quel sindaco che negli anni del suo mandato parlamentare, conservando però lo stallo di consigliere, aveva steso, nel lontano 1903, un certo ordine del giorno d’appoggio alla concessione al Capitolo dei canonici del contributo richiesto per i funerali di Leone XIII, aprendolo – l’ordine del giorno – con un riferimento a Roma intangibile, a Roma degna capitale d’Italia, non prigione del papa come ancora i monsignori cagliaritani (ovviamente senza crederci) sostenevano…
Zedda non lo voterò mai più, non mi pare che al dunque abbia mostrato indipendenza da luoghi, peraltro forse soltanto supposti, prevaricatori . Naturalmente non ho né veste né autorità per proporre un sindaco democratico e di cultura per Cagliari, anche se ho scritto altre volte che mi piacerebbe molto Maria Antonietta Mongiu, se attorno a lei si fosse capaci di allestire una squadra di collaboratori e di assessori e presidenti di commissione all’altezza, proprio valorizzando anche molti talenti presenti nell’attuale Assemblea civica. E le mie osservazioni finiscono qui.
I sardisti. Non credo abbia né meriti, in quanto terzo fronte alternativo ai primi due, alcuna chance il Partito Sardo d’Azione, che dopo i lunghi anni di piazzate indipendentiste e di pochezza politica come l’ha saputa produrre la leadership di Giacomo Sanna, avrebbe da meditare per secoli prima di riprendersi gli onori che la sua storia esigerebbe.
Non dovrà passare sotto silenzio che siamo giusto ora alla vigilia del quarantesimo della morte di alcuni dei grandi di quella storia, da Anselmo Contu e Camillo Bellieni, a Titino Melis, passando per lo stesso Emilio Lussu. Rara concentrazione di lutti, quel passaggio da 1975 a 1976, una cesura drammatica – io così l’ho vissuta – nelle vicende sardiste del Novecento.
Quale storia! prima delle derive nazionalitarie-nazionaliste senza prospettive e senza costrutto, senza attenzione al buon governo corrente per le preferenze indirizzate a nebulose programmatiche tutte ideologiche, in accelerata dal 1981… Trent’anni sprecati, con l’eccezione – mi sento di sostenerlo – di quelli della presidenza di Mario Melis, soprattutto per la statura dell’uomo in cui il sardismo (ma soltanto di vertice) si identificava. Perché Mario Melis aveva la statura dell’uomo di stato, lui sì, come suo fratello Titino deputato dal 1948 al 1953 e dal 1963 al 1968.
C’è oggi qualche sezione intitolata ai Melis, a Contu e Bellieni. Ma se facessimo una interrogazione ai sardisti d’oggi, ai giovani sardisti, quanti saprebbero dirne il valore, rivelarne i legami con Giustizia e Libertà, magari con l’azionismo, magari con l’italianismo democratico di Comunità (1958), o del PRI (dal 1921 al 1968)? Perché la militanza di un partito e la traduzione pratica delle sue opzioni non può che radicarsi in una cultura, nella conoscenza e nella condivisione appassionata dei suoi principi fondativi.
Il disastro valoriale immesso nelle vene sardiste dalla scadentissima segreteria/presidenza di Sanna , con il tanto che aveva d’attorno, si è rivelato nell’immenso pianeta quando s’è arrivati alle alleanze a destra, con i parafascisti e gli uomini del deodorante, o della Padania felix e dei democristiani scotti della legge sui campi da golf. M’immagino Anselmo Contu, il galeotto di Giustizia e Libertà nel 1931, m’immagino Titino Melis galeotto anche lui, per la giusta Italia, tre anni prima. «Per l’unità vera dell’Italia!», concludeva i suoi discorsi Titino Melis a Montecitorio.
