La religione in lingua sarda. Il contributo di Eliseo Sanna, di Gianfranco Murtas

Sommario: 1. L’opera di Eliseo Sanna. 2. Le produzioni religiose in lingua sarda. 3. 1895, Quel catechismo sardo-campidanese.4. Intervista ad Eliseo Sanna.


Non è certamente per competenza né generica né tantomeno specifica o specialistica che, non richiesto, ho creduto di buttare giù qualche riga per segnalare, dal panorama degli autori di testi, in prosa o in versi, in lingua sarda declinata nelle diverse varianti, il nome di Eliseo Sanna, sinnaese in corsa verso i 90 (gliene mancano pochi, ma la salute del corpo, il pensar positivo e la prodigiosa fertilità della mente accompagnata dalla migliore memoria in permanente esercizio, gli promettono anche i cento e perfino i centocinquanta!).

Una vita con la divisa dell’Aeronautica militare, una famiglia impiantata nel 1960 e cresciuta con orgoglio e licenze creative per tutti – in rappresentanza valga Elio, disegnatore e caricaturista originalissimo, tanto sobrio quanto spiritoso –, la passione sempre coltivata per le pagine bibliche e anche la disciplinata e generosa dedizione ai servizi della sua parrocchia antica e prestigiosa di Santa Barbara, la padronanza piena della parlata sardo-campidanese, il gusto legittimamente soddisfatto di impiegare il tempo per regalare alla sua comunità, e a quella più larga che ama la letteratura nella lingua antica del nostro popolo, il meglio delle sue abilità. Ecco Eliseo Sanna scrittore e poeta, non soltanto traduttore, che da buon aviatore sa fare della periferia il centro e con un’opera dopo l’altra sta riempiendo lo scaffale. A dimostrazione ancora una volta che la letteratura è un fenomeno intimamente democratico, che non conosce esclusive di campo ma dà spazio a chiunque avverta in sé una vena relazionale – di mediazione fra l’oggetto e il lettore – che nella pagina scritta, sempre invenzione ed arte, può materializzarsi.

Non è unico il caso di Eliseo Sanna, ma unico – unico e irripetibile – è lui, come ciascun altro partecipante all’impresa, capace di portare la singolarità delle premesse, lo specifico del mondo delle partenze e anche della regolazione del suo flusso elaborativo, delle opzioni lessicali e perfino metriche, delle forme grammaticali, insomma delle confezioni della scrittura, alla lettura e all’ascolto, all’attenzione e allo studio, al gusto e all’impressione di chi, magari soltanto occasionalmente, prende in mano il libro e comprende come questo sia un ponte a lui gettato da un autore che, per mestiere, dona generosità.

Aveva iniziato con l’uso dell’italiano – lingua nobile unificante le comunità territoriali dello stivale e delle isole grandi e piccole al piede o al fianco – proponendo, nel 2008, l’autobiografico “Peppineddu e il tempo di guerra”, per passare poi, due anni dopo, a “Candu isciemus ascurtai” (entrambe le opere sono presenti nei cataloghi delle edizioni Arcobaleno); del 2012 è “Realtà, storia e fantasia… tutto in poesia (campidanese e italiano)”, pubblicata dalla cagliaritana La Riflessione; del 2014 sono, ancora in campidanese, le sue “Storie Bibliche” – e questo significa  il filone abramitico (passando per Giacobbe-Israele) fino a Mosè ed a Giuditta l’eroina liberatrice ed Ester la regina salvatrice, due delle maggiori figure femminili dell’Antico Testamento – uscite in contemporanea a “S’aggiudanti” (gustosissimo sussidiario lessicale comprensivo di ben 2.500 lemmi campidanesi volti in italiano, anch’esso pubblicato dalle edizioni Arcobaleno).

Ecco ora, fresca di stampa, questa nuova “Storia Biblica” in versi – e si precisa: in metrica e rima! – campidanese, con  un soggetto doppio: perché c’è il Vangelo di Marco (il vangelo del discepolo del capo degli apostoli Simon-Pietro e già prima di Saulo-Paolo) e l’Apocalisse (il testo di chiusura del Nuovo Testamento, firmato da Giovanni apostolo ed evangelista, il solo dei dodici morto vecchissimo di morte naturale – a fronte dei tragici martìri di tutti gli altri – e datosi con speciale obbligazione all’assistenza di Maria nazaretana dopo la morte di Gesù.

Le produzioni religiose in lingua sarda. Ormai sono numerose le versioni in sardo della sacra scrittura. Posso menzionarne alcune delle più recenti e, da non specialista, anzi da profano – profano… incantato – della materia, posso e debbo rimandare ai giudizi critici espressi dai competenti.

Partirei da un lavoro non recente, ma credo di grandissimo pregio. Quello di Gigi Sanna, con prefazione di Antonio Pinna, dal titolo “Pulpito, politica e letteratura” e sottotitolo “predica e predicatori in lingua sarda”, pubblicato da S’Alvure, per conto dell’Istituto di Scienze Religiose di Oristano e dell’Associazione Internazionale per lo Sport, la Cultura e la Solidarietà “Gianni Pirina”, nel 2002. Un volume sospeso fra storia e letteratura, fra religione e cultura popolare che tratta della lingua sarda nell’antico (basso medioevo, Concilio Tridentino) e lungo il secolo XIX ed il Novecento infine, con focus arborensi tanto sulla “scuola oratoria” del seminario di Oristano quanto sulle “lezioni” del canonico Antonio Soggiu (futuro arcivescovo, primo della serie dopo la lunga sede vacante nel primo decennio di vita dello stato unitario), ma aperto ai contributi anche del rettore Salvatore Carboni (autore dei “Discursos”) e del Casu (Sas preigas”), del teologo Eugenio Sanna (dall’immenso suo “Corpus” sono stralciati e presentati in appendice i testi su “San Lussorio martire” e sull’”Inaugurazione del monumento alla B.V.M. nel boschetto del Marchese di Laconi), ecc.

