I coloni (sardi e continentali) di Arborea. Un convegno ed un documentario nella cittadina delle bonifiche e della riforma agraria, di Alberto Medda Costella
La questione è se si tratti soltanto della categoria “storica”, dei pionieri della bonifica, o se meritino la classifica anche i titolari dei lotti postriforma degli anni ’50 e ’60, fino agli attuali coltivatori-proprietari di questo inizio del Duemila. Si combina con questi aspetti l’appassionante discussione sulla natura “non sarda” (o prevalentemente non sarda) dell’antica Mussolinia. Il cui primo colono fu, comunque, un sardo doc: il bosano Alfonso Giorda.
Cosa si intende oggi quando si parla dei “coloni di Arborea”? I coloni sono solamente quelli che hanno condotto a mezzadria i poderi durante il ventennio oppure lo sono anche coloro che dopo la riforma agraria del 1954 sono divenuti assegnatari?
Nella serata di sabato 24 ottobre, il documentarista oristanese Antonello Carboni ha presentato il suo nuovo lavoro dal titolo “I coloni di Arborea”, commissionatogli dalla Società Umanitaria-Cineteca Sarda. Per la prima proiezione è stata scelta proprio la cittadina della bonifica. Nei locali dell’ex Dopolavoro (oggi teatro dei salesiani) un folto pubblico ha seguito con interesse la manifestazione, ben riuscita grazie all’impegno della rete Trama e della Consulta Giovanile Arborense.
Il documentario inizia con un preambolo provocatorio sulla ricerca del gas per poi dispiegarsi – dice l’autore – «tra la storia passata, per fornire quegli elementi minimi di comprensione anche a uno spettatore che la storia di Arborea non conosce, per entrare poi nel lavoro presente, dando risalto all’allevamento e alla sua filiera», tutto messo in discussione dal recente tentativo di una multinazionale di trivellare il territorio per estrarre del gas. Un racconto filtrato dall’esperienza vissuta in prima persona da Aurelio Milan, agricoltore ottantasettenne nato ad Arborea nel 1930 da una famiglia del Polesine, immigrata qualche anno prima. Il signor Milan sembra nato per la cinematografia. «È uno che buca lo schermo», continua Antonello Carboni.
Oramai è assodato che il primo colono di Arborea è stato un sardo, Alfonso Giorda da Bosa. Eppure rimarrà quasi un’eccezione tra i pionieri. I sardi, del circondario e delle zone minerarie, vennero utilizzati in gran parte per i lavori della bonifica: carriolanti, zappatori, fabbri, falegnami, etc. Nella fase successiva al risanamento idraulico per la colonizzazione vennero opzionate famiglie continentali. Il motivo di tale scelta ce lo fornisce lo stesso Giulio Dolcetta, primo presidente della SBS, nel 1932:
«Le famiglie coloniche sono state in gran parte importate dal continente. Sarebbe molto più comodo per la Società di servirsi molto più largamente di famiglie sarde; contrasta però con questa aspirazione, la scarsissima forza lavorativa che le famiglie sarde presentano. Le cause di questo fenomeno risiedono nello spiccatissimo individualismo dei sardi, che esclude l’associazione e la convivenza fra parenti, largamente praticata invece dai continentali di alcune regioni e che permette a questi di presentare famiglie con una più forte percentuale d’individui atti al lavoro in confronto degli inabili (vecchi e bambini)».
A ciò si aggiungeva che il modello di agricoltura che si andava a impiantare, molto vicino a quello delle zone di provenienza delle famiglie scelte per la Sardegna, prevedeva la residenza permanente nel fondo, contrariamente a come si usava nelle altre regioni dell’isola.
Chiarita e ormai assodata la motivazione per il quale i continentali vennero preferiti ai sardi, ciò che probabilmente è stato fin qui poco analizzato è la ragione che ha portato gran parte dei coloni da aree ben circoscritte, in particolar modo da alcune province del Veneto.