M’immagino i tanti della militanza e della dirigenza che, anche senza eroismi, seppero nel tempo della dittatura e, dopo, in quelli della costruzione della Repubblica “nata dalla resistenza” – Elena Melis mi chiedeva gli elenchi dei patrioti sardi sul continente, sulla scia di Piero Borrotzu – e dell’Autonomia speciale, e anche dello sviluppo delle politiche repubblicane e regionaliste, difendere prima di tutto l’onore di una bandiera. Una bandiera che pur mossa dai venti dell’interclassismo popolare, certo mai avrebbe potuto affacciarsi (e tanto meno essere capita) dalla destra, fosse anche quella pur onorevole di Brotzu, figurarsi da quella facilona di Cappellacci e superiori…
La stima per un intellettuale e un galantuomo di tante onorevoli ascendenze anche familiari, come è Giovanni Columbu, non fa disperare certo che la sua fatica ricostruttiva qualche risultato possa produrre nel tempo, ma certo rimane il dubbio che senza il coraggio di una rettifica importante di alcuni fondamentali per ritornare alle origini – come fece la Chiesa con il Concilio quando saltò duemila anni di sovrastrutture costantiniane per tornare alle fonti evangeliche e patristiche – i risultati saranno precari.
Proprio in vista delle prossime elezioni comunali forse il Partito Sardo potrebbe concentrare i suoi sforzi, nella prospettiva della riconversione al pragmatismo amministrativo che fu di Giovanni Battista Melis, consigliere comunale a Cagliari dal 1956 al 1975, del quale ho pubblicato tempo fa, oltreché le memorie autobiografiche ed insieme con tutti gli interventi parlamentari, anche una ampia selezione dei discorsi pronunciati al Consiglio regionale e, appunto, in Municipio.
Note importanti, relativamente alla città di Cagliari, al suo presente e al suo futuro,sono contenute anche nelle pagine autobiografiche. E se certo non si tratta di accogliere tutto acriticamente – non lo avrebbe voluto neanche lui – è però indubbio che chiaro rimane l’asse portante della sua visione del capoluogo come città-regione. Motivo di nuovo studio, per tutti gli aggiornamenti imposti dalla storia, delle fatiche del direttore regionale sardista, tale da impegnare per lunghi anni, prima di un nuovo affaccio elettorale anche soltanto amministrativo. Ché l’amministrazione dovrebbe pur essere figlia della politica.
A proposito. Perché noi anime democratiche non formalizziamo (io mi sono speso per la cosa ripetutamente ma sempre vanamente) una richiesta al Municipio per una intitolazione nella toponomastica, oppure nei compendi sociali o culturali del Comune, ai nomi onorati di Ugo La Malfa e Giovanni Battista Melis – amici-compagni dai tempi della comune detenzione giovanile a San Vittore per la causa della nostra libertà – che la nuova Cagliari, sbalorditivamente, non conosce?
By salvatore cubeddu -gianfranco murtas, 5 dicembre 2015 @ 16:54
Caro Gianfranco,
credo che non ci sia bisogno che il direttore di questo sito ricordi che le libere opinioni politiche qui espresse – e quanto teniamo a questa libertà! – rappresentano coloro che le esprimono e non impegnano i componenti dell’associazione che questo sito segue e pubblica.
Due informazioni: la sezione sardista di Cagliari è dedicata a Titino Melis da quasi quarant’anni, rimasta tale anche nel periodo che tu (e pure io) descrivi come il più oscuro dello PSd’Az.
Quanto al binomio a te caro di Ugo La Malfa – Titino Melis, voglio solo richiamare quanto ‘tu sai quanto me’: che litigarono a motivo delle teorie nazionalitarie-indipendentistiche di Antonio Simon Mossa (ma non solo per questo: anche sulla questione della cancellazione della società sarda dell’elettricità, Irsae, e per il V centro siderurgico, che Titino chiedeva per la Sardegna).
Un caro saluto SALVATORE CUBEDDU
P. S. Chi ci segue – ma io stesso che scrivo – noterà le mie precisazioni quando tu scrivi di sardismo e (contro l’)indipendentismo. Non darti pena: continua pure ed anch’io … continuerò.
