LE TESI DEL XXXIII° CONGRESSO NAZIONALE
Le Tesi congressuali presentate all’attenzione dei Delegati al XXXIII Congresso nazionale del Partidu Sardu – Partito Sardo d’Azione del 24-25 ottobre 2015, da parte dell’on. Christia Solinas e dell’on. Angelo Carta.
n°6. documenti politici su SARDEGNA e … dintorni. Ogni sabato questo sito mette a disposizione documenti del presente e del passato utili per l’operosa attività politica dell’oggi.
Esse sono nell’ordine, quella presentata dall’On. Christian Solinas, dal titolo:
L’UNITA’ DEL SARDISMO PER UN PROGETTO DI GOVERNO DELLA SARDEGNA
e quella presentata dall’On. Angelo Carta, dal titolo:
DAL GOVERNO DELLA DIPENDENZA AL GOVERNO DELLA RESPONSABILITÀ’
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“ L’unità del sardismo per un progetto di governo della Sardegna ”, tesi presentata da CHRISTIAN SOLINAS + 149 firme
Arborea 24-25 Ottobre 2015
Indice
1. Un tempo nuovo
2. La ricomposizione delle divisioni
3. Un’idea complessiva di sviluppo
4. Restituire dignità e speranza ai Sardi
5. Il superamento dei partiti e dei poli italianisti
6. Il giudizio sul Governo regionale
7. La disgregazione del sistema politico tradizionale
8. Una nuova piattaforma politica e programmatica
9. Ridefinire il perimetro del sardismo
10. La sfida del governo
1. Un tempo nuovo
Il XXXIII Congresso del Partito si apre su uno scenario politico, economico e sociale nazionale ed internazionale profondamente diverso dall’ultima assise di Cagliari del 2012. Nel mezzo, le elezioni della XV legislatura autonomistica – pur segnando un sensibile incremento del consenso che è passato dal 4,29% del 2009 al 4,67% in un contesto di arretramento generalizzato delle altre forze politiche: basti pensare allo stesso Partito democratico, che pur vincendo le elezioni con la coalizione di centrosinistra è passato dal 24,73% al 22,06%, o alla lista di Forza Italia, che nel 2009 ( col simbolo PDL ) era al 30,11% ed è precipitata al 18,52% – hanno riportato il Partito all’opposizione. Le fasi successive sono state caratterizzate da una lunga crisi della Segreteria Nazionale, formalizzata con le dimissioni del Segretario nel luglio 2014 e trascinatasi con l’interim del Presidente fino al marzo 2015, quando – dopo la lunga fase dell’unanimismo apertasi nel 2009 – una nuova maggioranza si è consolidata sul nome di Giovanni Columbu e su un progetto di rinnovamento del Partito, per uscire dal logorio di una impasse divenuta insostenibile. IL risultato elettorale del 2014 ci ha però consegnato un dato importante e significativo: le forze di ispirazione indipendentista, sovranista, autonomista – aldilà delle loro differenti collocazioni in ragione della legge elettorale – hanno catalizzato nel complesso il 39,61% dei consensi1 rispetto al 22,96% del 2009, testimoniando una crescente domanda di soluzioni locali ai problemi cui non corrisponde una adeguata offerta politica organizzata e strutturata da parte dei partiti e dei movimenti.
1 Gigi Sanna ( Movimento Zona Franca ) lo 0,82%, PSd’Az il 4,67%, Riformatori Sardi il 6,02%, Uds-Unione dei sardi il 2,60%, Movimento Sardegna Zona Franca l’1,63%, Partito dei Sardi il 2,66%, Rossomori il 2,63%, Irs lo 0,82%, La Base Sardegna 0,71%, Pier Franco Devias ( FIU ) l’1,03%, Mauro Pili ( Unidos + altri ) il 5,72%, Michela Murgia ( Progres, Gentes e Comunidades ) il 10,30%.
3 .Ed invero, se estendiamo gli orizzonti della nostra riflessione al più ampio contesto continentale possiamo leggere un fermento nuovo in quella che il nostro indimenticato Antonio Simon Mossa preconizzava come l’Europa del federalismo etnico, condannando il “sistema chiuso, una concentrazione di nazionalismi, ove non vi è posto per le etnie, come non vi è posto per una nuova struttura sociale”. Le elezioni in Catalogna del 27 settembre scorso hanno coronato una stagione di grande mobilitazione popolare con un’affermazione storica della lista Junts pel sì, che ha dato al voto amministrativo il valore del referendum negato dal Tribunal Constitucional spagnolo ed ha consentito al suo leader Artur Mas di lanciare un segnale chiaro alla Spagna ed all’Europa: “ Accettate la vittoria del sì, abbiamo un mandato democratico per l’indipendenza ”. Stessa tensione ideale e sociale ha animato in questi anni l’attività dello Scottish National Party, che la scorsa settimana ha tenuto la propria conferenza annuale. Il referendum sull’indipendenza del 18 settembre 2014, all’esito di un intenso percorso democratico sfociato nell’ Accordo di Edimburgo, firmato il 15 ottobre 2012 dal primo ministro britannico David Cameron e dall’allora primo ministro scozzese Alex Salmond ha registrato la partecipazione al voto di 4.285.323 elettori, pari a circa il 97% degli aventi diritto, che rappresenta l’elettorato attivo più ampio che ci sia mai stato in terra gaelica. Nonostante i favorevoli si siano fermati al 45%, appare chiaro che la rivendicazione non finisca lì ma dall’ultima consultazione riparta per affermare un anelito insopprimibile verso l’autodeterminazione e la libertà. Già nelle ultime elezioni generali britanniche del maggio scorso l’SNP ha stravinto in Scozia ottenendo ben 56 dei 59 seggi attribuiti e la Primo Ministro Nicola Sturgeon sta lavorando ad una nuova consultazione.
4 E’ giunto un tempo nuovo, fatto di fermenti e sussulti di liberazione nazionale, che attraversa l’Europa dall’Euskadi alla Bretagna, dall’Occitania alle Fiandre. Il tempo ci ha dato ragione, l’intuizione indipendentista entra oggi prepotentemente nell’agenda politica europea rompendo la pluridecennale ghettizzazione cui l’avevano relegata i Leviatani statali, gli intellettuali di corte, i lacchè del potere costituito. Esiste ormai un fenomeno che va oltre il folklore ed il velleitarismo, divenuto opzione credibile di governo, prospettiva politica di speranza per i Popoli oppressi dalla crisi del sistema e dalla asfissiante supremazia della finanza sui bisogni dell’uomo. In questo tempo, di crisi molteplici, di sviluppo disordinato, di diseguaglianze diffuse nella società che si acuiscono, mentre incalzano imperative esigenze di rapide trasformazioni e di veloci cambiamenti, si pone questo Congresso, che deve ridisegnare la presenza e la proposta politica del PSd’Az. Alla società sarda contemporanea, che propone insistentemente bisogni e domande nuove, il Sardismo deve saper dare risposte nuove, soprattutto sul piano della concretezza e della lungimiranza, dell’efficacia e della giustizia sociale .
