Un palazzo ottantenne, sempre nuovo, nel cuore di Cagliari, di Gianfranco Murtas
Alle ore 17 di domani giovedì 26 novembre, nella sede di Intesa-Sanpaolo, una mostra fotografica ricorderà gli ottant’anni dalla inaugurazione del palazzo che ospitò, giusto dal novembre 1935 al 2003, gli uffici del Banco di Napoli. L’articolo che segue presenta la traccia di una storia che non è soltanto la storia, pur ricca, di un palazzo dalle molte virtù architettoniche, ma di un’intera epoca di vita cagliaritana.
C’era una umanità oggi scomparsa, nel Largo Carlo Felice della nostra Cagliari. Nei giorni feriali – sabato escluso – trovavi, passando di mattina alle otto (o magari nel dopopranzo, di primissimo pomeriggio), in risalita dalla via Roma verso la piazza Yenne, o in discesa da Stampace alto o dalla via Manno giù verso la stazione dei treni o dell’ARST ed i capolinea dell’ACT, degli assembramenti salottieri, o di lettori dei giornali, sovente più sportivi che economici. Avveniva a ridosso delle sedi delle banche tutte concentrate nella little city nostra, così lungo un buon mezzo secolo: in sommità, nella torre Dalmasso e dal 1956, quelli del Banco (poi Banca) di Roma, quindi, dirimpetto gli uni agli altri, quelli della Comit e del Banco di Napoli e quegli altri del Credito Italiano, e più giù, verso la Rinascente, dal 1960, i colleghi della Banca d’Italia e della Banca Nazionale del Lavoro. Soltanto gli impiegati degli istituti regionali – il Banco di Sardegna e la Popolare (ex Popolare), ma anche il CIS, e gli ultimi arrivati della CARIPLO e del Sanpaolo – pazientavano altrove, prima di entrare, come una fiumana diritta verso il dovere quotidiano – sportello o retro sportello o scrivania o telescrivente poi fax prima degli aggiornamenti tecnologici – , all’apertura, per mano del personale di vigilanza, di portoni e cancelli.
Il cuore è nel Largo. Le fusioni dei vari istituti di credito ha rifatto la geografia non soltanto delle compagnie ma anche dei dipendenti, spostando questi qui e gli altri là, confondendo le insegne sugli ingressi, inventandone di nuove ed abbattendo i numeri dei partecipanti, perché le nuove soluzioni operative e le economie di scala realizzate con le combinazioni societarie hanno tolto, quasi quasi, gli zeri finali, e i duecento sono diventati venti, i cento appena dieci. Una generazione anche, o due forse, hanno ceduto il passo, già involandosi i più anziani, ritraendosi in una quiescenza talvolta anonima e sconsolata i tanti, neppure così datati, costretti al ritiro dalle logiche previdenziali personali e del conto economico aziendale. Così ai cinquecento impiegati delle sei banche (tardi si è aggiunta anche la CARIGE) impiantate sui fianchi del Largo si sono sostituiti i sessanta o settanta d’oggi che, efficientisti e sfortunati di per sé, senza più il gusto dell’appartenenza, non fanno colore né capannelli ed hanno altri modi di organizzarsi i tempi dell’attesa. Tutti cugini, una volta, i bancari delle ditte concorrenti (chiamate per sigla, cancellando le preposizioni); erano puri e semplici commessi di negozio compagnoni, nel Largo cagliaritano, lo sono stati lungo un buon mezzo secolo.
Sembra un film che racconta il tempo: dagli anni cinquanta in crescendo, tanto più dopo il completamento dei palazzi di Bankitalia e Bancoper al posto del Partenone Lawrence e di BancoRoma nei rimaneggiamenti di su Brugu e, pressoché coeva, all’apertura della via Mameli al posto del tappo del vecchio palazzetto Signoriello (antica sede della BAI, la Banca Agricola Italiana), fino agli anni settanta, quando Comit e BancoNapoli, e poi anche Credit, hanno rifatto ben più che un look esterno (in replay di quello postbellico) sistemando saloni per il pubblico ed uffici, sloggiando magari i direttori dagli appartamenti di riserva per ampliare gli spazi da destinare al protocollo o al corriere, al portafoglio o alla contabilità. Fino ancora agli anni più recenti fotografati, come un’icona, nell’impazzimento del traffico automobilistico, nelle doppie e triple file di parcheggio volante, nelle multe a valanga dai vigili robot. Dire Largo Carlo Felice significava dire, a Cagliari, più ancora che il passeggio – se non quello domenicale o serotino – operazioni di banca per i clienti, mille firme al giorno su distinte e assegni e modulari tipici per gli impiegati, e magari qualche salto al bar – quanti bar! – insieme con il correntista in pace con i vigili urbani o fra colleghi in associazione. Piccola borghesia laboriosa, brava gente al servizio dei protagonisti veri dell’economia sociale dell’Isola e del suo capoluogo.