L’arrivo dei veneti. Nella prima fase della colonizzazione furono selezionati soprattutto braccianti o persone che avevano svolto un altro mestiere – come il caso di un gondoliere e di uno stradino – provenienti in gran parte dal delta del Po, dove la crisi economica aveva mietuto più vittime e dove si voleva in tutti modi allentare la tensione sociale. Tanti dei coloni in arrivo a Mussolinia, furono alla loro prima esperienza in campo agricolo. Altri ancora ebbero un passato politico. Questa grande massa di lavoratori senza occupazione poteva riacutizzare la questione bracciantile nella Valle Padana. Saranno soprattutto polesani i primi mezzadri di Mussolinia e sarà proprio il Prefetto di Rovigo Pietro Giacone a interessarsi al loro trasferimento in Sardegna, ottenendo prima un finanziamento dalla Cassa di Risparmio delle Province Lombarde per terminare gli alloggi previsti nei poderi e per la costruzione di un villaggio nei pressi del centro colonico di Alabirdis e poi compiendo un sopralluogo in Sardegna per verificare se vi fossero tutte le condizioni necessarie per ospitare le famiglie del Polesine.
Di fronte alla necessità di sfoltire l’area della valle del Po e di gestire razionalmente i flussi nord-sud a fini di ripopolamento delle zone abbandonate, nel 1926 venne creato il “Commissariato per le migrazioni e la colonizzazione interna”. Suo obiettivo principale fu di provvedere all’accertamento e alla razionale distribuzione di questa forza lavoro, per essere meglio impiegata nei territori del Regno. Il Commissariato riceveva mensilmente, dagli uffici e da altri enti, un rapporto sulla situazione lavorativa in provincia e con questi stabilì dimensioni e destinazione dei flussi. In tale campo spettarono a esso due compiti: l’autorizzazione allo spostamento di squadre di lavoratori o famiglie coloniche da una provincia all’altra; inviare nelle zone di bonifica o nelle aree dove vi fossero in corso lavori pubblici, braccianti disoccupati del nord, in particolar nell’Italia centrale, in Sardegna e in Libia.
Si procedette con l’invio iniziale nel 1928 di un primo scaglione di soli 150 elementi della provincia di Rovigo per la costruzione del canale di Santa Giusta: un numero relativamente esiguo al fine di non turbare le lagnanze dei locali, verificando nel frattempo se «nell’arco di sette mesi, [essi] fossero riusciti a raggiungere condizioni ottimali di adattamento al clima» della zona di Bonifica e i ritmi di lavoro imposti dalla Società. Non tutti ressero le dure condizioni di lavoro e alcuni vennero rimpatriati. Gli altri si fecero raggiungere dal resto della famiglia.
Dalla fine del 1929 fino al 1930, l’arrivo di braccianti continentali (che si stavano affiancando alle squadre di lavoro composte da sardi) cominciò ad intensificarsi. Ne arrivarono da Pizzighettone (Cr), da Vicenza e da Forlì. Vennero anche assegnati i primi poderi a 100 famiglie con un contratto di mezzadria. La popolazione crebbe di anno in anno. Si passò dai mille abitanti presenti il giorno della inaugurazione del Villaggio Mussolini nel 1928, ai 2.253 nel 1931 per arrivare agli oltre 4.000 alla vigilia del secondo conflitto mondiale.
La presenza di così tanti mezzadri veneti a Mussolinia portò molti altri loro corregionali a occupare ruoli legati ai servizi o indirettamente all’agricoltura. In una lettera al podestà, per il concorso a veterinario comunale, il dott. Giovanni Fontana di S’Urbano (PD), chiese di essere assunto proprio in virtù del fatto che il paese, essendo popolato da polesani e quindi da persone che avevano i suoi stessi costumi, si sarebbe trovato maggiormente a proprio agio. Le famiglie non venete appartengono, non a caso, alle province limitrofe di Mantova, Forlì, Rimini e Ravenna.