2. La ricomposizione delle divisioni
Rispetto alle esperienze più avanzate del Südtirol ( dove il Südtiroler Volkspartei ha mantenuto nelle ultime elezioni del 2013 il 45,7% ottenendo 17 seggi sui 35 del Consiglio Provinciale di Bolzano ), della Vallée d’Aoste ( dove la coalizione tra Union Valdôtaine, Stella Alpina e Fédération Autonomiste ha conquistato il governo della Regione nel 2013 con il 47,90% dei consensi e 18 consiglieri sui 35 assegnati ), della Scozia ( 65 seggi su 129 del Parlamento scozzese per l’SNP ) e della Catalogna il movimento indipendentista, sovranista, federalista e autonomista sardo sconta un ritardo storico, con il suo carico di divisioni e di contraddizioni, che solo un ripensamento di fondo può consentire di superare. Ragion per cui, ricorrentemente, talvolta nel dialogo e talaltra nella polemica, noi abbiamo insistito sulla necessità di risalire alle più antiche origini comuni, attraverso una revisione radicale, una lettura 5 definitiva delle esperienze derivate nel tempo dalle scissioni, dalle divisioni, dalle mimesi movimentiste o programmatiche sulle quali la storia si è pronunciata e si pronuncia, per avviare un diverso processo e promuovere un diverso avvenire. Il Partito Sardo d’Azione è e resta la più antica origine comune, organizzata e strutturata, del più ampio movimento culturale, politico e sociale che oggi si manifesta declinato nelle diverse opzioni indipendentista, sovranista, federalista e autonomista. Noi crediamo che non ci si possa però fermare alla contemplazione di questo primato, di fatto e indiscutibile, ma si debba da buoni azionisti assumere la responsabilità di portare nuovamente a sintesi virtuosa tutto il sardismo che oggi non è più contenuto esclusivamente all’interno del Partito ma è addirittura presente nella società con inimmaginabili avanguardie e potenziali inespressi. Avvertiamo, certo, il peso e tutta la difficoltà di questa sfida che sentiamo però tutt’altro che impossibile e l’ordine stesso delle cose che verranno si incaricherà di mostrare negli anni futuri quanto questo fosse e sia necessario. Questa è la nostra convinzione, che manteniamo ben radicata nonostante assistiamo ad involuzioni di senso contrario, anche se alla nostra politica sardista, ispirata ad un principio democratico e di responsabilità, vediamo contrapporre da parte di alcuni tutte le rigidità di una politica che appare sovente ispirata da principi velleitari ed isolazionisti, che riducono la partecipazione democratica chiudendosi in istanze settarie, ovvero da un malcelato complesso di superiorità morale ed intellettuale che alimenta l’ipertrofismo dell’ego piuttosto che l’azione politica. Non per questo i sardisti debbono rinunciare alla loro prospettiva, ed anzi per questo il loro dovere di una lotta ideale e politica chiara e coerente si fa più forte e più impegnativo. In quasi un secolo di storia, abbiamo superato prove molto difficili che non ci hanno indebolito. Abbiamo pagato il mancato consolidamento del grande consenso del vento sardista negli anni ’80 del secolo scorso, resistendo a tutte le diaspore, le scissioni, ai continui saccheggi programmatici operati da partiti e movimenti senza più storia né prospettiva. 6 Oggi siamo più forti politicamente – e lo saremo di nuovo elettoralmente – perché consapevoli delle difficoltà, delle carenze, degli ostacoli che ci si parano di fronte. Abbiamo l’opportunità di un salto di qualità nella nostra azione, dobbiamo coglierla con generosità aprendo le porte per ricostruire l’unità del sardismo, senza privilegi o notabilati precostituiti, ma mettendo a disposizione la nostra storia, il nostro glorioso simbolo, le nostre idealità a tutti i sardi di buona volontà che vogliano concorrere ad una rinnovata proposta politica – alternativa all’aridità ed allo sfascio attuale – per il governo della Sardegna. Costruire l’unità del sardismo è la nostra stella polare. Su questo terreno la gente comune – che si trova su una frontiera ben più avanzata della politica attuale – valuterà la nostra credibilità, la nostra idoneità a rappresentare le istanze di un Popolo intero che cerca il suo riscatto. Certo, i nostalgici di un Partito Sardo d’Azione diviso e debilitato dalle sue frammentazioni non mancano. Li vediamo ogni giorno, pronti a brandire un semplice dissenso come una spaccatura, a trasformare un fattore di normale dialettica interna in un’avvisaglia di generale divisione del partito. Conoscono poco la natura dei nostri rapporti, quanto sentiamo l’imperativo dei nostri doveri politici ed anche l’ambizione dei nostri obiettivi. Viviamo una fase di transizione che ci porterà ad un partito profondamente rinnovato nelle sue idee, nei suoi militanti, nella sua classe dirigente che dovremmo aprire a forze giovani e nuove, in grado di riconoscere e rispettare il valore dell’esperienza pur nella distinzione dei ruoli. Vogliamo superare definitivamente la cultura dei “regolamenti di conti” che tanto ha insterilito il dibattito politico e la capacità di proposta, impegnando energie e risorse in una lotta fratricida senza quartiere. L’unità politica interna è il presupposto indispensabile per le nostre aspirazioni e dovrà essere uno dei punti di forza del Partito Sardo d’Azione. Nessuno deve sottovalutare il suo valore e le grandi potenzialità che da essa si possono sprigionare. Ed è un valore ancora più grande in tempi difficili, posti come siamo ogni giorno dinanzi a scelte e decisioni complesse. Auspichiamo in questo senso che il Congresso sintetizzi finalmente una condivisa linea di condotta collettiva, basata non sulla disciplina, giacché non siamo come noto un partito disciplinato, ma sulla libera convinzione, su di una scelta di principio e per un dovere di solidarietà. Una condotta che ci fa forti, rispettabili e rispettati. In un sistema politico dove nessun partito ha la maggioranza assoluta, dove al massimo si può disputare per la maggioranza relativa, anche un sardismo interamente pacificato e riunito dovrà porsi il problema dei rapporti rispetto a quel che sarà il resto dell’offerta politica in Sardegna. Se l’obiettivo tendenziale è e resta il governo indipendente della Sardegna, senza bisogno di alcuna alleanza al di fuori del perimetro delle forze indipendentiste, resta l’opzione – medio termine – tra la mera testimonianza cui ci condanna una legge elettorale liberticida ed ingiusta e la responsabilità diretta nell’amministrazione della cosa pubblica. In questa fase, infatti, sarebbe inutile negare che quest’area politica, sociale e culturale rappresenta da sola ancora una minoranza; seppure forte, che va crescendo ed insegue la propria vocazione maggioritaria. Eppure questa nostra minoranza ha un ruolo ed una responsabilità determinante negli equilibri politici sardi. 7 Nella storia moderna della Sardegna siamo stati sempre una forza di avanguardia e di progresso. Nella storia autonomistica della Sardegna non c’è un solo passo decisivo, istituzionale, civile e sociale, che non abbia visto il concorso attivo ed operoso dei sardisti, non c’è una sola giusta battaglia per i diritti e la ragioni di questa nostra Isola, che non abbia visto i sardisti nelle fila di frontiera, al loro posto di impegno e di lotta. Questo Congresso collocherà allo stesso modo, in un impegno di avanguardia e di lotta, l’azione immediata e futura dei sardisti.
3. Un’idea complessiva di sviluppo
Manca oggi la percezione del progetto di governo della Sardegna. Tra le mille spire di una crisi che ha avviluppato tutti i settori produttivi, le famiglie e la gente comune non vedono su quali ipotesi concrete la politica regionale stia lavorando per superare il guado. Questo genera un senso diffuso di smarrimento e di sfiducia nella capacità della classe dirigente di offrire risposte adeguate ai bisogni. Viviamo un tempo dove politica e società marciano, come mai prima, su linee divergenti fino a lacerare il loro intrinseco legame che fonda la legittimazione democratica dell’esercizio di sovranità. Il sistema dei partiti è avvertito come elemento negativo, da abbattere in quanto cagione delle condizioni disastrose del Paese. Si è rotto l’equilibrio tra i tradizionali poteri statuali con un contributo determinante dei mass-media che paiono trarre alimento da un racconto spesso iperbolico di scontri, divisioni, scandali più o meno fondati, da una lettura sempre in chiaroscuro della contemporaneità. 8 In questo contesto l’azione del Partito Sardo deve qualificarsi sul piano della proposta e dei progetti, chiari, credibili, concreti. E’ finito il tempo degli slogan. Occorrono competenza e sacrificio, studio e ricerca per forgiare un’idea complessiva di sviluppo della Sardegna. Un’alternativa di governo della crisi che restituisca la prospettiva di un futuro migliore, rispetto alla gestione confusa, settoriale e frammentata delle tante emergenze, ricurva sul contingente e senza l’ampiezza di respiro che occorre. Noi sardisti abbiamo la passione, le competenze e l’ambizione per affermare questa idea e da questo Congresso ci candidiamo a riprendere la guida del riscatto sociale, civile, economico e culturale dell’Isola.
4. Restituire dignità e speranza ai Sardi
La nostra prima e costante preoccupazione è stata sempre quella di sforzarci di comprendere i profondi cambiamenti intervenuti nella società sarda e di confrontarci con essi, nella consapevolezza che il processo di trasformazione, lungi dall’essersi esaurito, tende ad accentuarsi e non è riconducibile alle chiavi di lettura preesistenti. Abbiamo anzi la consapevolezza che la velocità di tale processo ha superato quella delle stesse ipotesi politiche e di guida economica e pone alla classe dirigente, di governo come di opposizione, problemi nuovi e diversi dal passato, che hanno messo seriamente in discussione lo stesso primato della politica, rendendola estranea ai processi evolutivi in atto e distanziandola dai nuovi fenomeni emergenti. Per noi, che – almeno per la nostra parte – siamo “la politica”, si impone in altri termini una nuova cultura della trasformazione di cui è difficile sovente anche individuare le stesse premesse, ma su cui dobbiamo seriamente lavorare. In questo lavoro, riteniamo chi i principali problemi da capire e fronteggiare siano tre: la segmentazione e frammentazione sociale; la domanda di unità e di direzione di marcia; il senso del futuro. Il primo dato, quello della frammentazione sociale, si è già riprodotto anche nella politica, come abbiamo potuto constatare nelle elezioni del 2014. Questo dato desta preoccupazione, non tanto per la esasperata frammentazione dell’offerta politica sardista, indipendentista, sovranista o autonomista, quanto perché il moltiplicarsi senza sosta di sigle, liste e movimenti estemporanei tende a mettere in mora l’intero sistema della rappresentanza fondato sui partiti non sostituendogli, tuttavia, né un diverso tipo di rappresentanza popolare, né una proposta di uscita unitaria dalla crisi, dalle cui contraddizioni, distorsioni e dispersioni la frammentazione trae alimento. In questo senso il voto per il Consiglio Regionale – sia con riferimento alle aberrazioni della legge elettorale sia con riferimento al complesso articolato dei contendenti in lizza – non va archiviato con semplicistico fatalismo, ma sempre riguardato come spia di una complessa trasformazione probabilmente ancora lontana da una sua sedimentazione. Esso riflette fedelmente la tendenza alla modificazione della geografia sociale dell’Isola, ponendo, da un lato, in evidenza una crescente difficoltà di “rappresentarsi” da parte del cittadino, dei gruppi sociali, degli stessi diversi microcosmi politici esistenti; e rendendo, dall’altro lato, non riconducibili ad antichi schemi interpretativi della politica l’incremento delle tendenze centrifughe e la diffusione di quella cultura dell’utilitarismo e del leaderismo personale e mediatico che fanno da fondamento e da motivazione alla frammentazione politica. 9 Per uscire da tale frammentazione non basta certo il lamento o il rimpianto di unità ed autorevolezza del passato. Occorre, invece, capire come il quadro sia più complesso, nella sua novità, e come l’unità e l’autorevolezza siano obiettivo di una ricerca comune e non strumenti già disponibili. Occorre, in altri termini, prendere consapevolezza che la società di oggi, pur nella crescente frammentazione ( o forse proprio per sfuggire ad essa ), esprime una profonda domanda di significato della vita individuale e collettiva, un bisogno di capire la direzione di marcia su cui tutti insieme, come società tutta intera, stiamo muovendo. Serve restituire una prospettiva condivisa ed un senso del futuro ad una società in cui il trionfo consumistico ha eroso senza sosta la capacità di risparmio delle risorse ( economiche, ambientali, paesaggistiche, … ), la lungimiranza di vedersi nella storia come parte di un continuum sulla quale pesa la responsabilità – e, noi riteniamo, la gioia operosa – di lasciare alle generazioni future un’eredità sostenibile, quel che un tempo si sarebbe agevolmente detto “ un mondo migliore ”. Eppure prendiamo coscienza nel quotidiano che qualcosa si è rotto in questo innato e secolare meccanismo. L’impegno del Partito Sardo d’Azione è nel senso di restituire dignità e speranza ai sardi, offrendo opportunità di crescita e sviluppo personale e collettivo che consentano a ciascuno di realizzare se stesso. In ciò risiede il presupposto della libertà individuale, sulla quale costruire la libertà di tutto il Popolo Sardo. Per costruire l’indipendenza dobbiamo smantellare il sistema della dipendenza, imposto alla Sardegna dai piemontesi prima e dagli italiani poi con un modello socio-economico profondamente inadeguato ed iniquo.
