DA ATLANTIDE AI GIGANTI DI MONTE PRAMA: I NODI AL PETTINE NELLA RICOSTRUZIONE DI UN DIBATTITO, di Federico Francioni
Premessa – Riprendere la discussione evitando i toni esasperati – I cinque punti di Sergio Frau (con alcune obiezioni) – Atlantide e gli scavi in corso nel Sinis – Momentaneo e parziale “oscuramento” della statuaria nuragica – Indispensabile un “ritorno” a Lilliu – Conclusioni.
Premessa. «Per noi è secondario affermare che la Sardegna sia l’isola sacra di Esiodo, la Tartesso della Bibbia o l’Atlantide di Platone. Queste ipotesi sono secondarie rispetto alla grandiosità del lascito che è davanti ai nostri occhi e in gran parte ancora sotto terra o ricoperto dalla macchia mediterranea. L’eccezionalità dell’evidenza non ha necessità di forzare alcun processo di mitopoiesi: le diecimila torri sono comunque una realtà […]» (Anonimo, Un sogno chiamato Nurnet, Condaghes, Cagliari, 2014, p. 10). Non si può che concordare pienamente con queste affermazioni, ma appare indispensabile ricostruire alcuni snodi e passaggi di accese polemiche che, evidentemente, non riguardano solo il mondo degli archeologi. Chi scrive, privo com’è delle loro specifiche competenze, ritiene però essenziale uno sforzo tendente alla ricostruzione storica di un dibattito che richiederebbe anche conoscenze sul piano massmediologico, indispensabili per analizzare l’impatto di determinate scoperte sulla società, la cultura, le mentalità dominanti.
Riprendere la discussione evitando i toni esasperati. L’esposizione mediatica della Sardegna – dalle roventi polemiche sul bestseller di Sergio Frau (Le colonne d’Ercole. Un’inchiesta. La prima geografia tutt’altra storia, Nur Neon, Roma, 2002) sino alle più recenti notizie di cronaca sugli scavi archeologici nella penisola del Sinis ed in particolare a Monte Prama – mostrano sempre più che temi e problemi di carattere storico-culturale ed archeologico vanno ben oltre l’area degli addetti ai lavori, dotati di competenze scientifiche da cui, sia ben chiaro, non si può e non si deve assolutamente prescindere. Infatti le scoperte illustrate fin dal 1977 nella monografia di Giovanni Lilliu, Dal betilo aniconico alla statuaria nuragica (comparsa su “Studi sardi”, nonché in volume a parte, edito da Gallizzi, Sassari) possono costituire un banco di prova per le tesi di Frau. Oggi si tende, mi pare, a dimenticare o a trascurare quest’opera di Lilliu; per alcuni versi abbiamo assistito ad una sorta di rimozione, oppure a prese di distanza, se non a critiche aperte, da parte di studiosi vecchi e giovani: una delle più valide eccezioni è però costituita dalla cospicua produzione scientifica di Raimondo Zucca, archeologo e docente nell’Università di Sassari, che anche di recente ha riconosciuto la fondamentale rilevanza di quel testo di Lilliu (cfr. il saggio di Zucca, L’Heroon di Monte Prama nelle pagine di Giovanni Lilliu, in “Quaderni bolotanesi”, n. 40, 2014).
Il successo della principale opera di Frau si può spiegare – almeno parzialmente – con l’appoggio che l’autore, già curatore di 700 inserti, poi inviato de “La Repubblica” su temi culturali, si è garantito non solo grazie al ruolo ricoperto in un’autentica “corazzata”, ma anche per il rapporto fra questo quotidiano e la catena di giornali locali dei quali fa parte “La Nuova Sardegna”. Peraltro bisogna riconoscere che “La Nuova” qualche critica a Frau l’ha pubblicata. Niente, è chiaro, in confronto agli spazi enormi che egli è riuscito a ritagliarsi, dalla prima pagina a quelle interne, in questo come in altri organi di stampa.