Rilevanti le pagine dedicate al Concilio Plenario Sardo del 1924 in riferimento all’uso del sardo nella liturgia e le considerazioni sulla linguistica presente nel seminario regionale di Cuglieri tanto più negli anni del regime fascista, ecc. Ricchissima anche l’appendice documentaria comprensiva di molti alinea di particolare suggestione e spessore indicativo per la ricerca, come l’elenco delle prediche manoscritte di Antonio Maria Arangino di Belvì o di quelle, pure in sardo e manoscritte, di Efisio Marras, come pure l’antologia di autori che sono preti e vescovi delle più varie regioni dell’Isola (compreso il gran nemico dell’Asproni, il presule carmelitano di Nuoro Salvator Angelo Maria De Martis)…

Comunque, soltanto scorrendo in rapido excursus la sezione della mia biblioteca di casa, e offrire compagnia di titoli ai lavori egregi di Eliseo Sanna, menzionerei intanto i quattro volumi, cinque con il glossario, di “La Sacra Bibbia”, usciti nel 2006 (“Sa Bibbia Sacra” – Testamentu Anticu e Testamentu nobu – bortada in limba sarda dae Bobore Ruiu, presentassione de Mussennore Ottorinu Predu Alberti, prefassione de Massimu Pittau).

Metterei nel buon elenco, del 1990, “Is Evangelius e is Attus de is Apostulus tradussi in sardu campidanesu de Mariu Vargiu”, con prefazione nientedimeno che di Danilo Murgia e “grazias a is cunzillus de su Prof. F. Pilia” – circostanza opportuna questa per ricordare il mio indimenticato amico e maestro esperto e facondo Fernando Pilia. Il testo è riapparso nella collana della Biblioteca dell’identità de “L’Unione Sarda”, nel 2004). E dello stesso autore citerei altresì, del 2000, “Su libru de is salmus”, anch’esso in sardo campidanese.

Più recente, del 2006, sono “Is Evangelius”, ancora in sardo campidanese, a firma di Antoninu Meloni, autore decimese di grande talento, attivo nella confraternita del SS. Sacramento come pure dell’Associazione Santa Greca del suo paese.

Non è molto, ma immagino facilmente come il talento di Eliseo Sanna sinnaese goda di una ben maggiore compagnia di quella che io posso qui richiamare. Ma che mi piace associare ad altri titoli – in larga prevalenza sono testi di sacre rappresentazioni per la settimana santa – che per varie ragioni, talvolta anche di utile relazione personale con autori, oppure, se di autori remoti, con traduttori, confluiscono in un range di speciale affezione e che sempre segnalo ai visitatori della biblioteca: edita, tradotta e introdotta da Sergio Bullegas ecco la “Tragedia in su isclavamentu (de su Sacrosantu Corpus de Nostru Sennore Iesu Cristu”), in logudorese, di cui è autore un parroco ittirese (con ministero prevalente a Villanova Monteleone) a cavallo dei secoli XVII e XVII: Giovanni Delogu Ibba, che inserì il testo nella maggior opera detta “Index libri vitae”, risalente al 1736, con l’intento di vademecum religioso delle persone alfabetizzate almeno del suo territorio. Questo stesso testo, stampato dalla cagliaritana Artigianarte editrice nel 2001, era stato appena l’anno prima pubblicato dalla CUEC a cura di Giuseppe Marci, cui si deve anche la traduzione in italiano oltre ad una dottissima e lunga introduzione.

Con un “esordio” addirittura di Max L. Wagner e “preface” in inglese di Raphael G. Urciolo, uscì nel 1959 per le edizioni della Fondazione Il Nuraghe di Cagliari la “Cumedia de la passion de Nuestro senor Christo”, di cui è autore il cappuccino fra Antonio Maria di Esterzili (la patria del nostro Fernando Pilia!), databile in Sanluri (Sellury) al 1688. La variante sarda qui utilizzata è quella campidanese.

Ho segnalato questo titolo anche per rilevare, con qualche curiosità… un altro bis. Perché il testo di fra Antonio Maria fu ristampato, a cura di Sergio Bullegas, da Ettore Gasperini editore nel 1999 e proposto lo stesso anno in una rappresentazione scenica, sul nostro bastione cagliaritano, dalla compagnia Teatro di Sardegna.

Resto in campo teatrale e vado al mio carissimo Salvator Angelo Spano, giornalista ed esponente politico, diacono della Chiesa di Ales in Villacidro, autore, fra i molti altri suoi anch’essi in lingua arda, di “Sa passioni e sa morti de Gesù Cristu”: “Contada po dda rapresentai ne’ is Cresias in Cida Santa”.

Con delicata presentazione di don Antonino Orrù, vescovo emerito di Ales-Terralba, e di Giovanni Spano – figlio dell’autore e stampatore nel 2006, dopo la dolorosa scomparsa del genitore – il testo era stato offerto dall’autore alla compagnia teatrale promossa a Villacidro dal medico (benemerito per molte ragioni di humanitas sanitaria) Amerigo Balloi.

All’editrice oristanese S’Alvure si devono, nel 1989, i testi liturgici, paraliturgici e musicali tratti da un manoscritto sardo della prima metà del Settecento che Giampaolo Mele, con prefazione di Luisa D’Arienzo, ha studiato fra i manoscritti rinvenuti nel monastero arborense di Santa Chiara e riproposti sotto il titolo in italiano “La passione di Nostro Signore Gesù Cristo”. A dimostrazione, ancora una volta, dei (copiosi) tesori che è ipotizzabile ancora siano custoditi negli archivi religiosi oltre che in quelli pubblici dello stato e delle amministrazioni locali.

