Il ritorno del rimosso monolinguistico. Lingue, dialetti, traduzioni necessarie.

 

CAGLIARI, libreria Zurru di piazza Repubblica, 27 giugno 2011, presentazione della rivista Alfabeta 2: Paolo Fabbri, Franciscu Sedda e Isabella Pezzini.

di Franciscu Sedda

A volte ritornano. Come quei mostri nei film horror di terza categoria che dopo essere stati faticosamente sconfitti riprendono vita mentre scorrono i titoli di coda; quei mostri che nel loro ostinato sopravvivere risultano simpatici e con cui alla fine si rischia perfino di solidarizzare. Eccoli questi mostri da ridere, che riappaiono sulla tv di Stato, in spot autocompiaciuti, o sul palco di Sanremo, nei monologhi di uno degli italiani più arguti, quale indubbiamente è Roberto Benigni, cercando di strappare una risata. Eccoli di nuovo: l’esaltazione acritica del monolinguismo e la radicale differenziazione fra dialetto e lingua, come fossero due universi ontologicamente distinti.

A volte ritornano. E se ritornano bisogna rifletterci su. Prendiamo la serie dei cinque spot Rai per celebrare i 150 anni dell’unità d’Italia, ampiamente circolata su tv e web nei mesi scorsi. In essi non si trova molto di meglio da fare che esaltare l’unificazione linguistica italiana facendo la caricatura delle varietà linguistiche dialettali e dei loro parlanti. Operazione per certi versi comprensibile: gli autori Rai, attenti lettori della Storia linguistica dell’Italia unita di Tullio De Mauro (1963), sanno e si compiacciono del ruolo fondamentale che la televisione ha avuto nella diffusione dell’italiano, arrivando a ottenere quei risultati linguisticamente unificanti che letteratura e scuola non erano riusciti a conseguire.

Tuttavia non sarebbe stato male se gli stessi autori avessero letto, sempre di De Mauro, anche L’Italia delle Italie (1992) e in particolare il saggio “Monolinguismo addio”. I loro stessi spot infatti dimostrano – interpretati con un minimo di malizia e partendo dalla fine (quando i protagonisti con un perfetto code-switching passano dal dialetto all’italiano) – che quei parlanti sono plurilingui e possiedono benissimo sia la varietà dialettale sia la lingua standard. Vedere per credere. Il punto è che li si è voluti far apparire come sprovveduti che non sanno “quando” e “con chi” usare una certa varietà e un certo registro, e quando e con chi un altro.

Insomma, a una concezione aggiuntiva e pluralista delle varietà linguistiche si è preferita una dimensione sottrattiva; alla convivenza fra lingua standard e varietà dialettale come acquisizione di potenzialità plurime di espressione, si preferisce ancora una logica del tipo “o l’una o l’altra”. In realtà, in questo modo, al monolinguismo dialettale si sta rispondendo rischiosamente, come vedremo, con il monolinguismo standard.

È anche una questione politica, evidentemente. I mostri generano mostri, e alle strumentalizzazioni dialettali del leghismo non si trova di meglio che rispondere con un vigoroso nazionalismo monolinguistico. I guai, come si suol dire, non vengono mai da soli. Si tratta di un meccanismo messo in evidenza anche da Alberto Maria Banti (Il Manifesto, 20/02/2011) che ha parlato di una sorta di neo-nazionalismo in salsa risorgimentalista insito nella narrazione storica che Roberto Benigni ha proposto dal palco di Sanremo rileggendo “Fratelli d’Italia”. E Benigni nella sua narrazione non si è fatto mancare nemmeno un passaggio per ribadire l’incommensurabile vantaggio della lingua rispetto al dialetto, dopo aver però ovviamente ribadito il più classico degli stereotipi sui dialetti: la loro autenticità, il loro essere mezzo di espressione dei sentimenti intimi, quasi viscerali, e dunque adatti alla creazione poetico-musicale.

Pare dunque, stando a Benigni e a una lunga tradizione depositata nel senso comune, che il dialetto intrattenga un rapporto quasi innato con la corporeità e gli affetti ma tuttavia esso non si addica allo “spirito”: “Con il dialetto non si può scrivere la Critica della Ragion Pura, l’Estetica di Croce, la Divina Commedia, perché fa ridere, il pensiero non va oltre. Ci vuole una lingua…”. Questa argomentazione non fa giustizia a nessuno: né al cosiddetto “dialetto” né alla cosiddetta “lingua”, né tanto meno alla comprovata intelligenza di Benigni.

In primo luogo perché, grazie al cielo, ogni lingua standard sa benissimo esprimere sentimenti e pulsioni intime. Anzi, il percorso che porta una lingua standard inizialmente parlata da pochissimi e percepita come “artificiale” a farsi lingua viva percepita come “naturale” e “comune”, come “lingua madre”, è la palese dimostrazione che una distinzione ontologica fra lingua, in quanto spazio del pensiero, e dialetto, in quanto luogo dei sentimenti, non regge.

In secondo luogo è lo stesso Benigni a darci uno dei più clamorosi esempi delle potenzialità espressive insite in qualunque dialetto: la Divina Commedia non è altro che la testimonianza delle potenzialità espressive di un dialetto, il fiorentino letterario, che solo successivamente si sarebbe fatto “lingua italiana” e “comune” a tutti gli effetti (si veda sempre De Mauro in un recente intervento sul numero di Limes dedicato al rapporto lingua/potere, dicembre 2010). Cause e effetti vanno ribaltati: la Divina Commedia non è scritta in fiorentino perché quella era una lingua; è il fiorentino che è diventato lingua perché qualcuno ha avuto la capacità di scriverci la Divina Commedia (e altri dopo, in un lavoro di secoli, hanno preso quel testo e quella variante a riferimento).