Caro Salvatore,
immaginati se non conosco i passaggi che richiami. Te ne potrei richiamare anche altri, che ora ti sfuggono: per esempio sulla riforma del Senato, che il PSd’A voleva su scala regionale e il PRI no. Quello fu un contrasto che, a mio parere, si legava – a proposito di bicameralismo perfetto – alla riforma regionale che ancora non era pronta nel 1968, quando fu formalizzata la rottura del sodalizio politico-elettorale, non ideale, di tanto sardismo (nel quale restavano, e però con quante riserve, uomini del livello di Luigi Oggiano ed Anselmo Contu, e non cito il caso di Pietro Mastino!) dai repubblicani.
Quella riforma – rivelatasi per tanti versi malfatta (certo meritevole di molta autocritica da parte dei regionalisti per primi!) – avrebbe esordirto di fatto soltanto nel 1970. Io credo che, sul punto, i sardisti avessero ragione – penso alla pariteticità delle rappresentanze, sul modello americano – ma non valutassero utilmente, e cioè realisticamente, la tempistica. Ma più probabilmente la questione fu che il patto s’era rotto per altre e più larghe ragioni, politico-culturali da una parte (nazionalitarismo in salita di Antonio Simon Mossa) e, dall’altra, di riconoscimento dubbio o mancato dei portati elettorali di parte della dirigenza che si sentiva, a torto o a ragione, marginalizzata. Mi ha sorpreso piuttosto che da parte del PSd’A
- in questi mesi trascorsi in cui si è parlato tutti i giorni di riforma costituzionale del Senato della Repubblica – non sia venuta la rivendicazione di un giudizio anticipatore… Forse i sardisti di oggi non sanno davvero cos’era il sardismo di ieri, anche quello del 1968. Il che però confermerebbe l’assunto che tu contesti.
Sulla questione dell’ente sardo di elettricità, senza adesso volerne rifare la storia – tanto più relativamente al punctum dolens dell’ipotizzato ricorso alla Consulta da parte della Regione, secondo l’istanza sardista, in coincidenza con l’inizio operativo dell’Enel, dunque nel quadro della pubblicizzazione delle fonti di energia, primo passo riformatore della politica di centro-sinistra – tutto andrebbe ricondotto, a mio avviso, alla portata generale della riforma, che puntava a eguagliare i territori dell’intero paese, affidando dunque ad un unico ente la politica di produzione e distribuzione. Lo strumento della nazionalizzazione, imposto dai socialisti, non fu condiviso dai repubblicani, che pur lo accettarono infine, nel nome della grande politica riformatrice che il centro-sinistra di Moro, Nenni, Saragat e Reale (o La Malfa) prometteva. Io credo che gli statisti avrebbero dovuto avere questa visione generale, valutando sempre vantaggi e svantaggi.
Circa il V centro siderurgico finito a Reggio/Gioia Tauro, dopo il IV di Taranto – patria del cancro diffuso – esso si situa in un pacchetto pro-Calabria seguito ai famosi moti popolari dei primi anni ’70. Quello precedente, di Taranto, fu accolto dai pugliesi che potevano contare su una lobby politica (parlamentare e governativa) a sostegno dei loro interessi (o di quelli ritenuti tali!) che arrivava al presidente del Consiglio Moro. Col senno di poi – per come sono andate le cose anche della nostra grande industria sporca (Porto Torres, Assemini, Ottana
ecc.) – non so quanto l’acciaio, magari al posto dell’alluminio, avrebbe fatto la fortuna del nostro territorio non rovinandolo neppure nell’aria e stabilizzando gli occupati operai e tecnici, nonché favorendo le verticalizzazioni produttive.