5. Il superamento dei partiti e dei poli italianisti
La cronaca politica ci restituisce nel quotidiano l’immagine di una progressiva dissoluzione del sistema dei partiti e delle coalizioni polarizzatesi all’indomani del tracollo della c.d. Prima Repubblica. A partire dagli anni ’90 del secolo scorso le grandi ideologie che avevano animato la vicenda sociale e civile del Paese hanno perso i tradizionali apparati di riferimento. Il Partito Comunista Italiano attraverso i successivi passaggi in PDS ( con le relative scissioni del partito della Rifondazione Comunista ed ancora, da questo, del Partito dei Comunisti Italiani ), poi DS si è infine diluito con una parte della propria alternativa storica, in un grande contenitore dal perimetro piuttosto mobile qual è il Partito Democratico, al cui interno si trova buona parte della classe dirigente della vecchia Democrazia Cristiana, anch’essa più volte mutatasi e scissa, dapprima in Partito Popolare Italiano e Centro Cristiano Democratico, fino alla Margherita, ai Cristiano Democratici Uniti, all’Udc ed una miriade di altre piccole formazioni. Ridotte all’irrilevanza sono poi altre sigle storiche come il PRI, il PLI, il PSDI senza tralasciare la polverizzazione della lunga tradizione socialista italiana a seguito della traumatica uscita di scena del PSI. Il contributo di successive leggi elettorali che hanno infine determinato una accentuata personalizzazione del sistema della rappresentanza a discapito dei partiti, intesi come filtri sociali per la selezione e la formazione di una classe dirigente in grado di concorrere con metodo democratico alla politica nazionale, ha determinato temporanee aggregazioni di coalizioni essenzialmente instabili perché riunite più per ragioni di sommatoria aritmetica del consenso piuttosto che su una condivisa weltanshauung e su un progetto di governo comune. La Sardegna vive in merito un paradosso in più. Infatti, hanno finora convissuto nell’Isola due sistemi politici, partitici e di rappresentanza diversi: da un lato, il sistema dello stato italiano, fatto da partiti e coalizioni italiani, che rispondono a logiche e interessi della Penisola ma che è stato esportato e, purtroppo, recepito colonialmente anche qui; dall’altro, il sistema dei partiti sardi, aventi cuore e testa in questa Terra ma che si è dovuto adeguare, spesso soccombere, principalmente per via dei meccanismi elettorali imposti dalle rappresentanze italianiste egemoni. Tant’è che sono presenti in Sardegna le articolazioni territoriali di tutti i principali partiti o movimenti italiani, che determinano la tendenziale pedissequa riproduzione di coalizioni ed alleanze omogenee anche sull’Isola con l’unica variabile della collocazione delle forze politiche locali. Questa sovrapposizione tra schemi diversi, così prevaricante, soverchiante, genera confusione e smarrimento anche nel corpo elettorale, che ha bisogno – oggi più che mai – di una semplificazione di fondo dell’offerta politica soprattutto in termini di progettualità e affidabilità che consenta di riconoscere chiaramente il blocco sardista e indipendentista rispetto alle opzioni italianiste condite in “salsa sarda” grazie all’apporto di facciata di sigle di comodo che a quel mondo si richiamano solo nominalmente. Noi crediamo che sul tema sia ancora una volta illuminante l’intuizione di Antonio Simon Mossa, laddove lucidamente chiarì che la nostra non è al momento una lotta di classe ma una lotta democratica di liberazione nazionale dal colonialismo. Pertanto, non v’è luogo oggi per una divisione dei sardi tra destra, sinistra o centro perché tutto questo attiene al conflitto di classe. Il tema di oggi è l’unità del popolo sardo per costruire la propria libertà, la propria autodeterminazione, il proprio stato. Una volta ottenuto lo stato, soltanto allora il nuovo sistema dei partiti nazionali sardi potrà candidarsi a rappresentare le istanze progressiste piuttosto che conservatrici, liberali o socialiste. Appare quindi chiaro che sia necessario un superamento dei partiti e dei poli italianisti, per costruire il più ampio schieramento politico sardista ed indipendentista come strumento per raggiungere la liberazione della Sardegna e la nascita di uno stato sovrano e indipendente, federato in una nuova Europa dei Popoli e delle Etnie. “ E’ mai possibile che noi, che siamo un popolo schiavo, umiliato, sfruttato, perseguitato, disperato, dobbiamo continuare a schierarci a fianco dei dominatori? ”, si chiedeva sempre Simon Mossa nel suo famoso discorso del 1969 a San Leonardo de Siete Fuentes, concludendo infine che “ L’Italia ha dimostrato la sua incapacità e la sua impotenza nel risolvere i nostri problemi. Troppe volte e per troppo tempo abbiamo concesso una dilazione allo Stato italiano perché facesse ammenda dei passati errori. Ma lo Stato italiano ha dimostrato e dimostra oggi di essere ferocemente colonialista e liberticida nei nostri riguardi… Noi vogliamo conquistare l’indipendenza per integrarci, non per separarci, nel mondo moderno… Non vi sono per noi altri tipi di libertà se non quella che otterremo con la conquista della piena indipendenza…”
6. Il giudizio sul Governo regionale
Fin dall’insediamento dell’attuale Governo Regionale, noi sardisti abbiamo posto con forza l’esigenza di chiarire preliminarmente il grande equivoco che sta logorando l’istituto della rappresentanza. Dicemmo al Presidente Pigliaru, che non era in discussione la stima personale e professionale nei suoi confronti o verso la sua Giunta ma proponemmo un problema di carattere generale al PD ed ai partiti della coalizione: questo esecutivo rappresenta, infatti, in maniera piuttosto plastica l’immagine compiuta del “commissariamento” della politica. Un fenomeno con radici lontane, che si va affermando a tutti i livelli istituzionali. La tendenza dei Governi cc.dd. “tecnici” a livello nazionale; la creazione di organismi come la Troyka ( FMI, UE, BCE ) o l’European Stability Mechanism a livello comunitario, testimoniano un progressivo distacco dalla legittimazione popolare diretta dei poteri che quotidianamente determinano le policy. Il tutto mentre – anche grazie al contributo negativo del sistema dell’informazione – l’opinione pubblica viene costantemente orientata verso una condanna senza appello della politica. Ed in ciò risiede il paradosso dei giorni nostri. Un politica senza più strumenti veri, pure ridotta a caricatura di se stessa da una conflittualità esasperata dei suoi attori e dall’incapacità di selezionare una classe dirigente all’altezza della complessità della situazione, continua a pagare scelte che non compie, scelte oramai delegate alla tecnica, alla finanza, a poteri spesso senza volto. Basti pensare, per tornare alla dimensione sarda, al percorso avviato nel 1998 con la legge regionale n. 31 – che questa maggioranza ha più volte richiamato con lusinghiera benevolenza: la separazione tra direzione politica e direzione amministrativa. Bene, si è creato un dualismo asimmetrico letale tra una direzione politica per sua natura transeunte ed una nuova casta dirigenziale – sempre pronta a succedere a se stessa – che ha generato un sistema di sottopotere parallelo su cui si fonda per larga parte lo stallo burocratico attuale. Anche in questo caso, i Presidenti o gli Assessori di turno pagano a livello di percezione popolare inefficienze, lungaggini e inadeguatezze che spesso non appartengono loro. Tutta questa digressione, insomma, serve per riaffermare che noi sardisti assumiamo il metro della politica per valutare le dichiarazioni di questa Maggioranza, i suoi programmi, le sue azioni. Di una politica che intendiamo come strumento di emancipazione popolare, di costruzione di una società attenta ai bisogni ed alle aspettative di ciascuno nel proprio percorso esistenziale. Una politica che non si limita ad applicare trattati, direttive e parametri economico-finanziari che piovono da istituzioni grigie ed autoreferenziali ma che pretende di metterli in discussione e di riassumere un primato indispensabile per restituire centralità alla persona ed alla felicità individuale e collettiva di Benthamiana memoria. Noi Sardisti crediamo in una politica che voglia assumere a misura del proprio agire le ansie e le incertezze della gente comune, la disperazione di chi ha perso tutto o avverte quest’orizzonte come prossimo, la nostalgia e la marginalità, le solitudini e lateralità sociali dei nostri emigrati, giovani, laureati, disoccupati, anziani. Qui risiedono le domande fondanti di una nuova politica, che è chiamata a risposte nuove dinanzi a bisogni emergenti che non sono più riducibili alle oramai consunte categorie della destra e della sinistra del secolo scorso. La domanda sociale della contemporaneità, per chi non si fermi alla superficie delle cose o alla proiezione mediatica della cronaca quotidiana, è, dunque, per una palingenesi della politica, non per la sua demonizzazione e men che meno per l’assunzione succedanea della tecnica o dell’economia in suo luogo. E’ vero, oggi “tecnica” ed “economia” tendono ad essere valorizzate ben più della politica in una sorta di illusione collettiva, che nasce da una rappresentazione distorta della regola democratica e da una crisi oggettiva di potere, di autorevolezza e di primato della stessa politica. Ma noi tutti, qui ed ora siamo la Politica e non possiamo limitarci a contemplarla questa crisi, ma dobbiamo esplorarla, governarla e risolverla. Pur nella consapevolezza di una debolezza strutturale: infatti, mentre tecnica ed economia si muovono da tempo su una dimensione internazionale, globale, gli strumenti, le istituzioni, il potere della politica sono ancora e largamente contenute nell’angustia dei confini nazionali o di strutture sovranazionali ancora prive di un’autentica possibilità di governo complessivo della finanza, dell’economia e della tecnica. Non ci siamo mai iscritti in questo primo scorcio di legislatura tra coloro che pretendono di valutare la completezza tematica delle dichiarazioni del Governo regionale o che da esse traggano una valutazione aprioristica di ciò che saranno gli effetti dell’azione amministrativa. Abbiamo, invece, sempre ricercato un terreno di discussione e di confronto, dal quale speravamo che il Presidente e la sua maggioranza avrebbero saputo trarre sintesi proficue tra proposte e sensibilità anche differenti. Tuttavia dopo 18 mesi di governo non possiamo evitare alcune riflessioni critiche sul metodo e sui