Sul medesimo filone e per chiudere questa rapida rassegna, segnalerei, di Lucio Spiga – un giornalista e saggista di grande talento della Sardegna d’oggi – “Sa Passioni e Resurrezioni de Gesu Cristu”, che s’ispira alla “Passion” di fra Antonio Maria de Esterzili e vira però per sensibilità altre.

E’, questo della letteratura religiosa in lingua sarda, un campo che avverto prezioso e nel quale non posso inoltrarmi con alcuna autorevolezza, o per difetto di alcuna autorevolezza. Avverto interamente la preziosità del filone linguistico sardo in generale, seppure sia del tutto alieno, anzi fiero avversario, di una strumentalizzazione dei valori propri della lingua dei nostri padri e delle nostre madri, in termini politici, a sostegno di una causa nazionalitaria e indipendentista che avverto intimamente reazionaria e suscettiva di fare soltanto il male della nostra gente, soprattutto di quella più debole.

Studiando Asproni mi imbattei una volta nella personalità distintissima di suo zio e patrono canonico Melchiorre Dore, bittese a lungo parroco di Posada prima di confinarsi nel capitolo di Santa Maria. Di suo conobbi “Sa Gerusalemme vittoriosa”, in versi logudoresi, uscita addirittura nel 1842 e ristampata (nell’edizione posseduta) dalla Tipografica nuorese di Solinas nel 1977.

Per aspetti di variante linguistica e di tempistica storica, assocerei il lavoro del Dore a quello del reverendo thiesino Giovanni Battista Casula, vicario generale a Sassari, autore de una traduzione della famosa “Imitazione di Cristo”, “S’imitassione de Cristos”, pubblicata una prima volta nel 1871 ed un a seconda nel 1901, e più recentemente, nel 2009, “cuidadu de Toninu Cabizzosu e Mateu Porru”, autori della “presentada”.

A proposito di Tonino Cabizzosu merita evidente di essere citata la curatela, sviluppata insieme con Mario Puddu, de “Un catechismo in sardo del 1777. Un eccezionale documento di fede”, uscito per la Biblioteca dell’identità de “L’Unione Sarda” nel 2004. Si tratta del “Compendio della dottrina cristiana pubblicato ad uso della diocesi di Cagliari ed altre unite, colla traduzione in lingua sarda” di cui è autore Francesco Maria Corongiu. Illuminante la introduzione storica del professor Cabizzosu.

Proseguo in un viaggio ormai leggero fra i titoli dei cento testi in lingua, sui quindicimila della biblioteca, perché altri mi pare sollecitino adesso la modesta ribalta che posso offrire soltanto menzionandoli. Ma mi limito, volendo seguire sempre e soltanto la suggestione degli affetti, ai lavori di don Giuseppe Ruju che prendo in blocco (anche lì che, fra l’altro, una “Passione”, anche un provocatorio “Parlare in sardo”, pubblicato nel 1989 dalle Edizioni della Torre) e che costituiscono come una prosecuzione delle geniali pagine lasciateci da predi Pedru Casu, partendo ovviamente da “Sa Divina Cumedia de Dante in limba salda” e dai “Poemetti” (ma anche dalle “Lettere in versi” inviate a fior di corrispondenti: da Montanaru a Remo Branca a Giorgio Bardanzellu…). Su Ruju ricordo il bel lavoro biografico curato da Tonino Cabizzosu nel 2012, per conto delle Edizioni della Torre,  dal titolo “Giuseppe Ruju, un parroco-scrittore per l’identità sarda”).

Ho ricordato buon padre Dante tradotto da Pietro Casu. Perché allora non associare a tanto “Sa Cummedia Divina” con i “cantigos – stampati anch’essi dalle Edizioni della Torre a partire dal 2000 – in lingua sarda “bortados dae Paulu Monni”, per lunghi anni parroco giuseppino di Nuoro?

Uno spazio a sé meriterebbe forse Baizu Cossiga con il suo “Su Poeta Christianu o siat Sa Doctrinetta Sos sette Salmos Penitenziales Sas Lamentassiones de Geremia”, uscita a Sassari nel 1925 e riproposta da Gallizzi nel 1984.

L’indimenticato amico Francesco Matta – che fu sindaco di Villacidro negli anni ’70 ed ebbe sempre la passione della raccolta dei testi antichi a rischio di dispersione – mi donò tempo fa il “Catechismu maggiori” che egli aveva fatto ristampare in anastatica: si trattava del “Compendiu de sa dottrina cristiana po is classis superioris prescrittu de su Summu Pontefici Papa Piu X in sa provincia romana e adottau in totu sa Sardigna”, anno 1910.

Da altro amico avevo avuto l’originale del “Compendiu della dottrina cristiana ristampato con aggiunte per ordine dell’eccell.mo e rev.mo monsignore don Paolo Maria Giuseppe Serci-Serra arcivescovo di Cagliari ad uso della sua archidiocesi”, stampato dalla tipografia Dessì, a Cagliari, nel 1895 ed a cui dedicai un articolo sulla rivista “Chorus” e su “La Gazzetta del medio Campidano” (che qui sotto riproduco a testimonianza di un amore non recente alla materia).

Aggiungerei appena che dello stesso 1895 è “Sa Santa Missa” o in maggior estensione la “Esposissione populare de sa Santa Missa in dialettu sardu de su sazerdote Antoni Manca”, uscito per i tipi di Dessì a Sassari con dedica all’arcivescovo Diego Marongiu Delrio, riprodotto in anastatica da Gia editrice nel 1991.

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1895, Quel catechismo sardo-campidanese. Paulu Maria de su Collegiu teologicu de Casteddu, po grazia de Deus e de sa S. Sedi Apostolica Arzobispu del Casteddu, Vessillariu de sa Santa Cresia Romana, Assistenti a su Sogliu Pontifiziu, ecc. ecc. approvò il nuovo Compendio della Dottrina Cristiana, bilingue italiano-sardo campidanese, giusto centodieci anni fa, nella festa liturgica di San Saturnino martire. Articolato in tre catechismi-questionario, a loro volta suddivisi in lezioni “mirate” per fasce anagrafiche di fruitori, esso fu affidato principalmente alle parrocchie.