Viale alberato, ampio ed arioso, fra il mare e, dai ciuffi della piazza Yenne, le ascensioni al Castello, questa sua vocazione al commercio della moneta il Largo aveva cominciato, già da prima della grande guerra, a materializzarla in un fare necessario e contagioso. Era divenuto la cittadella del debito e del credito, dei depositi e fidi, delle negoziazioni per l’export, delle compravendite di titoli. Aveva cominciato nel 1906 la Banca Commerciale, che aveva aperto il suo sportello al pian terreno del palazzo Devoto-Cao, dove poi si sarebbe sistemato il Banco di Napoli, arrivato in città prima di tutti, dopo la crisi del 1887.
Flashback: Bacaredda e L’Avvenire di Sardegna, terminali dei sentimenti cittadini, avevano chiesto a quello che era allora uno dei sei istituti di emissione e pareva un ministero solenne e patriarcale, di aprire una filiale a Cagliari. E l’aveva aperta, infatti, la sua succursale, il Banco di Napoli, giusto là dove per molti anni aveva operato la Cassa di Risparmio, legata a doppio (e incestuoso) filo al Credito Agricolo Industriale Sardo ed al Credito Fondiario di Pietro Ghiani Mameli, il parlamentare che aveva combattuto giovanissimo con Garibaldi e garibaldino era rimasto anche in economia, avventuroso come Sindona ma generoso e dignitoso come nessun Sindona avrebbe mai potuto essere. Un disastro la sua gestione negli ultimi tempi, per gli immobilizzi di capitale – oltre tre milioni di lire – negli affari delle miniere tunisine di Gebel Ressas e per l’effetto domino inevitabile che da essi sarebbe venuto, partendo dal Credito Agricolo, agli altri istituti. Tra fallimenti e liquidazioni coatte, l’assalto agli sportelli, l’intervento dei carabinieri e anche il morto, tra la notturna autoconsegna al carcere di Buoncammino del direttore-amministratore-presidente di quel cartello e la condanna detentiva di questi alla fine del processo per bancarotta celebrato a Genova, c’erano state perdite enormi nei depositi fiduciari dei privati come in quelli degli enti – del Comune, della Provincia, della stessa Prefettura per i conti pupillari, ecc. – ed il sistema degli investitori aveva anch’esso pagato il fio della chiusura delle agenzie. Licenziati ovviamente gli impiegati che soltanto tre anni dopo, nel settembre 1890 erano stati richiamati in servizio dal nuovo datore, appunto il Banco di Napoli spinto in Sardegna anche dal governo, dalle pressioni del Cocco-Ortu e del Salaris, nemici giurati nel collegio elettorale ma alleati nel favorire la svolta riparatrice.
Il Banco aveva anche riattivato, a palazzo Timon, la vecchia sede della Cassa di Risparmio, nella piazzetta Mazzini all’angolo della via dei Tornitori, poi Giovanni Spano, in faccia alla porta dei Leoni che era (ed è) l’accesso alla via Università: di fronte anche ad uno stabile che nel 1909 avrebbe visto la nascita di una creatura destinata alla letteratura – nientemeno che Giuseppe Dessì – e ad un’aiuola rotonda che nel 1913 avrebbe accolto per tredici brevi-lunghi anni l’erma di Giordano Bruno, il frate domenicano bruciato vivo dall’Inquisizione. Con l’azienda bancaria figurava anche il Monte Pegni, che non meno del settecentesco Monte di Pietà di Cagliari (destinato ad essere assorbito dallo stesso Banco, ma soltanto nel 1931) era entrato da subito nei rimedi ordinari dei ceti poveri della città e anche della provincia.