contenuti. Non avevamo nascosto di apprezzare la premessa del Presidente Pigliaru alle proprie dichiarazioni programmatiche: “la campagna elettorale è finita”; “oggi sono il Presidente di tutti i Sardi”. Ed il fatto di aver fatto proprio un nostro preciso monito, dichiarando l’esigenza di riformare profondamente la legge elettorale. Bene, ci saremmo aspettati nel prosieguo del mandato, anche della sua maggioranza, un’analisi compiuta degli effetti dell’applicazione di tale norma, ovvero la consapevolezza di un esito che ha generato un sistema incompiuto e contraddittorio. I dati rendono l’immagine di un’Isola drammaticamente lacerata tra chi neppure più partecipa ( circa il 48% ) e chi nelle elezioni vede ancora lo strumento di selezione della propria classe dirigente (circa il 52% ). Il voto di questi ultimi ci ha confermato invero l’articolazione della società sarda in tre grandi aree politico-culturali: una riferibile al centrosinistra, una al centrodestra ed una al pensiero sardista, indipendentista, sovranista ed autonomista. All’indomani delle elezioni per la XII legislatura, pur con un sistema elettorale differente, una situazione simile venne efficacemente resa con l’espressione di tre “quasi vincitori”, poiché nessuno autonomamente poteva governare, tanto da concludersi con l’affermazione che “tre quasi vincitori sono tre sconfitti”. Oggi, la situazione di fatto non è cambiata: Pigliaru ha avuto il 42,45% dei consensi, la stessa percentuale della sua coalizione, mentre la coalizione di centrodestra e sardista ha ottenuto il 43,89%. Se scorporiamo dalle coalizioni e riaggreghiamo le percentuali dei partititi di ispirazione sardista, indipendentista, sovranista ed autonomista possiamo verificare l’esistenza di un blocco che rappresenta oramai oltre un terzo dell’elettorato, sfiorando il 40% dei consensi. Questa legge elettorale assurda, con il meccanismo del voto disgiunto,delle soglie di sbarramento e del premio di maggioranza, ha però determinato la vittoria di un Presidente, l’inversione della rappresentanza assembleare e addirittura l’esclusione di un’ampia parte di elettorato dalla rappresentanza democratica. Questo aspetto non può essere eluso e crediamo debba responsabilmente essere riconosciuto dalla maggioranza di governo, che non è maggioranza dei sardi. Ciò determina, a nostro avviso, l’esigenza di restituire centralità al Parlamento dei Sardi e ad una proficua dialettica istituzionale tra l’Esecutivo, l’Aula ed i corpi sociali senza rappresentanza. Sarebbe infatti velleitario continuare a pensare di governare la complessità di questo tempo entro il solo perimetro dei partiti che hanno sostenuto la candidatura Pigliaru, senza un’attenzione alle diverse sensibilità che sono presenti, propongono un propria visione della Sardegna e chiedono risposte sul piano programmatico e della concretezza. L’arroccamento autarchico di questo primo anno e mezzo di legislatura ha dimostrato invece la pervicacia sterile di celebrare le proprie idee, rifiutando a priori i contributi – anche di esperienza nei diversi settori e soprattutto nella delicatissima partita dei rapporti con lo Stato italiano – che pure non sono mancati da parte delle altre forze politiche e dei sardisti in particolare. L’azione di governo messa fin qui in campo è stata piuttosto ingessata su questioni di metodo universalmente riconosciute e su affermazioni di principi come la trasparenza, la semplificazione, l’efficacia delle politiche, le valutazioni ex ante ed ex post, che appartengono oramai al lessico consolidato ed alla prassi programmatica di ogni consesso democratico, forse anche aziendale, tanto da rischiare oggi di apparire più che altro come generici rinvii di maniera. Così come il continuo richiamo ad una politica di bilancio rigorosa ed alla restituzione di valore alle competenze ed al merito, consolidano maggiormente l’immagine di una “RAZIONALIZZAZIONE DELL’ESISTENTE” piuttosto che di un’idea forte e complessiva di rilancio e sviluppo della Sardegna. Sembra mancare il progetto, la prospettiva. Ed invero proprio sulla politica delle entrate e di bilancio abbiamo registrato delle clamorose ingenuità, che potrebbero costare davvero care ai Sardi: la rinuncia al contenzioso costituzionale in materia con lo Stato unito alla supina accettazione di sperimentare per primi il passaggio al bilancio di cassa con applicazione del principio del pareggio in luogo del patto di stabilità oltre ad aver indebolito vistosamente le posizioni della Sardegna rischiano di determinare una gravissima crisi di flussi finanziari nell’erario regionale con una conseguente difficoltà a programmare e, soprattutto, pagare la spesa programmata con una ulteriore, consistente riduzione degli spazi finanziari disponibili. Non crediamo sia premiante neppure l’introduzione, proposta da qualcuno , di un dualismo Politica/Accademia, radicato su un giudizio di valore negativo/positivo in assoluto. Il Presidente Pigliaru lo ha ripetuto spesso: “ La Sardegna è un sistema debole ”. Ma se lo è, lo è in tutte le sue componenti e non solo per responsabilità della politica. Invero l’attuale drammatica congiuntura internazionale e locale impone una visione diversa ed eccezionale delle sfide e delle partite da affrontare come dei rapporti da tenere rispetto alle altre forze politiche. Occorre un duro lavoro, che pretende la consapevolezza dell’esigenza di recuperare un clima di civiltà ed eticità della politica, fondato sul rispetto ed il riconoscimento reciproco. Ora più che mai la gente chiede al decisore pubblico rigore, sobrietà e lucidità: il superamento consapevole e condiviso di metodi, strategie e interventi che non hanno portato i risultati attesi. Superamento che implica necessariamente la capacità di individuare e riconoscere anche quanto di buono negli anni è stato fatto e può essere mantenuto come base per il cambiamento. Cominciamo col dire basta a questa oramai insopportabile litania della “pesante eredità del passato” con la quale questo Governo Regionale pensa di coprire l’inadeguatezza della propria proposta politica su alcuni decisivi temi o cerca di massimizzare, appropriandosene, gli esiti di soluzioni pensate in altri tempi e delle quali solo incidentalmente raccoglie i frutti. Questo Governo Regionale non si è insediato nell’anno zero. Il documento annuale di programmazione economica e finanziaria, responsabilmente approvato sul liminare della passata legislatura conteneva già le strategie di sviluppo unitario proprie della programmazione comunitaria 2014-2020 con gli obiettivi di creatività, sostenibilità e inclusività. Così come i concetti di smart city e green economy non sono novità per questa Regione, che ha tenuto il deficit a zero negli ultimi quattro esercizi, senza accensione di alcun mutuo a pareggio, e riducendo progressivamente lo stock del debito finanziario dal picco del 2005 di 3,1 MLD a 1,7 MLD. Semmai andrebbero ben chiarite le ragioni per le quali – oltre le banalità Keynesiane delle quali ci siamo oramai abbondantemente nutriti – dopo anni si torna alla politica dei mutui e si indebita la Regione per oltre 700 MLN di euro, sbandierando grandi investimenti che in realtà si traducono per larga parte nella copertura delle inefficienze dello Stato italiano, come nel caso della viabilità Anas che continuiamo a finanziare noi lasciando che il competente Ministero romano sfugga alle proprie responsabilità. A distanza di tempo ormai dall’insediamento alcune questioni non hanno ancora trovato spazio nell’agenda di governo e paiono non incontrare la giusta sensibilità ed attenzione. Tra queste resta il tema di fondo del se e come l’attuale maggioranza intenda tradurre in azione di governo le istanze, le sensibilità che sempre più emergono dalla società sarda e si richiamano al sardismo, all’indipendenza, al sovranismo ed all’autonomismo. Queste forze rappresentano oltre un terzo dell’elettorato ed oggi – per quanto sottorappresentati in termini di seggi per via della legge elettorale – si trovano collocati nel Consiglio Regionale in maniera trasversale negli schieramenti. Il rapporto irrisolto con queste letture diverse della società sarda rispetto all’interpretazione egemonizzante del Partito democratico rappresentano e sempre più rappresenteranno l’elemento di instabilità dell’attuale maggioranza di governo, che dovrà confrontarsi con due distinte polarizzazioni al suo interno: da un lato il tentativo di “riorganizzazione a sinistra”; dall’altro il tentativo di spostamento del baricentro decisionale dal PD al rassemblement guidato dal Partito dei sardi con il Centro Democratico e il PDCI. Gli stessi mutevoli rapporti di forza interni tra le correnti del Partito Democratico, soprattutto in vista degli oramai prossimi appuntamenti elettorali determineranno senza dubbio le ulteriori criticità che porteranno ad un verosimilmente certo rimpasto della Giunta Regionale. Vedremo in quella sede se l’orientamento al confronto sui grandi temi di vitale interesse per la Sardegna sarà mutato. Attenderemo le posizioni che si esprimeranno sulle devastanti accelerazioni che il Governo italiano sta imprimendo alle riforme costituzionali, umiliando la specialità sarda e minando delicatissimi equilibri istituzionali. Su questo tema, come sul terreno dei rapporti tra Stato e Regione, sull’esigenza di guadagnare nuovi spazi di sovranità, che noi – senza infingimenti – traduciamo in indipendenza della Sardegna saremmo come sempre sulla frontiera più avanzata ed esigente, pronti a dire la nostra, forti di una storia e di una tradizione che abbiamo costruito in decenni di elaborazioni e battaglie che ci appartengono e rivendichiamo. Non si può dimenticare peraltro che i Sardi, chiamati a pronunciarsi con altri temi nel Referendum regionale non hanno solo deciso la soppressione delle Province, la riduzione dei costi della politica ma anche l’elezione di un’Assemblea Costituente per riscrivere la Carta Fondamentale del nostro Popolo. Attendiamo di sapere se Pigliaru o questa maggioranza ritengano di dover rispettare appieno la volontà dei sardi oppure – come è stato in questi mesi – scelgano a quali quesiti referendari dare seguito e a quali no. Ma soprattutto su questi temi chiediamo a tutti i dichiarati indipendentisti, sovranisti, zonafranchisti, rossomori e autonomisti che militano tra le fila della maggioranza se ne intendano pretendere l’iscrizione nell’Agenda politica del Presidente o li lasceranno lettera morta.