«Po affezionai is pipius a sa scola de Gesù Cristu, is maistus s’hant a portai cun issus cun summa amabilidadi, imitendu in custu su Divinu Maistu»: questo fu l’indirizzo pedagogico impartito a coloro che avrebbero dovuto organizzare i corsi, distinti per classe d’età e per sesso.

In apertura d’ogni lezione il catechista avrebbe dovuto recitare la preghiera canonica: «O Beata Trinidadi, Babbu, Fillu e Spiritu Santu, tres Personas e unu solu Deus, inspirai in su coru miu viva fidi, firma speranza, ardenti caridadi, o Beata Trinidadi». Ed al termine quest’altra orazione: «Signori miu Gesù Cristu, mi pentu cun totu su coru de os hai offendiu e propongu cun sa grazia bosta de non offendiri prus, o amabilissimu Gesus».

Il testo emanato da mons. Serci-Serra esattamente dieci mesi dopo il suo arrivo nella cattedrale cagliaritana non era, in assoluto, una novità: costituiva la ripresa pressoché integrale del catechismo già in vigore nella diocesi piemontese di Mondovì ed adottato nel 1777 dal vicario capitolare can. Francesco M. Corongiu e successivamente ristampato dagli arcivescovi Melano, Cadello, Navoni, Marongiu-Nurra e Berchialla. (Dopo il Serci-Serra anche mons. Balestra emanerà, d’intesa col resto dell’episcopato isolano, un Compendio in sardo. Sarà nel 1909 e due anni dopo uscirà pure un Catechismu maggiori).

Vescovo “tutto chiesa”, come lo rappresenta efficacemente, nella preziosa galleria dei suoi ritratti, il caro e sempre compianto can. Luigi Cherchi, autore dello studio I vescovi di Cagliari, mons. Serci-Serra orientò l’intera sua azione pastorale nell’archidiocesi affidatagli da Leone XIII (il papa della Rerum Novarum) lungo quelle stesse direttrici che aveva seguito nelle precedenti esperienze episcopali a Tortolì ed Oristano: formazione dottrinale del clero e diffusione sul territorio dell’opera catechistica.

Il Compendio uscito nel 1894-95 dalla tipografia di Giuseppe Dessì consta di ben 360 pagine. Esso è introdotto da una lunga premessa-avvertenza dello stesso arcivescovo, indirizzata «a su Venerabili Cleru Nostu e Populu stimau», cui augura sollecitamente «Saludi e Spiritu de scienzia e de piedadi», e spiega la ragione dell’opera con opportuni richiami a Sant’Agostino ed al recente magistero cattolico. A tutti – «Parrocus, Curas, Sacerdotus ed Preideddus» – Monsignori ordina di provvedersi, nell’esercizio della loro missione educatrice, del testo ufficiale, raccomandando inoltre «chi sa pubblica istruzioni… si fazzat in Cresia po s’ispaziu de un’ora in su merì de dogna Dominigu de s’annu… e dogna dì de Cresima, eccettuada da Cida Santa, is dis de s’Orazioni de is Quarant’Oras, e una dì de vacanza in ogna Cida».

E ancora: «Ordinaus a is Parrocus, Vice-Parrocus e aterus cunfessoris, de inculcai a is Babbus, Tutoris, e Capus de famiglia, comenti obbligazioni sa prus gravi, cudda de mandai is fillus, pupillus, e serbidoris insoru tantu ominis, che feminas a sa pubblica istruzioni… ancora cun negaiddis is Sagramentus in casu de discuidu po tempus considerabili…».

Molto sobrio – appena tre lezioni – è il catechismo per la prima classe che si riferisce alla «cognizione dei Misteri principali di nostra Fede», alle «parti della Dottrina Cristiana in generale», agli «atti di Fede, di Speranza, di Carità e di Contrizione». Comprende invece sette lezioni il catechismo per la seconda, «da farsi a quelli che debbono disporsi alla confessione».

Si parte qui dal segno della croce, di cui si spiega il simbolismo, per arrivare alle principali virtù ed obbligazioni sacramentali e devozionali del buon cristiano. Tutto ciò attraverso l’esplorazione dei dogmi dell’Incarnazione, della Parusia e del Giudizio particolare ed universale.

La dottrina è, ovviamente, quella della tradizione dogmatica, ed i formulari adottati, elementari per la specifica bisogna, sono gli stessi che hanno accompagnato la formazione cristiana delle generazioni che hanno attraversato i secoli e sono arrivate fino al Vaticano II (cresciute, le ultime almeno, alla scuola catechistica di Pio X).

Assai più corposo è il terzo catechismo costituito da ben 34 lezioni, distinto in tre parti: il Credo, la Preghiera, i Comandamenti e i Sacramenti. Di particolare interesse, anche per la sua attualità e problematicità nel dibattito interno alla Chiesa, è il capitolo dedicato alla penitenza (a sua volta articolato in ben undici paragrafi, a dimostrazione dell’importanza annessa, dalla Chiesa del tempo andato, al sacramento ridefinito dal Concilio giovanneo e paolino “della Riconciliazione”). Chi ha memoria del rilievo attribuito, nell’educazione parrocchiale o collegiale dei decenni passati,  alla Confessione con può che valutare, anche con esito duramente critico, il modulo pedagogico perfino deresponsabilizzante (e in qualche caso – e parrebbe di dire il contrario – terroristico: si pensi al Dedalus di Joyce) – adottato per lunghi secoli dalla Gerarchia-Sinedrio nei suoi infiniti scalini.

Appendice alle lezioni è una dettagliata illustrazione delle maggiori osservanze ecclesiastiche e delle feste liturgiche, dall’Avvento al Corpus Domini (non ancora al Cristo Re), alle solennità in onore della Vergine e dei Santi. Seguono ancora varie “Istruzioni” dogmatiche e di pietà, incluse quelle relative alle indulgenze.