Ma il Banco che pur marciava bene, con la Banca Nazionale nel regno, diventata poi d’Italia, e successivamente anche con la Commerciale nell’assistenza creditizia alla piazza, aveva capito che da quel cocuzzolo della mezza collina che era già quasi Castello bisognasse scendere a valle, perché la stagione bacareddiana avviatasi alla fine del 1889 (in parallelo a quella stessa de L’Unione Sarda nata per contrastare Bacaredda) significava, per l’economia cittadina, soprattutto commerci portuali, l’ingrosso frazionato in cento ditte nel viale San Pietro (poi Trieste), un mercato condiviso con l’hinterland e la provincia e favorito dai servizi ferroviari – quelli delle Reali – e dallo scartamento ridotto assicurato dalla Tramvia del Campidano, prima Devoto poi Merello, tutti con terminal nella via Roma del nuovo Municipio.
Scendere a valle significava scendere nel Largo, dove dopo il primo insediamento della Comit, avevano trovato posto, fra il 1913 ed il 1914, anche i primi uffici del Credito Italiano, che poi erano quelli della Società Bancaria Sarda di Ferruccio Sorcinelli, aretino capitano d’industria nato direttore della succursale sassarese della Banca d’Italia, fattosi investitore minerario e con un futuro – da fascista della prim’ora – di editore de L’Unione Sarda (ed a quelli ex SBS si sarebbero aggiunti, nel 1930, i volumi della Banca Nazionale di Credito). Così nel 1914 anche il Banco di Napoli aveva puntato sulla sua nuova postazione, comprando il palazzo Devoto-Cao, che al tempo ancora alloggiava i proprietari ma anche ospitava, in locazione, oltre allo sportello Comit – al piano terra –, anche, ed ormai da più di vent’anni, gli uffici della Camera di Commercio, al primo piano.
L’entrata in guerra dell’Italia, nello stesso 1915 in cui si firmava il rogito – 320.000 lire il prezzo d’acquisto –, aveva consigliato comunque di guadagnare tempo, di rinviare concretamente il trasferimento, da palazzo Timon, della succursale intanto – dal 1908 – promossa al rango di sede, il che significava non soltanto maggiori autonomie deliberative ma anche la partecipazione di un rappresentante della Camera di Commercio, a competenza provinciale, nel Consiglio Generale, il senato delle rappresentanze territoriali di supporto al Consiglio d’Amministrazione.
A guerra finita, nel 1919 – quando anche il Banco di Roma aprì la sua filiale giusto là dove oggi ha aperto lo store del Cagliari calcio, e un tempo funzionava la libreria Cocco –, ecco infatti l’approntamento, da parte dell’ufficio tecnico della direzione generale, di una ipotesi di risistemazione degli spazi, a cominciare dagli sportelli di cassa, e naturalmente anche di quelli del Monte Pegni. E il Comune rilasciò la sua autorizzazione.
Intanto la Banca Commerciale Italiana aveva lasciato palazzo Devoto-Cao per trasferirsi – nel 1916 – nei suoi nuovi locali, distanti appena venti o trenta metri su, lungo lo stesso fianco del Largo Carlo Felice: sede monumentale la cui progettazione era stata affidata a un pool di ingegneri che poi avrebbero messo mano anche all’attiguo palazzo della Camera di Commercio.
Le richieste insistite proprio e in particolare della Camera di Commercio, non ancora dotata di propri locali, di rinviare quel trasferimento, e i contratti di affitto in corso con i Signoriello, che vi avevano propri magazzini, aveva consigliato di procrastinare ancora. Intanto spazi erano dati in locazione, negli anni ’20, alla Croce Rossa Italiana e all’Associazione della stampa, che vi teneva le sue assemblee o le conferenze ma soprattutto, come lì stesso aveva fatto a lungo il Circolo degli impiegati civili, le sue serate mondane, musica, danza e buffet il sabato sera.