7. La disgregazione del sistema politico tradizionale
Nell’attuale sistema – parallelamente alla progressiva e composita articolazione della maggioranza – è venuta meno anche una rappresentazione unitaria dell’opposizione. Sotto almeno due ordini di profili. Esiste infatti, in primo luogo, una opposizione che in forza della legge elettorale è presente nel Consiglio Regionale ed una che – per quanto rappresentativa in termini di consensi di un’ampia fascia di elettorato – non ha trovato rappresentanza. Attualmente non esiste una comune visione, nè un confronto e neppure un mutuo riconoscimento tra queste differenti sensibilità, che parrebbe invece tendano ad intraprendere strade e contenuti diversi. Esiste ancora una differenza, a nostro avviso, tra un’opposizione “di sistema” ( quella tecnicamente definita dai seggi cc.dd. di minoranza ) ed una “al sistema”, che prescinde dalla maggioranza di turno e mira invece a delegittimare e sostituire integralmente ed indistintamente tutti i tradizionali partiti e/o movimenti politici. Vi è infine una diversificazione delle formule politiche tra i diversi livelli di governo. Talché partiti che sono in una coalizione di maggioranza nel Parlamento italiano, guidata dal Partito Democratico, si trovano nel Consiglio Regionale della Sardegna in opposizione allo stesso PD e nuovamente in maggioranza in alcuni altri enti locali. Si tratta dei segni evidenti di un disfacimento dell’intero sistema delle coalizioni storicamente consolidatesi all’indomani della fine della c.d. prima repubblica. Disfacimento primieramente ideologico laddove l’omologazione dei fini dell’attività politica ( spesso purtroppo miserevolmente particolari e non più collettivi ) ha cancellato i tradizionali confini delle letture sociali del mondo in chiave progressista o conservatrice, socialista o liberale. Il trionfo di una impostazione economicistica su quella storicamente affermatasi antropologica e sociologica ha infine determinato lo smarrimento generale nella misura in cui i programmi e le formule economiche in un mondo globalizzato tendono a convergere ed a confondersi. Dinanzi al tramonto delle ideologie ed alla disgregazione del sistema politico tradizionale il sardismo resta una grande e generosa idea di riscatto e di progresso del Popolo sardo e può rappresentare oggi più che mai un punto fermo per la rigenerazione del sistema della rappresentanza e l’affermazione di una nuova tavola di valori condivisi su cui fondare una prospettiva politica nuova, seria e credibile per l’Isola.
8. Una nuova piattaforma politica e programmatica
Il prossimo triennio dovrà essere un tempo di grande lavoro, di studio e di elaborazione per ridefinire il corpus programmatico storico del sardismo alla luce delle nuove criticità e della complessità contemporanea per costruire una adeguata piattaforma politica ed un progetto di governo della Sardegna all’altezza delle sfide che ci attendono. Siamo oggi la più antica formazione politica ancora esistente – senza soluzione di continuità – in Sardegna. Portiamo l’onore di aver attraversato stagioni fondamentali della storia dell’Isola con un contributo di impegno, idealità e programmi sempre orientati al suo miglior progresso materiale e spirituale. Eppure sentiamo per intero che ancora ci attendono militanza ed abnegazione per condurre il nostro Popolo a riaffermare il proprio diritto ad esercitare la piena sovranità sul suo territorio. Per fare ciò occorre in primo luogo riconciliarci con tutti i Sardi sul piano ideale e programmatico per essere percepiti come il loro partito nazionale, latore di un istanza primaria di libertà ed autodeterminazione. Proponiamo, quindi, di avviare fin dall’insediamento dei nuovi organi del Partito una serie di “Conferenze Programmatiche” sui singoli temi del sardismo moderno per elaborare a distanza di trent’anni dagli esaltanti Congressi di Oristano, Porto Torres e Carbonia, che diedero l’abbrivio al “vento sardista”, un decalogo programmatico per il governo della Sardegna.
8.1 L’indipendenza
Esiste un momento nel percorso esistenziale di un popolo e di una nazione in cui la storia cessa di essere narrazione per divenire azione. Un tempo in cui la storia ci chiama a una scelta impegnativa e responsabile tra chi la subisce e chi, pur nell’umile consapevolezza dei propri limiti, la fa e la scrive. Noi sardisti la nostra scelta l’abbiamo fatta da tempo, fin da quel lontano aprile 1921 quando a Oristano nacque ufficialmente il partito e prima ancora come sardi combattenti che assumevano consapevolezza di sé, delle proprie radici, della propria lingua e della propria terra nelle trincee del Carso, del monte Sabotino, del monte Zebio, dell’altipiano di Asiago. Noi siamo gli eredi del combattentismo reduce della prima grande guerra, la nostra bandiera è listata a lutto perché su di essa e con essa migliaia di giovani inconsapevoli hanno perso la propria vita per soddisfare la causa savoiarda dell’unità geografica della penisola italiana. E’ proprio per questo, per il sangue che è costato alla Sardegna questa utopia, che noi, prima e più di tutti, non proviamo vergogna ad iscrivere nell’agenda politica questa parola sopita per secoli nelle coscienze ma che riprende quotidianamente, ineludibilmente, vigore tra la gente, i giovani, gli intellettuali e finanche alcuni economisti: “indipendenza”. Di questo crescente sentimento popolare vogliamo essere interpreti fieri e autentici, senza infingimenti e senza le infinite aggettivazioni della politica politicante. Aggettivazioni che sterilizzano i concetti, i sentimenti, anche i sogni, li rendono tendenziali, fino a diluirli in un linguaggio incomprensibile e senza prospettiva. Sia chiaro, noi non siamo per il regionalismo, non siamo per il decentramento, non siamo per l’autonomia, né speciale né al limite; noi non siamo per nessuna sua declinazione delle infinite possibili: fiscale, solidale, perequativa, regionale. Non ci interessa la retorica del nominalismo che affascina con 18 termini roboanti, per i quali però non c’è riscontro sul piano della concretezza. Noi ci proponiamo, attraverso l’azione politica, di affermare la sovranità del Popolo sardo sul proprio territorio e di condurre la Sardegna all’indipendenza. Questa non è certo la sede per una seppure interessante indagine storica sulle ragioni dell’indipendenza. Crediamo invece che si debba partire da due interrogativi di fondo e da una premessa, che rendono giustizia in merito alla proposta politica. Il termine “indipendenza” non può essere uno slogan, ma va sostanziato di contenuti, di significati chiari e apprezzabili anche in termini normativi. Per noi ha una dimensione anche culturale e sociale, prima che politica ed economica. Ma torniamo ai due interrogativi che ci pare spieghino meglio il senso dalla nostra posizione: “perché” l’indipendenza e “come”, secondo quale percorso. Sarebbe fin troppo facile liquidare il primo interrogativo con una risposta ricca di idealità e mutuata dalle parole di Antonio Simon Mossa, perché “quando un popolo non ha i poteri di autogovernarsi e decidere il suo avvenire, esso perde non soltanto la libertà collettiva e comunitaria, ma anche quella individuale”. Invero però oggi la risposta è tragicamente più stringente e, direi, incombente. Noi non possiamo più preoccuparci di sapere se l’indipendenza come soluzione della questione nazionale sarda si debba o non si debba realizzare, se cioè sia giusta, bella, buona o magari graduale o progressiva, noi pensiamo soltanto che oggi sia inevitabile, nel senso che chiunque voglia governare i processi economici, politici e sociali, in corso in Italia e nel mondo, in questo tempo, non potrà farlo seriamente senza riconoscere che gli stati nazionali di ottocentesca memoria – che pure hanno dominato due secoli di storia moderna con le loro strutture, i loro apparati, le inefficienze ed anche i meriti che vanno riconosciuti – hanno esaurito la loro funzione dinanzi alle nuove esigenze della contemporaneità, alla velocizzazione e globalizzazione dei processi in tutti i settori della vita umana. Fuori dalle Aule Parlamentari la società fluente – come è stata felicemente definita – corre, mentre il sistema politico sardo si arrocca ancora su alcune posizioni di rassegnata retroguardia, di impaurita difesa di un ordine che non esiste più nei fatti, dello status quo tipico delle aristocrazie decadenti. La nave affonda e l’orchestrina continua a suonare. Viviamo una congiuntura dove la scienza muta di continuo l’esistenza, l’iPad, che molti magari anche oggi hanno qui con sé, estende le facoltà mentali e riproduce in un istante gli esiti di processi secolari. Oggi una Corporation come Microsoft o come Google ha un valore strategico e conta nel mondo come o forse più di uno Stato del G8. E’ cambiata e continua a cambiare la geografia economica e politica del pianeta. Centocinquanta anni di esperienza unitaria sono un tempo minimo, un tempo non sviluppato sull’asse dei secoli della storia. Se cambia la geografia, la politica non può restare uguale. Di fatto è già cambiato il rapporto tra rappresentanza e potere. Dinanzi a questo contesto sarebbe davvero miope avvitarci in sterili conflittualità e distinguo che si fondano su categorie storiche superate e fuori dal tempo. Come classe dirigente abbiamo l’obbligo della lungimiranza e in essa di ripensare e riscrivere il contratto