Conclude l’opera una ricca raccolta di preghiere da recitare la mattina o la sera, a commento dei misteri del Rosario, per il rinnovo dei voti battesimali, ecc.

In tempi di recupero della cultura autoctona e degli stessi fondamentali valori linguistici non sarebbe cosa oziosa uno studio, che taluno in verità ha già avviato anche in ambito ecclesiastico regionale, della tradizione liturgica, devozionale e catechistica isolana quale s’è sviluppata nel corso dei due millenni di cristianesimo.

Il Compendio della dottrina cattolica in limba offerto fra Settecento e Ottocento dai vescovi cagliaritani ad una popolazione in larga misura rurale ed analfabeta, costituisce certamente uno dei passaggi più significativi di quel repertorio delle fonti da cui partire per gli approfondimenti delle tecniche didattiche e della prassi invalsa negli usi di Chiesa.

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Intervista ad Eliseo Sanna.

Quale la sua formazione umana che ha preparato l’incontro così felice con la letteratura religiosa sarda?

«Sono del 1928. La mia formazione si è compiuta in anni in cui la vita sociale era caratterizzata dalla conoscenza e dal rispetto reciproco fra le persone, dalla condivisione e dalla solidarietà. Una società semplice e povera, in cui quasi tutti si conoscevano ed erano consapevoli che solo grazie al sostegno dall’uno offerto all’altro si poteva progredire».

Una società segnata dalla religione e dai suoi valori. Così anche in famiglia?

«Certamente. La mia era una famiglia profondamente religiosa e devota. Partecipai attivamente alle attività organizzate dalla mia parrocchia sinnaese e nel 1939 – era la vigilia della guerra, avevo dieci-undici anni, vinsi le finali diocesane di catechismo garantendomi la partecipazione a un viaggio premio di una settimana in Vaticano.

Fu una esperienza nuova e gratificante, che consolidò e fortificò i miei già presenti orientamenti di fede e religione, che poi avrebbero caratterizzato tutta la mia lunga vita».

Com’era la vita di un ragazzo in quegli anni, nella Sardegna rurale non però così lontana dalla grande città?

«Sono cresciuto in un ambiente di paese circondato dalla natura. L’interazione tra uomo e natura, nelle società a vocazione agro pastorale come era la nostra di Sinnai, è ovviamente fortissima e quindi la conoscenza della flora e della fauna costituì anche per me, allora, un presupposto necessario perfino per il sostentamento. Erano frequenti allora le uscite in campagna, per la raccolta di legna da ardere o per la caccia di animali utili a sfamarci. Nella mente ho conservato il ricordo di mille episodi, e sono riuscito poi a riportarne un buon numero anche in qualcuno dei libri che ho stampato negli anni recenti».

E la scuola?

«Frequentai con profitto le elementari e la secondaria a indirizzo agrario, approfondendo aspetti legati alla coltivazione che, uniti alla osservazione e alla pratica, sarebbero rimasti sempre presenti nei miei interessi, perché il rapporto con la campagna, anche per il suo sano sfruttamento, non è mai venuto meno. Ma accanto alla passione per la natura e per la campagna sinnaese, ho sempre coltivato l’amore alla lettura, divorando da allora ad oggi centinaia di romanzi dei classici della letteratura italiana e mondiale. Vuoi per predisposizione, vuoi per il tipo di studi intrapresi da ragazzo, sviluppai, posso dirlo oggi che viaggio per i 90, eccezionali e… invidiate doti di memoria… Ricordo ancora oggi interi canti danteschi, così come canzoni e poesie. E’ grazie alla mia memoria che mi sono potuto permettere, in età ormai anziana, di scrivere tanto, senza bisogno di molti supporti cartacei…».

Andiamo alla religione, che costituisce molto del mondo che lei ci restituisce con i suoi libri.

«Sono cresciuto, ho detto, con una forte fede religiosa, con il senso del dovere. Quel certo senso di curiosità verso il nuovo, che si manifestava in me forse soprattutto nella lettura delle pubblicazioni che erano indirizzate al pubblico dei ragazzi della mia epoca – gli anni del fascismo, poi gli anni della guerra – non mi distraeva:   rimanevo un ragazzo presente e attivo nelle responsabilità quotidiane mie proprie e della mia famiglia, oltreché della vicina parrocchia. Aiutavo mio padre, che era uno stimato muratore, e da lui acquisivo gradatamente la conoscenza della tecnica e forse anche la saggezza dell’esperienza. Così modellato dalla vita di famiglia, di parrocchia e della scuola, mi avviai alla giovinezza e poi alla vera e propria età adulta. Per un po’ frequentai anche la scuola superiore a indirizzo industriale, a Cagliari. Dovevo recarmi in città  quotidianamente in bicicletta. A causa dei bombardamenti che colpirono la scuola, dovetti però abbandonare. Comunque, malgrado questa interruzione forzata, che ha sicuramente lasciato un segno di dispiacere in me, non smisi mai di leggere e informarmi per capire il mondo, le cose del mondo. Iniziai a lavorare che ero ancora giovanissimo, per contribuire alle risorse della famiglia: fui garzone di drogheria a Cagliari, quando ancora nel 1943 infuriavano i bombardamenti. Ogni giorno su e giù, da Sinnai a Cagliari. Dopo alcuni anni, dunque finalmente nel dopoguerra, mi arruolai in Aeronautica intraprendendo la carriera di Sottufficiale. Nel 1960 mi sposai, mettendo su casa nel mio paese».

Il suo mestiere è diventato lo scrivere, quindi, o meglio: il riflettere e lo scrivere, tanto in italiano quanto in sardo. Come vede il mondo d’oggi un uomo della sua età e della sua esperienza?