Nello stesso periodo dell’esodo veneto verso la Sardegna, si partiva anche verso le grandi città italiane. Anche qui i veneti, in termini numerici, riuscirono a superare le altre regioni, comprese quelle meridionali. «L’emigrare era un modo di affrontare la situazione, di non rassegnarsi, di cercare un’alternativa» scrive lo storico Antonio Lazzaroni. Vendere quel poco che si possedeva per partire verso un luogo sconosciuto fu un rimedio fisiologico, nella speranza di ricostruirsi una vita migliore di quella che si aveva lasciato.
Secondo il deputato Emilio Morpurgo se fosse esistita qualche altra via d’uscita, il contadino fortemente abitudinario avvezzo a seguire il ciclo delle stagioni e molto diffidente verso le novità sarebbe rimasto, anche pagando un prezzo maggiore. Per il bracciante avventizio, sradicato ormai dalla terra, abituato a muoversi in cerca di lavoro, presumibilmente non era cosi.
Non mancarono sicuramente tante altre motivazioni, che diedero un’ulteriore giustificazione all’abbandono di quelle terre. Dalla possibilità di tagliare quel cordone ombelicale con la famiglia patriarcale, magari per ricostituirne un’altra nel paese di arrivo, alla voglia di rivincita verso i padroni, dallo spirito di avventura alla credulità nei confronti degli agenti dell’emigrazione. Ma rimane un dato ormai assodato: la decisione della partenza fu da attribuire alla povertà estrema.
Tuttavia per una buona riuscita dell’iniziativa, non fu sufficiente la selezione di famiglie con il maggior numero di componenti. I primi tentativi di insediamento, in Sardegna, così come in Africa e nel Lazio, fallirono sia per le durissime condizioni di lavoro, sia perché non erano stati valutati attentamente alcuni requisiti.
Il fattore religioso e quello accomodante. Col passar degli anni si passò a un reclutamento sempre più selettivo delle famiglie da inviare in Bonifica. Queste dovevano disporre, oltre che di un’elevata forza lavoro, soprattutto di requisiti professionali, fisici, politici e morali, trovando in questo un validissimo alleato nella Chiesa. In particolare si cercò di limitare l’afflusso dei romagnoli poiché poco remissivi all’ordine costituito e dotati di scarsa fede religiosa. Non dimentichiamoci che si tratta delle zone d’Italia dove erano sorte le prime leghe contadine, le federazioni di mestiere e le camere del lavoro socialiste. Alcuni agenti dell’emigrazione si sentirono di poter liberamente affermare che i romagnoli, avendo un carattere o molto fiero o molto vile, andavano trattati con cautela: di conseguenza non potevano essere considerati adatti all’insediamento.
Altro criterio che doveva essere utilizzato nella scelta delle famiglie coloniche fu l’attitudine ad assumere un atteggiamento da proprietario. Secondo l’opinione di Bruno Biagi, presidente dell’INFPS, si doveva scoraggiare l’importazione di braccianti bolognesi, ormai inclini a non superare le otto ore lavorative, soliti una volta terminato l’impegno, ad «andare dal cinematografo o in bicicletta a far l’amore con le ragazze della campagna». Si consigliava il reclutamento delle famiglie dal Veneto, in particolare dalle province di Treviso, Padova e Venezia, addirittura si scendeva ancor di più nello specifico indicando la zona al di là del Piave, nei comuni di Conegliano, Oderzo, Valdobbiadene, Motta di Livenza, ecc., escludendo i paesi dell’area di Castelfranco Veneto.
Non è un caso che a partire dal 1935 le famiglie arrivate ad Arborea provengano prevalentemente da queste province, soprattutto dalla Marca trevigiana. Le zona di provenienza della famiglia materna di chi scrive è quella di Gorgo al Monticano e di Mansuè in provincia di Treviso, proprio oltre il Piave e vicino al Livenza. Sembra che da quell’anno l’onda del Polesine si sia esaurita per far spazio a quella della Marca.