Ma il notevole impatto dei suoi volumi sul piano culturale e mediatico si può spiegare anche con l’aura di mistero che ha sempre circondato i miti, compresi quelli inventati da un filosofo come Platone che, non dimentichiamolo, era anche scrittore e narratore di eccezionali qualità. Nella sua ampia ed approfondita disamina dal titolo La sindrome di Atlantide, apparsa nel Regno Unito nel 2001 (e pubblicata in Italia da Newton Compton, Roma, 2003), Paul Jordan, archeologo e docente nell’Università di Cambridge, ha reso conto in modo puntuale della sterminata produzione di volumi su Atlantide (migliaia e migliaia di libri, saggi ed articoli), di “scoperte” e proposte tendenti all’identificazione di essa con le terre più diverse e disparate: dalla Groenlandia alla Svezia, dalle Spitzbergen a Ceylon (per citarne solo alcune).
A ciò si deve aggiungere che Frau, profondo conoscitore dei mass-media e del mondo editoriale italiano, non si è accontentato di diventare autore di uno dei tanti best-seller pubblicati da Mondadori o da altri, ma ha creato dal nulla una sua casa editrice, la Nur Neon: lo ha ricordato e spiegato bene Giovanni Manca, alla guida di un’agenzia di promozione editoriale, egli stesso editore, che con Frau del resto ha lungamente collaborato. Non vorrei che queste osservazioni portassero ad una sottovalutazione del contributo di Frau che ha avuto significativi riconoscimenti anche sul piano internazionale.
In ogni caso, prendiamo un classico come Vance Packard, come gli studiosi dei “persuasori occulti” di Madison Avenue, come i grandi massmediologi americani, da Stuart Ewen a Ben Bagdikian, da Herbert Schiller a Harold Innis, per proseguire con Marshall Mc Luhan, il suo discepolo Derrick De Kerkhove (abbiamo ascoltato a Sassari questo originale studioso dell’inconscio di massa che si crea nella rete e col digitale) e arriviamo infine al nostro Michelangelo Pira: bene, nell’esercitarsi sull’impatto del testo di Frau, tutti questi autori si sarebbero divertiti, letteralmente, come pazzi. Giustamente Giovanni Manca, amico di Frau, dunque non sospettabile certo di ostilità nei confronti del giornalista e studioso, ha parlato di un “caso da manuale”, particolarmente adatto per studi sociologici, economici e su dinamiche di marketing.
Le ricadute di ciò che va emergendo dalle ricerche in corso saranno di notevole rilievo per storici, intellettuali, operatori culturali, per la società isolana nel suo insieme. Da una rivisitazione del mito platonico di Atlantide può scaturire non solo e non tanto una “verità storica” – espressione che si dovrebbe risolutamente abbandonare – quanto elementi che potrebbero servire, in primo luogo, alla ridefinizione del problema delle Colonne d’Ercole.
Tuttavia, come discende dalla citazione iniziale di Un sogno chiamato Nurnet, i kolossoi di Monte Prama si possono toccare materialmente, mentre l’identificazione della Sardegna con Atlantide può diventare anche la base di un progetto di ricerca, come quello delineato dal geologo Mario Tozzi, estimatore di Frau. Proprio quest’ultimo sembra credere, più o meno consapevolmente, che la grande statuaria nuragica possa privarlo dell’attenzione dei mass media – così decisiva (e non solo per lui) – e sembra fare di tutto (ma posso sbagliarmi) per non menzionare mai e poi mai nei suoi libri i kolossoi ed il fondamentale contribuito di Lilliu del 1977 (su cui, da subito, aveva attirato la mia attenzione l’amico Salvatore Cubeddu, che ringrazio per quella lettura di quasi 40 anni fa, per me assolutamente rivelatrice). Si badi bene: in un contesto nel quale, quando si parla di Giganti (con la maiuscola), il riferimento di chiunque è a Monte Prama, Frau, riferendosi solo ed esclusivamente ai nuraghi come Giganti, gigantesche torri di pietra, sembra voglia evitare con cura l’accostamento della parola alle statue del Sinis.
Le posizioni di Frau sono abbastanza note, ma è giusto esporle sinteticamente, con critiche e riserve che occorre formulare pacatamente, evitando i toni esasperati, come quelli, per esempio, che hanno contrapposto lo stesso autore all’antropologo e scrittore Giulio Angioni, nonché all’archeologo Alfonso Stiglitz. Pare sinceramente brutto rivolgersi con l’espressione “quel tizio” a colui contro il quale si può sviluppare una polemica magari dura, che però deve mantenersi sul piano dei contenuti, della battaglia ideale, della polemica teorico-scientifica, senza mai scadere nella rissa personale.