«Ora sono in pensione da un bel po’ di anni e  fintanto che il fisico regge continuo a occuparmi della coltivazione della mia vite o delle mie mandorle ed olive, cercando di trasmettere ai figli  (con risultati però molto modesti) questa mia passione. E’ chiaro comunque che molto ho dovuto abbandonare. Così il tempo libero lo impiego scrivendo: prosa e versi, italiano e sardo. Ho affrontato anche opere molto faticose e sfidanti, ma con perseveranza e regolarità di cui mi faccio vanto. Sono sempre stato un idealista, nettamente contrario al trasformismo e all’opportunismo specie dei politici, pronto alla solidarietà e alla partecipazione pubblica: la mia matrice è quella cristiana. Sono un uomo di altri tempi, che pur in mezzo ai cambiamenti epocali vissuti non ha mai perso la fede in Dio e l’attaccamento alla famiglia, che si è sempre sforzato di costituire un punto di riferimento in famiglia e nello spazio sociale. Purtroppo rilevo che l’attuale società, sia in ambito politico che religioso, segue logiche di interesse spesse volte egoistico, senza rispetto del merito e dell’esperienza».

L’importante è andare avanti con buona coscienza e scrivere sempre, o no?

«Sicuro. Ma a guardare quel che si pubblica… direi che sia in ambito amministrativo che religioso si tende a premiare produzioni anche molto modeste sul piano dei contenuti, valorizzando più lo sponsor che la sostanza e la qualità del prodotto. Succede pertanto che trovino spazio, a scapito di produzioni indipendenti – parlo per esperienza – , opere che si rivelano sterili esercizi di egocentrismo culturale e che nulla hanno da trasmettere alla platea dei lettori,  nessun messaggio positivo o didattico. Io, modestamente, mi sono sempre sforzato di imprimere, nei miei libri, un messaggio, una lezione di vita, un invito a conoscere la storia passata, perché è in essa che troviamo le radici di ciò che siamo, o almeno la parte buona di ciò che ci è rimasto. Sono deluso, ma la buona coscienza supera tutto».

 

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    4 Comments to “La religione in lingua sarda. Il contributo di Eliseo Sanna, di Gianfranco Murtas”

    1. By mario puddu, 7 novembre 2015 @ 15:51

      Apu lígiu cust’artículu de Gianfranco Murtas isceti ca non connòsciu custu Eliseo Sanna autori de libbrus in sardu chi no apu mai biu ma bollu circai e agatai, assinuncas nd’ia fatu diaderus a mancu (puru cundividendi in prenu medas valoris cristianus e democratcus), ma fatzu a mancu de valutai sa cultura sua dipendentista assurda. E mancu si fait calincuna domanda apitzus de sa chistioni de sa língua, a parti un’aprétziu ‘pilosu’ de custa.

      • By salvatore cubeddu, 9 novembre 2015 @ 07:22

        Caro Gianfranco,
        nello scorrere piacevole ed interessante del tuo scrivere e ragionare sull’opera dell’Autore sinnaese, protagonista di questo bel saggio, il lettore si imbatte all’improvviso in uno scoglio che lo sorprende e interroga. Eccolo:
        “E’, questo della letteratura religiosa in lingua sarda, un campo che avverto prezioso e nel quale non posso inoltrarmi con alcuna autorevolezza, o per difetto di alcuna autorevolezza. Avverto interamente la preziosità del filone linguistico sardo in generale, seppure sia del tutto alieno, anzi fiero avversario, di una strumentalizzazione dei valori propri della lingua dei nostri padri e delle nostre madri, in termini politici, a sostegno di una causa nazionalitaria e indipendentista che avverto intimamente reazionaria e suscettiva di fare soltanto il male della nostra gente, soprattutto di quella più debole”.
        Io sono un fautore della ‘causa nazionalitaria e indipendentista’ e mi rimprovero ogni giorno di non fare abbastanza per la difesa e la promozione della nostra lingua, che rappresenta la prima e grande ricchezza da difendere e da promuovere.
        La nostra lingua ha gli stessi nemici dei sardi che difendono la terra dalle perforazioni ad Arborea, dei manifestanti che a Porto Pino vengono manghenellati dalla polizia quando si battono per i diritti del popolo sardo sul proprio territorio, delle comunità locali che non sopportano di dover scegliere tra morire per mancanza di lavoro o perire di inquinamento.
        Sono sicuro che i ‘martiri italiani del Risorgimento’ sarebbero con loro e griderebbero gli stessi slogan in sardo, non nella lingua degli austriaci.
        La nostra lingua ha avuto come nemici la scuola, la Chiesa e l’intellettualità. L’Arcivescovo Mani, che ci ha visto compagni nel contrastarlo, è anche colui che ha negato con pervicacia l’utilizzo della lingua sarda anche solo in parti della liturgia della messa in occasione di ‘sa die de sa Sardigna’.
        Ne approfitto per aggiungere alla tua interessante bibliografia il testo “Lingua sarda e liturgia”, ed. Domus de Janas, Cagliari, 2008, con i saggi di Bachisio Bandinu (presidente della Fondazione Sardinia), don Antonio Pinna (professore ordinario di Sacra Scrittura presso la Facoltà Teologica della Sardegna), padre Raimondo Turtas (professore emerito di storia della Chiesa, il più importante storico della Chiesa sarda). Lo scrivo per l’eventuale lettore, so bene che tu li conosci. Nei loro saggi ci si sofferma sull’inestricabile legame tra l’identità dei sardi e la lingua. La sua difesa è, quindi, fondante per ogni militante sardista e indipendentista. Si tratta di obbligo morale e politico, non di strumentalizzazione. Si può stare dalla parte della lingua sarda senza essere indipendentisti. Non ci si può dire indipendentisti senza stare dalla parte della lingua sarda.
        Tant’è: per caso vedi altrettanta passione culturale nei seguaci dei cosiddetti ‘partiti italiani’?
        Me ne rendo conto: anch’io dovrei scriverti in sardo. Lo ammetto: ne sono stato tentato. Non lo faccio perché a un fratello, che si sente soprattutto un ‘patriota italiano’, non voglio fare il torto di utilizzare la nostra comune lingua come arma contundente nel momento in cui mi professo indipendentista e ‘un patriota sardo’. Un abbraccio, SALVATORE CUBEDDU