I fattori a capo dei centri colonici erano invece prevalentemente quasi tutti toscani, con qualche eccezione emiliana, romagnola e lombarda. La Toscana fu anche la regione che più di ogni altra fornì i quadri dirigenti al fascismo, anche se questi si mostrarono tutti esperti agronomi, chiamati semplicemente per le loro competenze professionali, portati in Sardegna dal commendatore D’Ancona, figura questa ancora da approfondire.
L’integrazione, l’esodo, i ritorni. La vera integrazione tra sardi e continentali si realizzò dopo la riforma agraria negli anni ’60, con il boom industriale italiano, quando moltissime famiglie continentali lasciarono parte dei 262 poderi per le fabbriche del Piemonte e della Lombardia. Il miracolo economico rappresentava il nuovo eldorado. Da Arborea si passava agli opifici dell’Italia del nord. Fu un vero e proprio stillicidio, che avrebbe protratto i suoi effetti fino ai primi anni ’70. Per un decennio, forse più, alcuni poderi rimasero completamente abbandonati. Saranno i contadini sardi e qualche continentale di ritorno, pentito del lavoro in fabbrica e della vita di città, a riprenderne la coltivazione. La reale situazione sociale e demografica nelle campagne di Arborea, a dieci anni dalle prime assegnazioni, la conosciamo grazie a una relazione di un’assistente sociale dell’Etfas datata 1° luglio 1964, che ci conferma che i poderi gestiti da sardi non sono più 10 rispetto al 1957, ma 90 ovvero esattamente un terzo del totale.
Il passaggio dei coloni da mezzadri ad assegnatari fu foriero non solo di un cambio di mentalità segnando una cesura profonda nella storia di Arborea da un punto di vista organizzativo e produttivo. Il “boom economico” portò all’esodo dalla Sardegna numerosissime famiglie continentali, mettendo definitivamente fine all’enclave veneta per far spazio a una comunità molto più eterogenea di quando si era formata, lasciando spazio a quella contaminazione dovuta all’innesto dei contadini sardi, che seppero dimostrare, in certi casi, di essere pienamente all’altezza del compito che era stato loro affidato.
Ritorna così la domanda iniziale: chi sono quindi i coloni di Arborea? Quelli della bonifica di 80 e passa anni fa, quelli della riforma di mezzo secolo fa, quelli dell’ultima parte del Novecento e ancora di oggi? O tutti, quelli di prima e quelli di oggi insieme? Un nuovo punto di vista è stato offerto proprio dal documentario di Antonello Carboni, per il quale il filmato presentato all’ex Dopolavoro ha «inteso fermare alcune istantanee su ciò che da Mussolinia è stato fino ad oggi per tutta la comunità Arborea. Per questo si intitola “I coloni di Arborea”, per significare cosa sono stati e cosa sono oggi», dice Antonello Carboni, e, aggiungo io, nella continuità della storia, che è storia del lavoro in Sardegna.
By gianfranco murtas, 11 novembre 2015 @ 10:02
I coloni (sardi e continentali) di Arborea. Un convegno ed un documentario nella cittadina delle bonifiche e della riforma agraria, di Alberto Medda Costella
di Gianfranco Murtas
Ho avuto piacere di leggere questo fluente articolo di Alberto Medda Costella, del quale avevo avuto l’opportunità di seguire, anche in Biblioteca universitaria, le faticose ricerche sulla riforma agraria degli anni ’50 nella piana di Arborea, finalizzate alla sua tesi di laurea specialistica, dopo quella triennale sulla bonifica (quest’ultima discussa all’università di Trieste, la magistrale – relatore la prof. Maria Luisa Di Felice – al corso di “storia e società” della nostra facoltà di Lettere e Filosofia).