sociale che unisce il nostro popolo e con esso il rapporto con il resto dell’Europa e il ruolo che vorremmo avere nel mondo. Per fare questo, occorrono sobrietà e chiarezza, di pensiero e di linguaggio. Occorre anche il coraggio, pur nelle comprensibili ansietà che questo può destare in alcune coscienze, di ridiscutere i miti, di rileggere i momenti della storia con la lente della razionalità, piuttosto che del sentimento e della propaganda. E’ la realtà dei nostri giorni che ci richiama alla necessità di ridisegnare le nostre istituzioni, al di là delle pur consistenti considerazioni di ordine storico, geografico, sociale ed etnoculturale che ci spingono oramai da secoli a sostenere la causa della nostra Nazione senza Stato. Non ritengo corretta l’impostazione che da ultimo sta dando il Presidente della Regione Pigliaru alla questione sarda, assimilando la nostra condizione alla più ampia questione meridionale. La nostra storia non è la storia del Mezzogiorno di terraferma, né della Sicilia, seppure anche queste realtà abbiano buone ragioni di lamentare i danni dell’unità, o meglio della “piemontesizzazione” della penisola. Sul punto dobbiamo, credo, un tributo di chiarezza e verità storica che ci accomuna. Scientemente, l’annessione dei territori peninsulari al Regno ha rappresentato allora per Cavour soltanto l’opportunità di uno sfruttamento massiccio delle risorse per il potenziamento economico, commerciale e industriale del solo Settentrione. E’ emblematico citare il caso della Ansaldo, nata per l’intervento diretto dell’allora ministro Cavour, che affidò a un gruppo di cortigiani torinesi le strutture della fallimentare azienda meccanica Taylor & Prandi. Mentre prima dell’unità questa società arrancava nella competizione con le fiorenti industrie meridionali (basti pensare che rappresentava, in termini di dimensioni, fatturato e occupazione, meno della metà del “Real Opificio Borbonico di Pietrarsa”), già nel 1862 proprio Cavour, a un anno dall’Unità, agli albori dell’Italia del favore e delle cortesie, delle consorterie e dei gruppi di pressione, che nascono guarda caso al Nord, avviò un piano di progressivo smantellamento delle più grandi officine siderurgiche del Mezzogiorno che determinò una crescita smisurata e artificiosa della Ansaldo, alla quale furono indirizzate, non solo tutte le commesse statali per la realizzazione di locomotive, materiale ferroviario, bellico e navale ma anche tutte le commesse degli opifici meridionali che venivano smantellati. E la Sardegna? Lasciatemelo dire con le parole di Giuseppe Mazzini (che non credo nessuno possa tacciare di separatismo): “la povera, la buona, la leale Sardegna, che pure è la culla d’Italia, i Re l’hanno sempre tradita e non risorgerà se non sotto una bandiera di popolo”. E’ vero, questa nostra terra è stata appaltata a terzi, sfruttata nelle sue risorse, umiliata nella propria lingua, nella propria cultura e nelle proprie tradizioni. Eppure, fiera, sopravvive per riscrivere oggi la propria storia. Oggi parliamo di indipendenza, che nessuno può confondere con separatismo, secessionismo o autarchia e che noi intendiamo come migliore integrazione. E parliamo di indipendenza per negare, per condannare il suo contrario che ben conosciamo: la dipendenza. Noi proponiamo l’idea di una marcia pacifica del Popolo sardo per l’indipendenza, per coinvolgere le coscienze e l’opinione pubblica, per far comprendere allo Stato che è cessato il tempo degli indugi. Bene, credo che questa marcia potrebbe avere come simboli i luoghi dalla dipendenza, a cominciare dalla speculazione nei boschi quando migliaia di ettari sono stati concessi agli amici liguri e piemontesi, che hanno disboscato un quarto della superficie dell’Isola per produrre rovere per le traverse di ferrovia e carbone per alimentare l’industria della Francia alleata di Cavour; o i giacimenti minerari, anch’essi concessi agli amici d’oltremare, sfruttati e, dopo essersi esauriti, comprati a spese dello Stato con i fondi per lo sviluppo. E poi la chimica, l’idea della chimica nell’Isola era stata concepita sull’onda del Piano di rinascita, già nel 1960 l’ingegner Rovelli circolava a Cagliari nei vecchi uffici del Credito industriale in cerca di udienza per farsi finanziare i progetti. Dopo un po’ di anticamera trovò il canale giusto per farsi finanziare il piano per Porto Torres con un espediente: i finanziamenti erano stati previsti per le piccole e medie imprese con un massimo di 6 miliardi di lire, non bastava e la Sir ripartì l’intero investimento del ciclo produttivo in una miriade di società. Mentre al CIS andavano avanti le pratiche di Sir e Rumianca con il tramite della Cassa per il Mezzogiorno e la Bei, il modello per il quale si optò fu quello dell’industria pesante. La Sir comprò la Rumianca di Renato Gualino, a Villacidro la Snia Viscosa rilevò una fabbrica di fibre, a Sarroch spuntò la raffineria. Nella chimica, il giro del tavolo portò i manager ad amministrare prima aziende pubbliche e poi private. E’ sempre la solita beffa! Apparentemente i soldi vengono stanziati per la Sardegna, nella realtà questo denaro serve a finanziare le speculazioni di gruppi imprenditoriali che non hanno lasciato ricchezza nell’Isola ma disagio, inquinamento e, tutt’al più, un po’ di Cassa Integrazione. Noi crediamo sia giunto il tempo di dire basta a tutto ciò! Sulla partita degli interessi vitali della Sardegna, dalle risorse all’ambiente, vogliamo essere sovrani. La via maestra è per noi l’indipendenza in una nuova architettura costituzionale ed europea federale. Di fatto la stessa Unione europea è già su una frontiera avanzata con la definizione delle macro regioni che, partendo sul quadrante Baltico, si propongono con forza anche nel Mediterraneo e inevitabilmente disarticoleranno gli Stati nazionali, per come li conosciamo ora, per riaggregarli sotto nuove forme. Di fatto, il pensiero federalista, sconfitto nel XIX secolo, non sul piano delle idee e del consenso ma da trame diplomatiche e dalla forza militare, non si è mai spento come ipotesi politica alternativa di autogoverno. Oggi il federalismo non è più solo argomento di dotti o accademici ma è divenuto bandiera di lotta cosciente di forti masse, proposta di rinnovamento, di progresso democratico. Questa sfida non può essere limitata a una sfida di Governo ma Governo e popolo devono marciare uniti. Per noi, l’unica via perché questo avvenga è l’Assemblea costituente.
8.2 L’Assemblea Costituente per un nuovo Statuto/Costituzione
L’esigenza di ridefinire il patto fondativo dei rapporti tra il popolo sardo e la Repubblica italiana è da tempo oggetto di un’ampia elaborazione politica, giuridica e culturale. Nelle ultime legislature autonomistiche sono state numerose le proposte di legge che hanno – a diverso titolo – individuato nell’Assemblea costituente lo strumento maggiormente consono alla redazione di un nuovo Statuto speciale per la Sardegna in un contesto di sempre più rapido mutamento dell’architettura istituzionale del Paese, anche con riferimento alla crescente incisività del quadro comunitario europeo. Da ultimo, non può sottacersi il forte impatto popolare – nell’ambito dei quesiti regionali del 6 maggio 2012 – del referendum consultivo sull’istituzione di un’Assemblea costituente, eletta a suffragio universale, che ha raggiunto un plebiscitario pronunciamento favorevole prossimo al 95 per cento. A tredici anni dalla “Dichiarazione di sovranità del popolo sardo”, approvata il 24 febbraio 1999 dal Consiglio regionale della Sardegna, e dal riconoscimento dei sardi quale minoranza linguistica con la legge 15 dicembre 1999, n. 482, il referendum ha certificato l’oramai inderogabile urgenza di rinnovare l’assetto istituzionale, regolando i reciproci rapporti e prendendo atto del concetto – peraltro già presente nell’articolo 28 dell’attuale Statuto di autonomia speciale, che riconosce nel popolo sardo un soggetto ben distinto dal popolo italiano. Si tratta di un fatto pregiuridico: il popolo sardo è un soggetto politico originario e non derivato dall’ordinamento, che si limita a riconoscerlo. L’accelerazione impressa dall’attuale Governo della Repubblica al processo di revisione della Costituzione, con i connessi problemi di tutela della specialità e di ristrutturazione complessiva degli equilibri e delle competenze tra soggetti distinti, non può che trovare una risposta pronta e conseguente da parte del Consiglio regionale della Sardegna mediante l’approvazione di una specifica legge che restituisca alla diretta partecipazione popolare il compito storico di riscrivere il patto di convivenza nel consesso nazionale ed internazionale. 21 L’articolo 54, primo comma, dello Statuto speciale per la Sardegna – come novellato dalla legge costituzionale 31 gennaio 2001, n. 2, prevede che l’iniziativa per la sua revisione o modificazione possa essere esercitata dal Consiglio regionale o da almeno 20.000 elettori. Ciò non impedisce che venga eletta un’Assemblea costituente regionale, a suffragio universale e con metodo proporzionale, così da garantire la massima partecipazione popolare al processo di revisione ed una legittimazione forte del testo di riforma che verrà redatto in quella sede. Il Partito Sardo d’Azione dovrà operare in tutte le sedi istituzionali e pubbliche per dare nuovo impulso al tema dell’istituzione dell’Assemblea Costituente del Popolo Sardo.