I cinque punti di Sergio Frau (con alcune obiezioni). Com’è noto, secondo Frau – che passa attentamente in rassegna le fonti antiche in un libro di ben 672 pagine – le Colonne d’Ercole vanno collocate nel Canale di Sicilia, non nello Stretto di Gibilterra. Andando, diciamo così, alla preistoria del mito, la Sardegna, collocata oltre questo limite estremo, doveva essere l’Atlantide del testo platonico.
Al riguardo si può muovere una prima obiezione a Frau. L’identificazione della nostra isola con l’ultimo lembo emerso di un continente inghiottito dal mare si deve dapprima al sardista Egidio Pilia che formulò questa tesi nel primo dopoguerra. Nel 1946 essa fu ripresa e sviluppata in termini nuovi e diversi da Camillo Bellieni, autore di articoli comparsi nel settimanale “Riscossa”, diretto da Francesco Spanu Satta: non figurano nell’interessante antologia curata da Manlio Brigaglia (2 voll. Edes, Cagliari, 1974). Mi propongo di ripubblicarli prossimamente.
Occorre ribadire che l’impatto del mito di Atlantide si esercita anche attraverso i mezzi di comunicazione di massa ormai da decenni, come dimostra la produzione al riguardo: in questo ambito è indispensabile ricordare almeno 5 film, soprattutto quello di Georg Wilhelm Pabst (del 1932), un classico nell’intera storia del cinema. Su Atlantide si esercitò anche la genialità di un narratore come sir Arthur Conan Doyle (sì, proprio lui, il creatore del personaggio di Sherlock Holmes), capace di passare dalla metodologia investigativa di matrice positivista, tipica del celebre amico di Watson, all’irrazionalismo più spinto: lo scrittore inglese, che stupì al riguardo non poche persone, credeva fermamente nelle pratiche spiritiche, cui partecipò tante volte, organizzando inoltre in proposito un organismo internazionale; sulla ricerca del continente sommerso scrisse The Maracot Deep (1927-28).
Si tenga presente che Bellieni – ideologo, storico, organizzatore, fondatore e dirigente del Partito sardo d’azione – era intellettuale colto, erudito e aggiornato (lo sapeva bene Piero Gobetti che fu in corrispondenza con lui e che lo apprezzava), al corrente di produzioni librarie e cinematografiche sul tema, che non a caso ha avuto un certo rilievo nel mondo politico sardista: non sembra dunque corretto ignorare il precedente costituito, nella ricerca su Atlantide, dagli scritti di Pilia e Bellieni; non si trattava solo di aggiungere qualche titolo ad una sterminata e pressoché indomabile bibliografia (si veda in proposito il già citato libro di Jordan); più semplicemente, era giusto fare opera di riconoscimento, attribuendo ad un autore quanto è riuscito effettivamente a scrivere. Per non parlare di coloro che il polacco Jerzy Topolski, in un suo libro sulla storiografia contemporanea, ha definito, con una punta di sufficienza, “amatori” della ricerca: il riferimento può essere, in questo caso, a Paolo Valente Poddighe (ringrazio Sergio Serratrice per avermelo segnalato): anche questo autore, come Bellieni, ha scritto sul rapporto Sardegna-Atlantide ben prima di Frau. Ciò non significa escludere che quest’ultimo si sia mosso su un terreno, in qualche misura, nuovo ed originale.
La civiltà nuragica, secondo Frau, sarebbe stata in parte distrutta da una “onda pazza ed assassina”, un maremoto, uno tzunami che, per fare solo un esempio, avrebbe seppellito sotto trenta metri di fango la reggia di Su Nuraxi, a Barumini, scavata da Lilliu. Si sarebbero salvate invece le costruzioni nuragiche poste su alture non raggiungibili dal tremendo “schiaffo di Poseidone”.