    2. By gianfranco murtas, 7 novembre 2015 @ 14:41

      Caro Salvatore,
      conosco l’ottimo “Lingua sarda e liturgia”, da te richiamato: supersaggio con i contributi competenti e sapienti di Bachisio Bandinu, Antonio Pinna e Raimondo Turtas, tre intelligenze fra quelle che, quando mi capita di intercettarle nell’ascolto o nella lettura, più mi muovono a gradite suggestioni, oltre che ovviamente a nuova conoscenza ed a nuova comprensione dei fatti e degli uomini ora della Chiesa, ora della Sardegna, ora della Chiesa sarda. Per la dottrina e per la chiara scrittura dei rispettivi interventi. A ciascuno di loro mi riportano poi sentimenti personali, ravvivati, se può dirsi così, dalla comune partecipazione al convegno sul decennale del Concilio Plenario Sardo, organizzato da alcune associazioni, fra cui Cresia, il MEIC e altri, abbandonato per paura dalla ACLI e, per la formalità, dall’Azione Cattolica, censurato da alcuni vescovi e settimanali diocesani (nel novero ricordo sempre don Ignazio Sanna – censore sublime – e il direttore de l’Arborense – censore in secundis, e per questo promosso, dalla CES a presidenza Miglio, a capo dell’informazione ecclesiale regionale). Non avevo inserito il titolo della bella edizione di Domus de Janas forse perché non volevo duplicare quel che già avevo riportato scrivendo in omaggio al nostro don Mario Cugusi, parroco della concattedrale diocesana di Serdiana il 30 agosto scorso, proprio nel sito di Fondazione Sardinia. Evidenziando, della pedagogia religiosa di don Cugusi, giusto l’impegno a favore della lingua sarda nella liturgia, nelle sue motivazioni e nel suo esercizio non soltanto sperimentale.
      Sul merito della questione che poni – nazionalitarismo e dintorni –, certo rimango nella condizione di chi osserva, e se ha fiato denuncia, ciò che i Mau Mau osservarono e denunciarono, secondo i versi fissati da Cicito Masala nelle pagine di “Requiem per il terzo mondo”, all’interno di quella magnifica silloge civile che conosciamo come “Lettera della moglie dell’emigrato”, della libreria Feltrinelli (1968): «Vennero gli uomini bianchi / e portarono il loro Dio. / C’insegnavano, quando preghiamo, / ad alzare gli occhi al cielo. / Mentre guardavamo il cielo / ci rubarono le nostre terre». Colonialisti sardofobi? All’incontrario don Arrigo Miglio celebrante a sa die de sa Sardigna amico della causa sarda? Anche se si mostra ancora indifferente alla richiesta di spiegazioni di don Cannavera sulla esclusione di tanti ragazzi del carcere minorile dall’incontro con il papa, per far posto all’on. Cellino al primo banco, fra i miei amici Pittau e Lai, e a tanti pensionati dell’amministrazione penitenziaria?
      E’ stimabile un vescovo per la messa che celebra in duomo, rinnovato (non soltanto per l’origine piemontese) arcivescovo Melano, anche se non risponde, con soave educazione, a chi lo interroga? Pastore con l’odore delle pecore? Che non interviene come si deve a recuperare fiducia nelle comunità ferite dai sospetti – almeno dai sospetti – di opere malvage di chierici su bambini e adolescenti? Che non affronta la questione-scandalo del devozionismo ateo, ormai insopportabile, di Vallermosa? o manda a guidare una parrocchia di diecimila anime chi dall’altare di una ben minore comunità aveva suggerito la corda e la macina ai genitori che avevano disertato, con i loro bambini, la messa estiva per darsi invece al mare?
      Quale è la tavola valoriale che conta nel giudizio su un vescovo che celebra per sa die de sa Sardigna – avendone l’applauso dei nazionalitari-indipendentisti – ma non profuma di gregge, per lo sconcerto del pontefice che tutti ci interroga anche dentro il nostro meridiano e il nostro parallelo?
      Che per te possa qualificarsi di rilievo subordinato, questa mia dubbiosa riflessione, lo posso capire. Come posso capire, ma certo non condividere – ove avessi potuto vivere il loro stesso tempo, io che ho scritto di Silvio Mastio e Raffaele Angius, di Cesare Pintus e dei sardisti antifascisti e compartecipi-costituenti della Repubblica italiana nata dalla resistenza – la scelta dei fasciomori nel 1923. Una dittatura in cambio del miliardo per le opere pubbliche. Sacrosante opere pubbliche, sacrosanta tutela legislativa della lingua sarda. Per cui ora la zona franca, ora il bilinguismo, ora il neutralismo militare nelle forme dottrinarie e sentimentali non-politiche, tutto rientra in un atteggiamento che il nazionalitarismo – a mio avviso corruzione del sardismo di scuola democratica, mazziniana e cattaneana, quale fu nei primi anni ’20, e nella stagione della testimonianza antifascista ed in quella della costruzione repubblicana fino al 1968 – esaspera in chiave non antigovernativa (quanto malgoverno e immoralità nell’establishment di Renzi dopo che in quello di Berlusconi!) ma antiitaliana. Cosa che avverto come una bestemmia civile.
      Nella logica dell’imbarcazione omnibus e della puntata contro le coste della penisola e magari anche della Sicilia – quella di Borsellino e di Falcone, di Peppino Impastato e del cardinale Pappalardo e di don Giuseppe Puglisi – si prende a bordo anche… l’indipendentista Mauro Pili, già militante del peggio della politica italiana di questo ultimo ventennio (il paganesimo profumato dei forzisti e puzzolente della Lega bossiana, irridente alla bandiera e scialacquatrice del pubblico denaro). Commedie. Come commedia fu quella di un sindaco, mi pare di Tortolì, che dopo aver comiziato per l’indipendenza della Sardegna confluì, all’incontrario, in Forza Italia, privo perfino del pudore lessicale (o del senso del ridicolo)… O commedia fu la legge sui campi di golf, approvata a Cagliari dalla destra con sostegno sardista (??), sotto minaccia di crisi regionale da parte dei cosiddetti riformatori (davvero cosiddetti, invece democristiani decotti), e rimandata indietro, perché speculativa, dal governo di Roma…