Mi sono messo davanti a questo scritto rilevando (con enorme soddisfazione) l’animus dello studioso, prima ancora della bontà (indubitabile)degli esiti delle sue ricerche. Forse le radici parentali, nel filone materno, hanno spinto Medda Costella a darsi ad approfondimenti del tutto nuovi sulla storia, più volte esplorata, della comunità sociale, e anche sociale-religiosa, oltre che economico-produttiva di Arborea, il suo essere un unicum in Sardegna , diversa da Carbonia e Fertilia – le altre città fondate dal fascismo nell’Isola –, tanto per la vocazione agricola ad altissimo standard qualitativo e quantitativo, quanto per il meticciato della prima colonia e anzi per la prevalenza in esso dell’elemento continentale (eminentemente veneto ma anche lombardo e romagnolo, o toscano ecc.).
L’arco ampio delle sue relazioni di studio in Sardegna e nella penisola, su cui una volta mi intrattenne, mi pare costituisca un sostegno forte a queste sue ricerche sulla storia del lavoro, e del lavoro rurale in particolare, favorendone una specializzazione che piacerebbe vedere materializzarsi nel prossimo futuro in pubblicazioni di buon accredito non soltanto accademico. Perché c’è sostanza insieme analitica e narrativa, una visione di lungo periodo e insieme una attenzione ad ogni singola tessera del mosaico, cioè ad ogni particolarità o ad ogni componente, soggettiva e/o temporale, della ormai quasi secolare vicenda sociale ed economica del bacino arborense.
L’incarico amministrativo di recente affidatogli in virtù, oltre che dell’inaspettato piazzamento alle recenti elezioni municipali di Arborea, certamente dalla competenza conquistata sul campo della difesa e valorizzazione del patrimonio materiale immateriale del centro sardo-veneto nel cuore dell’Oristanese, spererei valesse di più a coinvolgere, all’interno del coordinamento di Medda Costella, le potenzialità soprattutto dei giovani presenti in loco, forze sparse e forze organizzate in consulte od associazioni. E’ forse, questo, il bisogno e la speranza di tutti i nostri comuni lontani dal capoluogo: di riunire e mettere all’opera quel tanto di risorse locali, dei giovani soprattutto – progettisti del loro domani professionale e civico –, dalla cui intelligenza possono venire gli scenari nuovi della vita economica e socio-culturale del territorio, senza dover passare per forzate migrazioni o fughe verso i centri urbani di maggior attrazione, con le ovvie conseguenze dello spopolamento progressivo e dell’impoverimento ulteriore delle zone interne.
Fatta questa premessa, che serviva a dar merito al talento di Medda Costella operatore culturale al servizio della sua amministrazione, merita fissare qualche considerazione sui contenuti del suo articolo. Nel quale a me pare emergere – sul filo delle provocazioni presenti nel racconto documentario di Antonello Carboni del quale si è voluto dar conto – la continuità storica, attraverso epoche assai diverse, dell’elemento lavorativo, detto “colono”, caratterizzante il bacino agricolo o agricolo-zootecnico dell’alto Campidano, nella piana terralbese/arborense.
Inserito nell’organizzazione societaria della SBS in posizione mezzadrile, negli anni della bonifica e del dopo bonifica – coincidenti con quelli della dittatura (e dittatura fu anche nei contratti imposti dalla SBS, nello stile autoritario, per non dire prepotente, della sua amministrazione e della dirigenza tecnica) –, il colono dovrebbe molto del suo riscatto sociale sia alla lotta sindacale e politica della sinistra social-comunista sia al riformismo gradualista (e sovente paternalista) della Democrazia cristiana nel governo nazionale (ministeri De Gasperi, Pella, Fanfani, Scelba e naturalmente Segni ) e insieme in quello regionale (giunte Crespellani, Corrias Alfredo ed Efisio, Brotzu).