Finalmente nel 1928 la Camera di Commercio, diventata intanto Consiglio provinciale dell’economia (fascista), poteva inaugurare i propri nuovi locali e poteva così lasciare palazzo Devoto-Cao di proprietà del Banco di Napoli. Al quale dunque, scaduti intanto anche gli altri contratti di locazione, lo stabile tornava libero e disponibile per l’impiego previsto. Poteva dunque il Banco lasciare il cocuzzolo della Marina e scendere nel Largo stampacino. Dove scese infatti, nel 1931, ma non ancora nella sede – solenne sede come si prospettava o si sognava ormai da sedici anni – bensì nella agenzia a lato di palazzo Signoriello, quello che tappava lo sbocco della via Mameli nel Largo e univa di fatto l’edificio dei Devoto-Cao e quello della Comit.
Era capitato infatti che il fallimento della Banca Agricola Italiana – che era una banca di radici piemontesi e orientata al sostegno ai ceti contadini, ma con una rete sportelli che nel tempo si era diffusa anche lungo lo stivale e in Sardegna – avesse indotto il governo pilotare la assegnazione delle agenzie a diversi dei maggiori istituti del Paese. Quelle sarde – come Arbus, Gonnosfanadiga, Guspini, Ghilarza, Calangianus ecc., prima fra tutte Cagliari, giusto nel Largo – erano toccate al Banco di Napoli, il quale nello stesso anno aveva rilevato anche il Monte di Pietà di Cagliari, ente morale bisecolare ad amministrazione pubblica (Congregazione di carità prefettizia, Municipio, ecc.) affidatario del servizio di esattoria comunale: esso aveva gli uffici in via Sant’Eulalia, giusto dove è oggi il campetto di basket dell’Oratorio parrocchiale. I bombardamenti del 1943 abbatterono infatti quello stabile e nel 1990 l’area non più edificabile fu donata al Comune perché a sua volta la girasse alla parrocchia nel quadro della sistemazione generale della grande scalinata.
Per questo, dunque, la discesa a valle dalle vie Mazzini/Spano avvenne, certo non trionfale ma pur reale, attraverso l’agenzia ex BAI. Quattro anni e, deciso in direzione generale che valesse la pena, non di ristrutturare, ma di demolire il palazzo Devoto-Cao che contava allora poco più di settant’anni, e di ricostruirlo nel rispetto delle volumetrie precedenti (inglobando però anche l’attigua casa Pigozzo) e nel rispetto anche delle caratteristiche essenziali della facciata d’intonazione neoclassica – ora con pietra artificiale, zoccolatura in granito, inferriate in bronzo ai finestroni bassi – finalmente il nuovo edificio poté essere inaugurato. Si chiuse allora l’agenzia ex BAI, costituendo essa ormai un doppione, e la si trasferì poco sopra la piazza Martiri, relativamente vicina al vecchio palazzo Timon (ceduto alla TE.TI. – la Telefonica Tirreno), così da assicurare comunque la conferma di una presenza nella parte più prossima al quartiere di Castello.
Certamente ad affermare la linea della costruzione ex novo avevano contribuito due elementi, uno funzionale e uno estetico nobilitante. Il primo era dato dalla necessità che la banca aveva di dotarsi di un adeguato caveau, il famoso tesoro tanto del numerario o dei valori quanto delle cassette di sicurezza, ed il guardaroba del deposito-pegni. E così, rispetto al livello stradale del Largo e della retrostante via Angioy, i sottopiani furono addirittura due, anche per ospitare i motori della termia o le centrali elettriche . Né perciò fu un caso che, durante i lavori di scavo fossero rinvenuti molti reperti archeologici, successivamente donati al Museo governativo.
La seconda ragione che consigliò la costruzione ex novo era data dalle opzioni architettoniche della cultura del tempo, dalla scelta di una pianta ottagonale e soprattutto dalla volontà di solennizzare il tutto con una copertura a velario unica a Cagliari, e protetta da una sovra cupola a cuspide che sfonda la terrazza così come il cupolino sul versante della via Angioy, dov’era (ed è) il secondo ingresso, e da cui si accedette fino al 1979 per le operazioni del Monte Pegni, per impegnare e dispegnare, e per le aste dei preziosi non ritirati.
Approvato il progetto dalla Commissione edilizia comunale nel giugno 1932, si aprì subito il cantiere – appaltatrice l’impresa Vitali per l’importo di £. 2.450.000, direttore dei lavori l’ing. Giacomo Crespi – e furono mille i giorni di lavoro di tecnici ed operai. Non mancò un grave incidente, per il crollo di una rampa di scale, nelle fasi di smantellamento del piano alto che era stato abitato dai vecchi proprietari. Un ausiliario perdette una gamba.