8.3 La lingua
La lingua è il primo elemento distintivo di un Popolo e della sua coscienza collettiva. I sardisti hanno la ferma convinzione che dall’affermazione della lingua sarda come lingua nazionale si possa costituire un presupposto fondamentale della rivendicazione di sovranità e di piena soggettività internazionale della Sardegna. L’articolo 6 Cost. riconosce in via di principio la tutela delle lingue minoritarie presenti sul territorio italiano, riservando ad apposite norme di rango ordinario la disciplina concreta di tale previsione. Particolari forme di tutela sono altresì previste dagli statuti speciali delle Regioni Trentino-Alto Adige/Sudtirol per quanto concerne le lingue tedesca e ladina (incluse le minoranze cimbre e mochene), della Valle d’Aosta/Vallèe d’Aoste per quanto riguarda la lingua francese e del Friuli Venezia Giulia. Lo statuto di autonomia della Sardegna sconta invece un grave errore di valutazione dei consultori e dell’intera classe dirigente post-bellica, che nelle diverse elaborazioni che portarono all’approvazione della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3, sottovalutarono fatalmente e colpevolmente la centralità della lingua e della cultura sarda nella costruzione di una consapevolezza autonomistica preordinata alla piena affermazione della soggettività nazionale del popolo sardo. Analogo errore venne fatto con riferimento all’architettura complessiva del sistema scolastico, che evidentemente costituisce il necessario complemento ad un’impostazione culturale identitaria ed all’esigenza di definire assetti e dimensionamenti rispondenti alle peculiarità storiche, geografiche e sociali dell’Isola. La disciplina comunitaria e internazionale si trova in materia su una frontiera decisamente avanzata, avendo maturato e consolidato, in via di principio, il valore della tutela delle minoranze e delle diversità linguistiche e culturali. A partire infatti dal trattato internazionale sottoscritto a Strasburgo il 5 novembre 1992 nell’ambito del Consiglio d’Europa, denominato European Charter for Regional or Minority Languages (ECRML), la cui ratifica da parte dell’Italia pare finalmente imminente dopo ben 23 anni, si è sancito l’intento di tutelare e promuovere le lingue regionali o minoritarie come parti del patrimonio culturale europeo in pericolo d’estinzione nonché di promuovere l’uso di queste lingue nella vita pubblica e privata. Nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea si fa poi esplicito divieto di discriminazione fondata, in particolare, sull’appartenenza “ad una minoranza nazionale” (articolo 21), affermando altresì il rispetto della “diversità culturale, religiosa e linguistica” (articolo 22) e definendo la portata dei diritti garantiti nel senso che “possono essere apportate limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui” (articolo 52). Infine, il TUE (2012/C 326/01) ha sancito che “L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze” (articolo 2); che “esso rispetta la ricchezza della sua diversità culturale e linguistica e vigila sulla salvaguardia e sullo sviluppo del patrimonio culturale europeo” (articolo 3) e “riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati” (articolo 6). Sul tema abbiamo siamo l’unica forza politica del Consiglio regionale ad aver presentato una proposta di legge che, nell’alveo della pluridecennale elaborazione culturale e linguistica del nostro Partito ed in armonia con i principi e gli orientamenti consolidati a livello europeo, propone una organica integrazione della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3, mediante l’introduzione di un nuovo titolo, rubricato “Lingua, cultura e ordinamento scolastico”. Una proposta che realizza, peraltro, un riequilibrio dell’intensità di tutela linguistica, culturale ed etnica della Sardegna nell’ambito della Repubblica italiana, ispirato alle tradizionali e ben note avanguardie sudtirolesi e valdostane in materia. Infatti, fin da principio, gli statuti speciali delle Regioni Trentino-Alto Adige/Sudtirol per le lingue tedesca e ladina, e della Valle d’Aosta/Vallèe d’Aoste per la lingua francese hanno riconosciuto alle lingue parlate nei rispettivi ambiti geografici il carattere di “lingua propria”, perfezionandone contestualmente il relativo regime della protezione. Nello statuto speciale del Trentino-Alto Adige/Sudtirol la tutela delle lingue tedesca e ladina è articolata in una pluralità di previsioni. In particolare: – l’articolo 8 dispone il bilinguismo toponomastico nel territorio della provincia di Bolzano; – l’articolo 19 prevede, in materia di istruzione, che nella Provincia di Bolzano l’insegnamento nelle scuole sia impartito nella lingua materna degli alunni, italiana o tedesca; – l’articolo 59 prevede che le leggi regionali e provinciali ed i regolamenti provinciali siano pubblicati nel Bollettino ufficiale della Regione con testo in italiano e in tedesco; – l’articolo 99 testualmente prevede che “nella regione la lingua tedesca è parificata a quella italiana che è la lingua ufficiale dello Stato”; – l’articolo 100 consente ai “cittadini di lingua tedesca della provincia di Bolzano” la “facoltà di usare la loro lingua nei rapporti con gli uffici giudiziari e con gli organi e uffici della pubblica amministrazione situati nella provincia o aventi competenza regionale, nonché con i concessionari di servizi di pubblico interesse svolti nella provincia stessa”; ancora, “Gli uffici, gli organi e i concessionari usano nella corrispondenza e nei rapporti orali la lingua del richiedente e rispondono nella lingua in cui gli atti sono stati avviati da altro organo o ufficio; ove sia avviata d’ufficio, la corrispondenza si svolge nella lingua presunta del cittadino cui è destinata” e “salvo i casi previsti espressamente e la regolazione dei casi di uso congiunto delle due lingue negli atti destinati alla generalità dei cittadini, negli atti individuali destinati ad uso pubblico e negli atti destinati a pluralità di uffici – è riconosciuto negli altri casi l’uso disgiunto dell’una o dell’altra delle due lingue”; – l’articolo 101 prescrive che “nella provincia di Bolzano le amministrazioni pubbliche devono usare, nei riguardi dei cittadini di lingua tedesca, anche la toponomastica tedesca, se la legge provinciale ne abbia accertata l’esistenza ed approvata la dizione”. La facoltà di usare la propria lingua nei rapporti orali e scritti con gli uffici della pubblica amministrazione è altresì riconosciuta ai cittadini di lingua ladina della Provincia di Bolzano. Sempre nell’ambito dello statuto speciale di autonomia del Trentino-Alto Adige/Sudtirol ha trovato disciplina giuridica quel particolare meccanismo impropriamente chiamato “proporzionale etnica” in forza del quale l’ammissione ad alcuni pubblici uffici, ovvero al godimento di particolari diritti, avviene non già sulla base degli ordinari principi del pubblico concorso (articolo 97 Cost.), bensì in ragione di una suddivisione dei posti o benefici disponibili tra gruppi etnico-linguistici e minoritari. La prima applicazione della cosiddetta proporzionale etnica si è avuta negli enti pubblici locali, in applicazione dell’articolo 54 dello statuto altoatesino del 1948, mentre nel successivo statuto di autonomia del 1972 – che ha configurato in modo più forte e completo la tutela minoritaria – il riferimento normativo è divenuto l’articolo 89, il cui fondamento giuridico risiede nel principio di uguaglianza sostanziale e di non discriminazione, per la cui effettività si impongono, per l’appunto, misure di “tutela positiva” delle minoranze linguistiche. Lo statuto speciale della Valle d’Aosta/Vallèe d’Aoste (legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4) contiene invece uno specifico titolo che delinea in particolare il sistema di tutela linguistica e culturale della minoranza di lingua francese. L’articolo 38 prescrive che “nella Valle d’Aosta la lingua francese è parificata a quella italiana. Gli atti pubblici possono essere redatti nell’una o nell’altra lingua, eccettuati i provvedimenti dell’autorità giudiziaria, i quali sono redatti in lingua italiana”. L’articolo 39 dispone che “nelle scuole di ogni ordine e grado, dipendenti dalla Regione, all’insegnamento della lingua francese è dedicato un numero di ore settimanali pari a quello della lingua italiana. L’insegnamento di alcune materie può essere impartito in lingua francese”. Anche in questo caso è prevista una speciale disciplina con riferimento al pubblico impiego: infatti, a tenore dell’articolo 38, comma 3, ” le amministrazioni statali assumono in servizio nella Valle possibilmente funzionari originari della Regione o che conoscano la lingua 24 francese”. L’articolo 40 prevede che “l’insegnamento delle varie materie è disciplinato dalle norme e dai programmi in vigore nello Stato, con gli opportuni adattamenti alle necessità locali”, chiarendo come “tali adattamenti, nonché le materie che possono essere insegnate in lingua francese, sono approvati e resi esecutivi, sentite Commissioni miste composte di rappresentanti del Ministero della pubblica istruzione, di rappresentanti del Consiglio della Valle e di rappresentanti degli insegnanti”. Emerge dunque chiaramente una ingiustificata asimmetria di tutela statutaria delle minoranze linguistiche e culturali presenti nella Repubblica almeno sotto due ordini di profili. Dapprima viene infatti in evidenza la distinzione tra autonomie speciali che hanno avuto riconosciute norme specifiche in materia nel proprio statuto (Trentino-Alto Adige/Sudtirol, Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste e Friuli-Venezia Giulia) ed altre per le quali non vi è alcuna previsione normativa di rango costituzionale (Sardegna). Tra le prime, poi, si può riscontrare una differenziazione di modelli. Infatti, mentre lo statuto altoatesino configura il modello del separatismo linguistico, quello della Valle ben si iscrive nel paradigma del bilinguismo totale. Ancora