I dibattiti anche in Consiglio regionale, nonostante le inevitabili punte polemiche fra l’area di maggioranza e quella di minoranza – e va considerato che diversi furono gli orientamenti politici anche delle maggioranze, passando dalla coalizione DC-PSd’A ai monocolori democristiani “sdraiati a destra” – , segnarono un consapevole coinvolgimento di tutte le forze politiche nel sostegno alla causa che forniva agli ex mezzadri gli strumenti (il lotto riscattato in un lungo arco temporale, certo oneroso ma compatibile con l’equilibrio finanziario aziendale) per condurre in autonomia la loro impresa. Peraltro con una proiezione economica garantita, a compensare l’impegno al puntuale pagamento delle rate dell’assegnazione fondiaria e insieme a sostenere la dignitosa remunerazione della fatica quotidiano: vale ad dire quel sistema cooperativistico che proprio di Arborea costituiva il dato caratterizzante e che ancora, anche in questa fase di perdurante cattiva congiuntura, costituisce un comparto scrigno di potenzialità di sviluppo nella commercializzazione produttiva interna ed esterna all’Isola.
I riferimenti a tale scenario, appena affacciati nell’articolo uscito sul sito di Fondazione Sardinia, ma presenti nel documentario di Carboni e negli ormai numerosi scritti pubblicistici o saggistici di Medda Costella (presenti nella rete o affidati alla carta) delineano, a mio avviso, il passaggio principale dalla storia capitalistica (o paleocapitalistica) dell’Arborea redenta sì ma infeudata per quasi tre decenni alla SBS, alla storia della economia partecipata, in cui il lavoro è il protagonista attivo, non più il soggetto passivo, dello sviluppo anche civile e sociale della comunità.
Questa dimensione sociale è valorizzata da Medda Costella, mi pare, quando – riferendo del racconto filmico di Carboni – indugia a valorizzare, e prima di tutto ad analizzare, le componenti demografiche di nuovo insediamento nella piana bonificata, i perché della loro matrice regionale padana (patriarcalità delle famiglie e quindi moltiplicazione delle braccia di fatica, stanzialità residenziale a fronte della propensione alla mobilità dei sardi, gregarietà o subalternità religiosa oppure depotenziamento delle micce rivendicative pronte ad esplodere nelle province del Po, ecc.) e di più ancora. Gli sforzi alla integrazione nel tempo in cui una nuova generazione, prima-durante-dopo la guerra, veniva su, maglia rimboccata al gomito d’inverno anche i minori; la funzione paternalista della parrocchia salesiana negli anni del regime e il più avanzato sostegno venuto dai preti di Don Bosco in quelli della riforma e dunque del riscatto sociale… Poi – sono altre didascalie ideali delle scene del documentario di Carboni richiamate da Medda Costella – le tentazioni all’esodo, o al contro-esodo, dalla Sardegna al settentrione italiano industrializzato a cavallo di decennio, fra ’50 e ’60, pur dopo i sacrifici del riscatto dei fondi, per l’attrattiva esercitata dal lavoro disciplinato e dal reddito garantito proprio delle fabbriche, del grande manifatturiero lombardo, piemontese, in parte anche veneto… Un fenomeno che coinvolgeva anche i sardi di antica stirpe, non soltanto quelli di nuova generazione (i nati ad Arborea, da famiglie venete o comunque continentali, negli anni ’30 o primi ’40): il grande abbaglio, la grande speranza dell’Italia nuova che conquistava i primati mondiali per crescita del prodotto interno lordo, per solidità della moneta, per incrementi occupativi, dopo la cessione di enormi forze-lavoro all’estero belga e francese o tedesco, all’industria pesante o alle miniere della middle-Europa degli anni ’50.