L’inaugurazione avvenne la mattina di sabato 23 novembre 1935 – nei giorni press’a poco delle sanzioni per l’impresa di Etiopia –, presenti naturalmente tutte le maggiori autorità civiche e del regime. I discorsi, la benedizione dei locali da parte del canonico Loi delegato dell’arcivescovo e il dono ai partecipanti di un album fotografico con le immagini, in bianco e nero, dei diversi ambienti: il vestibolo austero, il grande salone di cassa con i suoi mobili – banconi, armadi, tavolo centrale a scomparto – di fine ebanisteria, lo scalone d’onore di marmo robusto che conduce al primo piano, la sala riunioni e la direzione, le cupole, il prospetto.
Così sarà, felice-felicissimo, per otto anni, fino ai bombardamenti del febbraio 1943, quando anche il palazzo viene colpito, costringendo gli uffici a riparare a Samassi (come sarà per tutte le altre banche emigrate anch’esse in provincia: il BancoRoma a Villanovafranca, la Comit a Sorgono, il Credit a Laconi, Bankitalia a Gesturi, la Bancoper a Pauli Arbarei); colpito a morte è il giovane capocontabile Nicola D’Anzi, lucano d’origini, quel giorno – era una domenica il 28 – e a quell’ora, circa l’una, di passaggio davanti alla sede, o forse appena da lì uscito… Il cadavere riconosciuto grazie a quanto possedeva nelle tasche, ma poi finito nella fossa comune di San Michele.
Il ritorno nel 1944, la fatica delle riparazioni. Tutta Cagliari divenne un cantiere ricostruttivo, tale rimase per un decennio almeno. Uno degli uomini d’oro che lavorava nella sede, ma che aveva cominciato la sua carriera bancaria alla Comit, fu prestato a L’Unione Sarda per esserne il direttore per qualche tempo, e per più tempo fu direttore de L’Informatore del lunedì, da lui stesso fondato: era Giuseppe Susini, bancario-banchiere (finì come direttore generale del CIS) e importante critico letterario. Anticipatore e predecessore, in quanto a spirito umanista, di quell’altra personalità eccellente, che qui comandò con l’autorevolezza della competenza, rispondente al nome di Bachisio Zizi.
Nella metà degli anni ’50 un crollo avvenuto nell’adiacente casa Signoriello consigliò l’abbattimento completo dello stabile e di concedere finalmente lo sfogo della via Mameli nel Largo. Ciò consentì tanto alla Comit quanto al Banco di Napoli di intervenire sui fianchi dei rispettivi palazzi. Si armonizzò così, con i prospetti sul Largo e sulla via Angioy, la nuova facciata laterale, donando infine – con i finestroni stradali – luce vera al salone di cassa e ad una parte degli uffici al primo piano ove venne impiantato il pionieristico centro meccanografico regionale.
Fra il 1972 e il 1973 un nuovo incisivo intervento razionalizzatore, con la acquisizione o riconversione dell’ultimo piano, inizialmente destinato ad abitazione di direttore e condirettore, per gli uffici del personale, dei fidi foranei, della contabilità, del portafoglio, del corriere, poi anche del contenzioso e per le necessità sindacali.
In parte si sacrificò allora la ricca dotazione dei mobili di raffinata ma datata ebanisteria, donati alla Croce Rossa Italiana e all’AIAS, preservando comunque, negli arredi, uno stile di coerenza che costituiva un unicum in città.
Le logiche, dal 2003-2004, dello skyline Sanpaolo poi Intesa-Sanpaolo hanno portato in progress le novità formali che si vedono e raccontano un’altra storia. Ma anche la banca è diversa rispetto a quella d’un tempo neppure remoto: non soltanto per le sue modalità operative, non soltanto per una certa logica sociale nell’accompagnamento creditizio, anche per l’umanità che ne affolla gli spazi durante le ore di negoziato ed incontra la clientela accomodata su poltrone e divani invece che nella stancante fila delle precedenze. Non solo: che non fa più neppure capannello, chiacchierando o leggendo i giornali, un quarto d’ora prima di entrare al lavoro.