      Se non si ha della politica una idea come di un sistema di valori universali calati in una realtà storica e territoriale particolare, e si guarda al particolare come se il mondo non esistesse nelle relazioni del quotidiano che fanno trama di storia, non si dà respiro alle speranze di una società che ambisca essere inclusiva, possibile solo se in campo operano politiche generali.
      La lingua sarda è un bene prezioso: menti ben più autorevoli di questa mia gregaria lo affermano, e credo sia consapevolezza generale. E se governo e parlamento di Roma non sono riusciti a individuare gli strumenti adeguati alla sua tutela e valorizzazione, sarà questione di battaglia politica e di spendita di autorevolezza, a sostegno della causa, contro ogni sordità, da parte di una classe dirigente regionale capace e dignitosa. Che c’entra la prigionia della tessera di un partito italiano? Che c’entrano, nell’altro senso, l’Italia e le sue istituzioni, il governo e il parlamento italiani, con lo spreco di denaro pubblico dai consiglieri regionali della Sardegna ora a processo? Se l’intero ordinamento regionale è oggi esposto a riflessioni critiche non sarà per le tentazioni alle male arti dell’Italia, ma per il discredito di una classe dirigente locale a cui i nazionalitari non hanno mai badato.
      Dov’erano i nazionalitari e i sardisti, strapagati (in Consiglio, magari anche a Montecitorio) al pari degli altri, quando gli sprechi fuori legge avvenivano in crescendo, nel palazzo ovattato di via Roma, sulle spalle della cittadinanza?
      Il dramma nostro, il primo dramma nostro, è che noi sardi siamo, all’ingrosso, come gli altri. Mi pare di ricordare lo sostenesse – per dire adesso un nome di prim’ordine – lo stesso Lussu, credo nel suo articolo sul numero speciale de “Il Ponte” del 1951. E cos’è questo “popolo sardo” indistinto? Nel popolo sardo indistinto sono compresi i malfattori, gli speculatori delle coste, i palazzinari delle città, i qualunquisti d’ogni vil razza. Soltanto la politica dei valori universali che recupera le categorie ideali che hanno costruito il nostro tempo – democrazia, libertà, socialità – darà futuro ad una società in naturale evoluzione, sempre più lontana dalle scatole confezionate con la mitologia irrispondente. E salvata l’Europa dalle febbri tecnocratiche che la sviliscono, la Sardegna sempre più meticciata non si farà europea saltando l’Italia, come sembra di capire ascoltando questi nazionalitari che hanno perfino paura di pronunciare il nome bello della patria di San Francesco e Dante, di quella Italia che è la comunità delle comunità territoriali come la storia le ha generate e sviluppate associandole, e fra le quali anche noi siamo chiamati a dare – come una vocazione naturale – il meglio di quanto possiamo. Comprendendo che ogni originalità, ogni identità scoperta e nutrita, non può vivere dell’aria pesante dell’autoreferenzialità e dell’autosufficienza, ma può e deve espandersi in chiave relazionale, offrendosi a comunità più larghe e con quelle procedere, fino alla utopia della fraternità planetaria. Qui vale padre Balducci, vale la sua icona dell’uomo planetario.
      Anche la questione della lingua sarda sarà costretta a prendere questa via, non altre. Recuperando, pretendendo lo status che le compete, dentro la grande comunità nazionale italiana, collaterale alla lingua di Manzoni e Pasolini, della Deledda e Dessì, di Cambosu e Salvatore Satta, alla lingua che i grandi papi non italiani hanno, ancor più negli ultimi trent’anni di modernità, fatto lingua internazionale, lingua di relazioni umane costruttrici del nuovo.
      Caro Salvatore, questa è la mia opinione di sardo sardo, di sardo italiano, figlio di generazioni che hanno faticato conquistandosi la vita fra i campi dell’agricoltura umile del Campidano e la spietatezza delle miniere di Montevecchio e Ingurtosu. Avi che pensavano e parlavano il sardo, che hanno trasmesso a noi, pur non stretti sardofoni, l’amore alla lingua della donata e condivisa storia isolana al pari dell’amore ai grandi valori universali di giustizia ed emancipazione sociale. E all’idea di Italia come dono di provvidenza.
      Abbracci cari, Gianfranco Murtas

      • By salvatore cubeddu, 9 novembre 2015 @ 07:28

        Caro Gianfranco,
        noi due facciamo ragionamenti molto simili: sulla fede in Gesù Cristo e sulla sua Chiesa (io, però, su mons. Miglio ho un’idea meno severa della tua); perché siamo cattolici praticanti; sui valori fondanti della modernità (libertà, uguaglianza, fraternità), perché siamo militanti democratici; sul sardismo, in quanto entrambi studiosi del fenomeno (ma io dimostro che l’indipendentismo è un filo rosso già impiantato all’inizio della vicenda). Una sola importante differenza, con le immancabili conseguenze: tu scegli di essere italiano pur essendo sardo, io scelgo di essere sardo nonostante l’educazione scolastica-universitaria-lavorativa italiana. Non è poco. Ma non mi impedisce di leggerti, di apprezzarti e (perché no?) di aspettarti sulla mia riva. Un abbraccio SALVATORE CUBEDDU