Poi ritorni, massivi certamente meno degli abbandoni, ma significativi e rafforzativi anche, nel nuovo radicamento alla terra, di un rapporto con la Sardegna destinato a durare nel tempo. Ma intanto ecco una novità: a prendere a coltura quei lotti abbandonati arrivano i sardi non coinvoltisi dapprincipio. Nell’arco di sei-sette anni, nel periodo che press’a poco vede nell’Isola l’avvio della politica di Rinascita (con tutte le sue virtù e purtroppo tutti i suoi limiti), quasi decuplicano – raccontano Carboni e Medda Costella – i fondi acquistati dagli agricoltori sardi, ed un terzo così dell’intero mosaico dei 262 poderi passa nella responsabilità amministrativa (e lavorativa) dei nostri corregionali.
La storia non si taglia a fette, essa è piena di pieghe che, a indagarle, rivelano pressoché sempre vizi e virtù strettamente connessi reciprocamente. E dunque l’affaccendarsi degli uomini della politica o dell’amministrazione e quello degli uomini di Chiesa o dell’informazione (a sostegno una volta degli interessi della SBS, un’altra dei diritti o anche soltanto delle aspettative dei lavoratori, un’altra ancora – e meriterebbe di studiarlo con riferimento specifico ad Arborea – delle convenienze di una megastruttura insieme tecnica e clientelare come l’Etfas), costituisce una materia che affascina perché ci è, per una volta, consentito di vederlo all’opera in un territorio delimitato che può valere come ideale scenario di un film di racconto: dove però partiti e preti, presidenti e sindaci o cronisti sono comprimari al massimo, protagonista assoluto restando sempre e soltanto il lavoro, il lavoro o anzi la comunità del lavoro. E’ l’umanità che vince qui, appunto con il lavoro, ora sfruttato e abusato, ora sostenuto e valorizzato, ora portato in logica di dipendenza, ora emancipato tanto da identificare il colono nel produttore, non più nello schiavo della mezzadria, e racconta dei modi in cui una comunità, fra mille limiti e contraddizioni, ha saputo strutturarsi e modernizzarsi, fino a maturare quella sensibilità politica che ha portato i migliori a combattere recentemente la difficile battaglia contro i rischi delle trivellazioni.
Storia e cronaca qui si confondono, è storia anche quella d’oggi che saprà essere giudicata da chi verrà domani e saprà che si è saputo, al momento della chiamata, resistere alle sirene incantatrici e difendere il territorio, base e provvidenza di ogni benessere.
E’ questo che, dal mio osservatorio cagliaritano ma molto puntato, non da oggi – trent’anni e passa fa realizzai anche io un documentario televisivo su Arborea e le sue componenti rurali – sulla realtà oristanese ed arborense, mi pare di scorgere come risultato ma anche e ancora potenziale effettivo e dovere morale della comunità che un tempo portava il nome brutto, bruttissimo, di Mussolinia: il movimento antritrivelle ha onorato la fatica dei coloni di ieri e avant’ieri, ha salvato la fatica dei coloni-produttori di oggi, perché ha ottenuto l’integrità del territorio comunale e dell’intero comprensorio. Davvero però altro ancora può dare Arborea come modello di riferimento civico alla Sardegna dei 377 comuni, per la grande maggioranza rurali.
La dizione esatta delle competenze amministrative, di autentica promozione insieme amministrativa e civica, affidate ad Alberto Medda Costella – la difesa del patrimonio materiale e immateriale di Arborea – può e deve valere ovunque: il patrimonio immobiliare, gli edifici storici andati in abbandono più per l’incuria di assessori neghittosi e indifferenza dei residenti che per difetto di finanziamenti, il patrimonio morale e culturale (ad Arborea la parlata veneta e il sistema valoriale/sociale e identitario di quel ceppo laborioso non può essere il titolo del primo capitolo di questo libro di nuovi impegni?) potrebbero/dovrebbero costituire l’ambito collaborativo d’eccellenza delle migliori e volenterose energie della popolazione con la Municipalità. Riflettori puntati su Arborea, la cronaca si apre alla storia.