Il disastro avrebbe dato luogo ad un esodo forzato di schiere di nuragici verso l’attuale Toscana: ciò, con buona approssimazione, avrebbe dato origine alla civiltà etrusca. Altra obiezione, a questo punto, riguarda il silenzio di Frau verso il debito che tutti gli studiosi, sardi e non, hanno contratto con Massimo Pittau. Le sue indagini sono rimaste dapprima abbastanza isolate e prive di echi, ma hanno avuto in seguito una certa ricezione. Sarà sufficiente ricordare che il suo Lessico della lingua etrusca. Appellativi antroponimi toponimi (edito a Roma nel 2013, con una presentazione di Mario Negri) è comparso in una serie di quaderni pubblicati da un Comitato d’onore che annovera tra i suoi membri Gian Luigi Beccaria, Tullio De Mauro ed altri eminenti personalità (cfr. Bernardu Sabiu, Serighe Frau no nos cumbinchet, sulla rivista bilingue “Camineras”, maggio-giugno 2003, p. 39).
Un durissimo attacco contro Frau è stato messo a punto in un documento (apparso sul sito dell’Istituto Italiano di Storia e Protostoria) che ha raccolto le firme di circa 250 tra archeologi, geologi, storici, filologi, glottologi, antropologi ed altri professionisti di varie discipline, tutti vicini alle Soprintendenze archeologiche. Chi scrive (ancorché calzante scarpa n. 47) non appartiene al mondo dei paludati e “scarpati” accademici, ma piuttosto ad un’intellettualità “diffusa” e, diciamo così, “scalza”. L’atteggiamento più immediato sarebbe quindi quello di una sana diffidenza verso “l’appello-pregone” (così lo ha qualificato Frau) e di solidarietà con il giornalista de “La Repubblica”. Tuttavia, leggendo i 21 punti in cui il documento è articolato – e le risposte dello stesso Frau – è difficile sottrarsi all’impressione che egli non sempre sia riuscito a replicare in modo soddisfacente; anzi, sembra proprio che talvolta si sottragga all’inderogabile necessità di decostruire in modo puntuale ed efficace le argomentazioni altrui. In ogni caso queste virulente polemiche non devono impedire una discussione seria e aperta delle posizioni avanzate da Frau, alla luce, ripeto, delle scoperte che da un trentennio a questa parte stanno letteralmente sconvolgendo radicati convincimenti sulla Sardegna non solo nuragica.
Atlantide e gli scavi in corso nel Sinis. In estrema sintesi: quanto sta emergendo dalle viscere del Sinis suona conferma o smentita delle tesi di Frau? Alle Colonne d’Ercole – che, intorno al 2004-2005, aveva già venduto circa 25.000 copie – ha fatto seguito Atlantikà. Sardegna Isola Mito, volume diviso in due sezioni: Le Colonne d’Ercole. Una mostra, le prove e Le Colonne d’Ercole. Un bilancio, i progetti (apparsa nel 2004, arrivata nel 2006 alla IV edizione e ugualmente edita da Nur Neon). Un testo articolato che ha reso conto, fra l’altro, di un’importante esposizione a Parigi, voluta e patrocinata dall’Unesco. La lettura di Colonne d’Ercole è resa difficile da una struttura che il giornalista ha costruito con intenti prettamente divulgativi e didascalici, ma che risulta infine abbastanza complicata; è un po’ fastidioso, fra l’altro, il continuo ricorrere dell’autore ad un intercalare come “mica”. Questo punto di vista, assolutamente personale, è però smentito dal grande successo di vendite del libro. Anche in queste pagine, nel ricco apparato iconografico e fotografico, fra i tantissimi riferimenti a bronzetti, costumi sardi, dolci tipici, la Sartiglia e tante altre manifestazioni isolane, spicca la sintomatica e sintomale assenza non solo di un’immagine, ma del sia pur minimo accenno alla grande statuaria nuragica: eppure essa segna una svolta, una rottura paradigmatica, che riguarda tutta la preistoria e la storia fino ai nostri giorni.
La scienza – ce lo ha insegnato Galileo Galilei col suo cambio di paradigma epistemologico – richiede di partire dall’osservazione del fenomeno per elaborare ipotesi da sottoporre quindi ad esperimento e a verifica: verificare nel senso di rendere, di fare vero un qualcosa che può essere trasformato in tesi plausibile, pena l’abbandono dell’ipotesi prima adottata per puntare decisamente su un’altra.