Circa gli aspetti ideali, io che non amo i fasciomori, i quali in cambio del miliardo puntellarono e anche incarnarono la dittatura, mettendo sullo stesso piano e barattando i pur sacrosanti diritti economico-sociali e quelli fondamentali dell’uomo (!), credo che la generazione dei Lussu e dei Bellieni, dei Mastino e degli Oggiano, dei Contu e dei Melis (fino a Mario!), ecc. – personalità pur così diverse per tanti aspetti l’una dall’altra – fosse portatrice di una sensibilità etico-politica che sposava sì la storia del loro tempo, ma testimoniava valori che non finiscono nel tempo: era quella una storia che vorrei continuasse in questo nostro tempo per le virtuosità ideali oggi drammaticamente perdute a destra come a sinistra e sostituite con l’impero del mercato e della pubblicità.
E che il PSd’A abbia mantenuto la intitolazione della sezione X a Titino Melis è cosa che so e non mi sorprende ed apprezzo. Ma vorrei che Titino fosse conosciuto, studiato in tutta la sua complessità e anche nelle sue contraddizioni politiche, come pure nella sua infinità generosità di uomo e di professionista lungo l’intero arco della sua vita, certamente
- te ne tranquillizzo – fino al 1976 e non fino al 1968 o al 1963, quando divenne deputato con i resti dei voti repubblicani (dei mazzinaini e degli azionisti) raccolti nella Romagna, nel Lazio, in Piemonte e in Campania. Se ve ne fossero, di giovani sardisti capitati non so perché nel PSd’A di Giacomo Sanna e comunque rimasti in quello di Giovanni Columbu, interessati a studiare la figura e l’opera di Titino Melis, avvertili che sono dispostissimo a favorire, con quanto posseggo come custode di carte, la loro ricerca. Lo studio è bello porlo al servizio della causa: e la causa per me resta sempre la democrazia, e nella democrazia la patria italiana e la Sardegna cuore dell’Italia, nel sogno di una Europa dei popoli.
Questa stessa, io lo so, era la causa politica – rimodulala come vuoi, questa resta nella piena sostanza – di Giovanni Battista Melis ed era la stessa anche di Ugo La Malfa, siciliano galeotto per antifascismo a 25 anni nello stesso carcere del 23enne nostro cavaliere senza macchia e senza paura, che viveva da studente lavoratore e frequentava quelli della Giovane Italia clandestina nel 1928. C’è il tanto da poterne concludere che, pur nella dialettica cinquantennale, di sodalizio anche umano si poteva parlare, dicendo dei due leader, ai quali vorrei fosse intitolato qualche compendio di cultura democratica, se non una strada, a Cagliari che invece ha voltato pagina.
Ma mentre noi mosceerini dibattiamo di queste nostre cose – tutte nobili peraltro – resta che sulla maggior scena si disputano la leadership della rappresentanza civica due personalità che per diverse ragioni non meritano, a mio personalissimo giudizio, il credito cittadino. Massidda non ha chiesto perdono, prima di esiliarsi, per aver imposto all’Italia (dunque anche alla Sardegna e a Cagliari – la povera Cagliari massacrata dalla destra all’anfiteatro e al Poetto) il peggio del peggio che la classe parlamentare poteva offrire lungo due decenni surreali, Zedda ha mostrato la schiena piegata (nessuna dignità municipale) nella questione Cugusi, attendendo placet da personalità intimamente (altri, sfacciati,
dicono: palesemente, al vanto!) reazionarie.
Tutt’attorno ci sono i democristiani cosiddetti riformatori (di fatto democristiani che si vergognano di chiamarsi tali) che cercano alleanze coi similfascisti del riciclo continuo anche fra le giovani generazioni, e quegli altri del salotto Passera. Mi parlano bene di Lobina. Si tratta di capire cosa vuol dire, nel suo vocabolario ideale, “autodeterminazione”. Perché in politica credo non esistano soluzioni
unilaterali: come società siamo sistema nato. Il problema delle dipendenze va convertito, secondo me, in un ambito di partnership virtuose.
Caro Salvatore, seguiamo la scena. Ho visto nella maggioranza uscente tante personaliltà di ottimo livello ed ho visto anche, in città, tante opere pubbliche di qualità. Vorrei dare conferma di fiducia al centro-sinistra, ma Zedda candidato mi costringerà al non voto.
Abbracci, gianfranco murtas