Che Benigni non percepisca il paradosso è cosa ovvia, visto che per lui variante dialettale e variante standard praticamente coincidono. Ma lo percepiscono sicuramente tanti altri, e con essi certamente il sottoscritto, vissuto fra lingua italiana, il dialetto ligure di Carloforte e le molte varianti della lingua sarda, ancora invischiata in un percorso tanto complesso quanto necessario di ricerca di una variante standard condivisa. Ma tornando a Benigni, ciò che va ribadito è che il suo esempio è la più forte controprova alla rigida distinzione fra lingua e dialetto, e consente di vedere con chiarezza che ogni dialetto è una lingua in potenza e ogni lingua è un dialetto con potere, o se si preferisce, un dialetto che ha realizzato estensivamente le sue potenzialità attraverso una grafia, una grammatica e un lessico standard, l’uso istituzionalizzato promosso con l’aiuto di innumerevoli apparati, la possibilità di mettere alla prova le sue capacità metaforico-espressive e dunque ampliare la sua capacità di stendere la sua rete formatrice su ogni ambito del “reale”.

Verrebbe da dire che è chiaro che i dialetti sembrano così adatti ai sentimenti e ai contesti familiari se non li si lascia parlare d’altro, se non gli si consente di mettersi alla prova del non-ancora-detto, traducendosi in altri spazi della vita sociale e intellettuale. E così pure le varianti scelte come lingue standard sembrerebbero eternamente artificiali, aride, snob se rimanessero solo nella sfera della burocrazia, della diplomazia, della filosofia, della letteratura scritta per una élite, se non si traducessero col tempo – ri-dialettalizzandosi, ovvero creando varianti regionali della stessa lingua standard – nello spazio della vita quotidiana.

E tuttavia il problema resta e pare essere tutto interno al lascito dell’elaborazione gramsciana, scissa fra una lettura tesa a riconoscere pieno valore e dignità alla cultura popolare e affermazioni iper-citate come la seguente: “Chi parla solo il dialetto o comprende la lingua nazionale in gradi diversi, partecipa necessariamente di un’intuizione del mondo più o meno ristretta e provinciale, fossilizzata, anacronistica (…). Una grande cultura può tradursi nella lingua di un’altra grande cultura, cioè una grande lingua nazionale, storicamente ricca e complessa, può tradurre qualsiasi altra grande cultura, cioè essere una espressione mondiale. Ma un dialetto non può fare la stessa cosa” (Quaderni del carcere II, Torino, Einaudi 1975, p. 1377).

Che fare davanti a queste parole? Piuttosto che assumerle come verità definitive, direi di lavorare sui loro margini e limiti interni, focalizzandoci su tre aspetti insiti in questa famosissima frase, per fare un passo oltre, verso il nostro presente.

Il primo aspetto è racchiuso nel passaggio “chi parla solo dialetto”. È il parlare “solo” dialetto che fa problema, non il parlare “anche” dialetto. È il monolinguismo che fa problema, dunque. E direi che, alla fin fine, fa problema anche quando si tratta del monolinguismo di una lingua nazionale. Per capire realmente il mondo, per iniziare a riflettere veramente su di esso, per ampliare la nostra umanità e fuggire almeno un po’ dalla comoda tentazione a chiuderci, per incominciare a addentrarci per davvero nelle molteplici pieghe del reale servono sempre almeno due lingue. Dunque, meglio la compresenza di una varietà dialettale e della lingua standard che solamente una delle due. È pur sempre un inizio di plurilinguismo, uno spiazzamento del proprio orizzonte attraverso le interferenze di un altro, anche se si tratta di una variazione minima, di una piccola vibrazione della differenza.

Il secondo punto rafforza il primo, e molto di quanto abbiamo detto: “o comprende la lingua nazionale in gradi diversi”. Non basta nemmeno parlare una lingua nazionale sic et simpliciter. Ciò che serve è addentrarsi nelle pieghe di ciascuna lingua, coglierne l’intima stratificazione e pluralità interna, saggiarne tutta la potenza semiotica ed espressiva. Il proprio empowerment, la presa in carico e l’esaltazione delle proprie potenzialità creative, passa attraverso la presa di possesso e la più piena messa in azione dei mezzi di produzione del senso.

Infine, la dimensione di vita “mondiale” che per Gramsci appariva come una scelta oggi appare un dato inevitabile. Sia essa una scelta o un dato, ciò che è chiaro è che questo spazio mondiale si dà come uno spazio fatto di una molteplicità di necessarie traduzioni fra dimensioni linguistiche, culturali e politiche plurali, nonché distribuite su più livelli. Conviene abituarcisi fin da subito a questo spazio traduttivo glocale, se non lo si vuole rendere più grande, terribile e mostruoso di quanto non sia.

 

Spot Rai
http://www.ansa.it/web/notizie/videogallery/spettacolo/2010/12/09/visualizza_new.html_1671696611.html

Benigni a Sanremo
http://www.youtube.com/watch?v=e6RsYte7wmM

 

18/06/2011

 

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