Insomma: a Monte Prama, nell’heroon-santuario è possibile riscontrare qualche traccia di uno tsunami? Si tratta di quella sorta di mostro marino che, intorno al 1100 avanti Cristo, sarebbe stato capace di sollevare sulla nostra sventurata isola onde alte 500 metri, secondo una delle tesi qualificanti di Frau. Evidentemente la risposta al quesito è legata anche agli estremi cronologici entro i quali si può ragionevolmente pensare di racchiudere tutta la straordinaria parabola dell’esperienza nuragica che ha prodotto, fra l’altro, i Giganti del Sinis.
Occorre precisare, in ogni caso, che le statue vennero fatte letteralmente in pezzi dalle schiere dei vincitori, grazie anche al contributo più o meno determinante di sardi teracos. Si può leggere in proposito quanto ha scritto il già citato Zucca il quale istituisce una stretta correlazione fra la fine di Monte Prama e Tharros la quale fu dapprima insediamento indigeno; in seguito “i gruppi gentilizi egemoni paleosardi (con i loro clientes)” furono assorbiti in un nuovo assetto urbano, riplasmato poi in forme monumentali secondo la programmazione propria della civiltà cartaginese. Un «”popolo in armi” di Tharros, composto da opliti con la spada e l’arco e da soldati con la lancia e con i puntali da lancio, poté essere quello sardo-fenicio in conflitto con l’esercito di quel principato sardo che aveva eretto, lungo l’unica via di collegamento tra il porto e le fertili piane del Campidano settentrionale e le miniere del Montiferru, i kolossoi di Monte Prama» (Monte Prama e il Sinis, nel volume di A. Bedini, C. Tronchetti, R. Zucca, G. Ugas, Giganti di pietra. L’Heroon che cambia la storia della Sardegna e del Mediterraneo, Fabula, Cagliari, 2012, p. 51).
Dunque Tharros si sarebbe ribellata alle esose riscossioni imposte dai sardi nuragici sulle merci che giungevano nel porto. Al riguardo – e ciò va sottolineato con forza – si è aperto nel mondo accademico ed archeologico un conflitto, più o meno esplicitato dai diretti interessati. Infatti nello stesso volume Alessandro Bedini e Carlo Tronchetti hanno formulato tesi che negano non solo queste distruzioni, ma anche l’esistenza di una civiltà nuragica originale, pienamente autonoma, da loro considerata, invece, come una specie di vaso riempito dalle tecniche e dalle culture esterne: provenienti, di volta in volta, dall’Etruria, da Cipro, dall’Anatolia e dalla Mesopotamia. In ultima analisi il nodo più controverso riguarda il ruolo svolto in Sardegna da quello che è stato chiamato l’Orientalizzante. La sua influenza sul contesto sardo – cui Bedini e Tronchetti attribuiscono solo una certa capacità di retroazione e di rielaborazione – non viene tuttavia negata da Ugas e Zucca. In ogni caso bisogna fare in modo che il conflitto su questo terreno della ricerca prenda sempre più corpo. Nel mondo scientifico negare o minimizzare contraddizioni ed antagonismi può impedire il dispiegarsi pieno di una nuova stagione di studi.
Momentaneo e parziale “oscuramento” della statuaria nuragica. Il grande rilievo, che soprattutto i mass-media hanno assicurato all’identificazione della Sardegna con il continente sommerso evocato da Platone, sembrava spingere in secondo piano la grande statuaria nuragica, qualcosa che si può comunque toccare con mano, oltre la diversità delle interpretazioni. Ma le indagini condotte presso Cabras, dopo un parziale oscuramento dovuto all’enfatizzazione mediatica dei testi di Frau, sono tornate prepotentemente alla ribalta: il georadar utilizzato dal professor Gaetano Ranieri e posseduto dall’Università di Cagliari, unico nel mondo accademico-scientifico italiano, ha già condotto a scoperte decisive ed altre ne promette.
Di recente “La Nuova” ha dato spazio alle indagini di Tozzi che sembrerebbero suonare come conferma dello “schiaffo di Poseidone”, la marea di fango, insomma, lo tzunami che avrebbe investito una gran parte del tessuto dei nuraghi. Sembrava che Frau ed Atlantide potessero riconquistare la prima pagina dei quotidiani sardi, ma è stato solo un momento. All’indomani, si può dire, i kolossoi hanno invaso di nuovo, prepotentemente, la scena. Anche tale aspetto della dialettica Atlantide-Monte Prama richiederebbe un adeguato approfondimento nella dimensione della ricerca massmediologica.
Sul versante psicoanalitico e dell’inconscio di massa sarebbe essenziale approfondire le cause ed i motivi dello straordinario successo incontrato dalla riproposizione di Atlantide nel suo legame con la Sardegna. Non basta ricordare l’aura di “mistero” del racconto platonico, sempre così attrattiva, che conduce l’immaginario verso il sogno e la speranza, o esaminare un’operazione che ancora una volta, per mezzo del mito, vorrebbe restituire dignità ad una terra che si considera negletta o espropriata di qualcosa. Ormai sappiamo bene che la società isolana, ben lungi dal paludarsi con il mantello dell’orgoglio, risulta piuttosto afflitta da complessi di inferiorità, da sensi di colpa e vergogna, da un problema di autostima, soprattutto per le pesanti responsabilità di ceti dirigenti subalterni, asserviti, corrotti mentalmente e culturalmente (quando non lo sono sul piano economico-finanziario). Non parliamo poi del “tradimento dei chierici”.
Di qui la necessità di fare ricorso a quello che si può definire un “romanzo di sostituzione” per ovviare al disagio, alle frustrazioni derivanti da una visione del passato, cui non si riesce a dare il debito valore. Il singolo che ha un passato indicibile, non raccontabile, chi soffre per la mancanza dei genitori o perché costoro, per fare solo un esempio, sono dei criminali, può tendere a superare la sofferenza con narrazioni più o meno fantasiose per approdare all’autoaccettazione.
La Carta de Logu di Eleonora è un grande monumento storico-giuridico, ma la sottovalutazione del passato, l’incapacità, la non volontà di riconoscere quanto questo popolo, anzi, questa nazione ha effettivamente prodotto (non c’è assolutamente bisogno di ricorrere al mito o alle mitizzazioni) condusse nell’Ottocento all’operazione dei falsari che confezionarono le Carte, le pergamene ed i codici cartacei cosiddetti d’Arborea. Meccanismi sedimentatisi nei secoli in cui la Sardegna è stata un “laboratorio di storia coloniale” (la definizione è dello storico franco-americano John Day), una dimensione postcoloniale in cui si avvertono le conseguenze, le devastazioni ambientali, economiche e storico-culturali di questo tipo di dipendenza: tutto ciò ha pesantemente condizionato la nostra società, le ha impedito di pervenire ad un’adeguata auto-valorizzazione, di cogliere e comprendere quanto è riuscita effettivamente a produrre, senza bisogno di ricorrere al mito, di cui, è opportuno ripeterlo, non abbiamo alcun bisogno; soprattutto se pensiamo ai chierici sempre pronti a lanciare l’accusa di “mitizzare” contro una comunità che invece, in un passato anche prossimo, tendeva quasi sempre all’autodenigrazione. In tale ambito sarebbe utile approfondire i testi della psichiatria ad indirizzo fenomenologico (Arnaldo Ballerini, Caduto da una stella. Figure dell’identità nella psicosi, Fioriti, Roma, 2005, pp. 46-66), i contributi della psichiatra Nereide Rudas sull’identità della Sardegna, nonché i saggi etnoantropologici e filosofici di Bachisio Bandinu e del compianto Placido Cherchi.
Indispensabile un “ritorno” (certo non acritico) a Lilliu per proiettarsi verso il futuro e realizzare una grande rivoluzione storiografica. Le torri di Atlantide. Identità e suggestioni storiche in Sardegna (comparso per i tipi del Maestrale, Nuoro, 2012, con prefazione di Marcello Madau), opera del giovane e valente studioso Fabrizio Frongia, ha preso di mira le tesi di Frau; allo stesso tempo, ha tributato un omaggio, prudente – assai prudente! – a Lilliu, lodato come maestro, di cui però non viene mai ricordato l’impegno, sviluppatosi dagli anni settanta, volto ad illustrare la statuaria nuragica (nel libro di Frongia la classica opera Dal betilo aniconico non è mai citata). Ancora una volta, non si tratta di citazioni erudite o di bibliografie più o meno lunghe: Frongia è attrezzato e dimostra di padroneggiare la materia. Ma dalle sue pagine, come da quelle di altri giovani studiosi, emerge infine una presa di distanza da Lilliu, più o meno velatamente accusato di “mitizzare” il passato: rilievo formulato anche da diversi intellettuali isolani, sempre impegnati a minimizzare, se non a cuare, a nascondere quanto la civiltà della Sardegna è riuscita effettivamente a produrre. Al libro di Frongia infine si può contrapporre quanto ha scritto Alberto Contu, curatore attento e critico di pagine in cui peraltro viene riconosciuta la grandezza dell’accademico dei Lincei, la forza di un lascito sempre valido ed attuale. Certo, neanche la più fervida immaginazione dell’accademico dei Lincei avrebbe potuto ipotizzare l’esistenza di un giacimento di tale portata nella penisola del Sinis.
Diventa allora decisivo un serrato confronto che riguarda archeologi, storici, scienziati, intellettuali ed ognuno di noi, come cittadini dotati di una coscienza civile, se non nazionale, in su sentidu sardu de sa paràula. Occorre andare oltre il secolare spirito di terachia e la tendenza a cuare, a nascondere certe scoperte per approdare alla disamina non reticente di una società, quella nuragica, complessa, dove vigeva una determinata divisione del lavoro, che ha consentito la realizzazione del grandioso progetto di Monti Prama: sì, perché si deve parlare – in sintonia, del resto, con quanto aveva scritto Lilliu – anche e soprattutto di progettualità, non solo di “costante resistenziale”.
Conclusioni. Se si legge attentamente e con spirito filologico il decisivo saggio di Lilliu che reca questo titolo (si veda al riguardo l’edizione curata da Antonello Mattone, su incarico dello stesso Lilliu, per Ilisso, Nuoro, 2002), si evince che la “resistenzialità” comincia a palesarsi non, si badi bene, durante ma dopo la fine della stessa civiltà nuragica. Essa dunque non si limitava a “resistere”, ma era invece in grado di pensarsi, di costruirsi, di progettarsi, addirittura di proiettarsi nel mondo mediterraneo; aveva stabilito un certo tipo di interscambio con la natura; ad una base, ad una determinata struttura socioeconomica si abbinavano fattori sovrastrutturali di tipo politico-culturale (aristocratico), militare e religioso. Nessuna popolazione infatti può vivere di sola religione, come vogliono farci credere coloro che rimproverano a Lilliu un’indebita enfatizzazione – in chiave “militarista” – dei nuragici, con abbinata trascuratezza della dimensione religiosa. Lilliu era “militarista” a tal punto che senza il suo fondamentale apporto non si potrebbe ricostruire il ruolo – tutt’altro che secondario, si badi bene! – della donna nuragica: lo hanno dimostrato gli studi di Elisabetta Alba, segnalati, fra l’altro, da Tronchetti.
Si deve sempre a Lilliu la posizione, da lui esplicitata già nell’immediato secondo dopoguerra, di una civiltà giunta alle soglie all’urbanesimo: ciò è stato di recente confermato dallo stesso Zucca e dal già ricordato Ugas, dell’Università di Cagliari. Tutto questo potrebbe ricevere una significativa conferma dagli scavi in corso. Ribadiamo: accusato di “mitizzare” anche da coloro che, più o meno formalmente, gli rendono infine omaggio, Lilliu potrebbe risultare profeta – almeno in parte smentito! – se si dimostrerà, ancor più marcatamente, che sotto terra, nel Sinis, si trova un giacimento dalle dimensioni fino a pochi anni fa, per tutti noi, impensabili, il quale, in parte, attende di tornare alla luce.
Insomma occorre “tornare” a Lilliu, ripartire dalla sua opera per andare avanti, per proiettarsi verso il futuro, per condurre a compimento una vera e propria rivoluzione storiografica col fine di cambiare l’immagine, la percezione e la coscienza della Sardegna. Le sconvolgenti scoperte di Monte Prama, infatti, non riguardano solo gli archeologi, ma tutti gli storici, gli studiosi e, infine, ognuno di noi. I nodi fin qui esposti richiedono evidentemente di essere ripresi ed approfonditi in successivi articoli.