differente è l’opzione friulana, laddove l’articolo 3 della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1, si limita invece a riconoscere parità di diritti e di trattamento ai cittadini a prescindere dal gruppo linguistico di appartenenza “con la salvaguardia delle rispettive caratteristiche etniche e culturali”. Come ben osservato dalla prof. Valeria Piergigli in un interessante contributo sul tema, la diversità di approccio era già emersa, in verità, durante i lavori preparatori della Carta costituzionale, allorché venne tracciata in seno alla commissione Forti la distinzione tra “isole linguistiche” e “minoranze etniche e linguistiche” dei territori di confine. Alla percezione delle prime come mero fatto folcloristico faceva riscontro l’attribuzione alle seconde di un preciso rilievo sul piano giuridico e politico che si sarebbe tradotto nel conferimento della autonomia speciale al Trentino-Alto Adige e alla Valle d’Aosta, mentre l’approvazione dello statuto del Friuli-Venezia Giulia veniva rinviata in attesa di dare soluzione alla cosiddetta questione slovena. Per quanto tale distinzione non fosse stata accolta nel testo definitivo dell’articolo 6 Cost., continuò ad interferire negativamente nelle vicende attuative del precetto costituzionale orientando peraltro pesantemente la successiva elaborazione del giudice delle leggi. In particolare, con le sentenze n. 28/1982 e n. 62/1992, la Corte costituzionale, con la progressiva chiarificazione del concetto di “minoranza linguistica riconosciuta” ha infatti contribuito ad avvalorare in sede interpretativa le categorie delineatesi in sede costituente. Le pronunce del giudice costituzionale, d’altro canto, ricevevano impulso e al tempo stesso offrivano sostegno al comportamento ambiguo del parlamento, orientato per molti anni a sottolineare il favore verso le minoranze linguistiche riconosciute e a perseverare in un atteggiamento piuttosto ostile verso le restanti comunità di lingua e cultura minoritaria, relegate allo status di minoranze linguistiche non riconosciute. Queste ultime, distribuite nei territori sia delle regioni ordinarie che speciali, essendo prive di una legge generale di tutela, ricevevano una attenzione alquanto modesta da parte del legislatore statale, potendo contare quasi esclusivamente sulle iniziative dei legislatori locali, i quali si dimostravano dapprima timidi e poi via via più sensibili alla tutela dei patrimoni linguistici delle minoranze e alla promozione degli usi pubblici delle lingue minoritarie. La linea di demarcazione – e discriminazione – tra gruppi linguistici era dunque tracciata sulla base di un riconoscimento formale che trovava fondamento nella esistenza di precisi obblighi internazionali e nella adozione di norme interne di rango costituzionale, nonché di atti normativi statali e regionali in qualche modo connessi agli impegni internazionalmente assunti dallo Stato italiano. Il “riconoscimento” equivaleva a individuare una determinata comunità minoritaria e consentiva di promuoverla da una condizione meramente esistenziale ad una giuridicamente rilevante, così da renderla destinataria di forme speciali di tutela che, nei casi del Trentino-Alto Adige/Sudtirol e della Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste, giungono fino alla garanzia della parificazione giuridica della lingua minoritaria alla lingua italiana nei rispettivi territori regionali di insediamento storico. Viceversa, il “non riconoscimento” confinava la minoranza linguistica ad uno stadio pregiuridico, di mero fatto, che non le consentiva di beneficiare di misure di protezione dissimili da quelle, generali e generiche, fruibili da qualunque cittadino o individuo, indipendentemente da qualsivoglia appartenenza minoritaria, e tutt’al più di interventi di politica culturale, di preferenza affidati all’iniziativa del legislatore locale. Pur in assenza di una previsione di rango costituzionale e di un riconoscimento formale, dopo lunghi anni di battaglie e vincendo le più strenue opposizioni, la storica iniziativa politica del Partito sardo d’azione si è affermata con l’approvazione della legge regionale 15 ottobre 1997, n. 26, sulla “Promozione e valorizzazione della cultura e della lingua della Sardegna”. La norma – assumendo “l’identità culturale del popolo sardo come bene primario da valorizzare e promuovere” – affermò la “pari dignità rispetto alla lingua italiana” della lingua sarda e, con riferimento al territorio interessato, della cultura e della lingua catalana di Alghero, del tabarchino delle isole del Sulcis, del dialetto sassarese e di quello gallurese. La tutela e la valorizzazione culturale e linguistica vennero inoltre riconosciute dalla Regione come “parte integrante della sua azione politica” da conformare “ai principi della pari dignità e del pluralismo linguistico sanciti dalla Costituzione e a quelli che sono alla base degli atti internazionali in materia, e in particolare nella Carta europea delle lingue regionali e minoritarie del 5 novembre 1992, e nella Convenzione quadro europea per la protezione delle minoranze nazionali del 1 febbraio 1995 “. Due anni dopo il Parlamento italiano – a distanza di oltre mezzo secolo dalla previsione dell’articolo 6 Cost. – approvò la legge 15 dicembre 1999, n. 482, recante “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”. Premesso che “la lingua ufficiale della Repubblica è l’italiano” la norma riconosceva finalmente per la “lingua e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo” specifiche misure di tutela e valorizzazione quali: – l’uso della lingua minoritaria nelle scuole materne, primarie e secondarie accanto alla lingua italiana; – l’uso da parte degli organi di comuni, comunità montane, province e Regione; – la pubblicazione di atti nella lingua minoritaria fermo restando l’esclusivo valore legale della versione italiana; – l’uso orale e scritto nelle pubbliche amministrazioni – escluse le forze armate e di polizia; – l’adozione di toponimi aggiuntivi nella lingua minoritaria; – il ripristino su richiesta di nomi e cognomi nella forma originaria; – specifiche convenzioni per il servizio pubblico radiotelevisivo. Tuttavia, l’esperienza applicativa della disciplina normativa testé richiamata ha mostrato per intero l’inadeguatezza dello strumento legislativo ordinario rispetto ad una tendenza piuttosto consolidata ad eludere le norme di tutela e valorizzazione, facendo prevalere i mai sopiti istinti egemonici italianisti sopra la lingua e la cultura sarda. Le recenti vicende relative al dimensionamento scolastico in Sardegna – che non ha tenuto conto delle peculiarità e specificità sarde – ed alla stabilizzazione dei precari della scuola, operata dallo Stato su base nazionale senza alcuna considerazione circa le condizioni di oggettivo svantaggio derivanti dalla condizione insulare per chi si vedrebbe assegnata una cattedra sul resto del territorio continentale, ripropongono con forza anche l’esigenza di dare dignità statutaria ad un assetto dell’istruzione veramente autonomistico, che riposizioni il baricentro delle valutazioni di opportunità e di merito, oltreché di più ampia prospettiva culturale, da Roma a Cagliari. Nonostante le discriminazioni e le tutele negate nel tempo, i ricorrenti tentativi di umiliarne e cancellarne la storia, la cultura, le tradizioni e l’identità, il popolo sardo rappresenta ancora il gruppo linguistico di gran lunga più numeroso presente nella Repubblica italiana ed un unicum incomprimibile. Oggi tutto ciò è patrimonio condiviso della coscienza nazionale sarda ed è percepito e riconosciuto a livello internazionale anche sotto un profilo normativo con apposite previsioni di tutela e valorizzazione, che continuano a non trovare spazio nella nostra carta autonomistica. Il Partito sardo d’Azione vuole richiamare con la sua iniziativa politica il Parlamento italiano al dovere di rimuovere tale ingiustificata discriminazione, dando finalmente effettività ed efficacia alle tutele linguistiche, etniche e culturali che competono ai sardi.
8.4 La zona franca
Noi Sardisti su questo, come su altri temi che appartengono al nostro DNA politico e culturale, abbiamo il dovere storico e morale di chiamare le cose con il loro nome e di tradurre i sogni razionali in progettualità e programmi concreti facendo la tara di ogni sterile demagogia e di ogni inganno. Sentiamo di dovere ai sardi un tratto di verità e di responsabilità in più. Per questo dobbiamo dire subito che l’utilizzo oramai inflazionato di questo titolo, trasformato da alcuni speculatori della politica in mero “slogan” ed in alcuni casi addirittura in contrassegno elettorale, non risolve il problema; non lo risolve ma nella ricerca di un compromesso, frettoloso e inconsapevole, con i diversi fermenti popolari, sociali e politici in materia ha tracciato un profilo contradditorio e incoerente dell’istituto che si voleva regolamentare. Noi Sardisti, che abbiamo posto all’attenzione del dibattito politico questo argomento, possiamo e dobbiamo dire con veritiera sobrietà che cosa rappresenti molta pare di ciò che sta quotidianamente circolando sul tema, declinandolo progressivamente ad un livello folkloristico. Sulla zona franca, e qui giova rammentarlo, abbiamo sempre rappresentato un’avanguardia, scomoda, derisa spesse volte dal centralismo coloniale dello Stato e dei partiti romani. Chiariamo subito che storicamente questo tema non appartiene alla tradizione politica della sinistra italiana e sarda, e neppure alla riflessione democraticocristiana, che l’hanno sempre avversata, propugnando un modello di sviluppo alternativo fondato sugli incentivi e sui consumi. Un modello di sviluppo del quale oggi raccogliamo le ceneri, ispirato alla dipendenza e funzionalizzato agli interessi statali verso un’economia di stampo coloniale rispetto alla Sardegna. C’è voluto del tempo, un percorso lungo perché si aprissero delle brecce all’interno degli schieramenti; c’è voluta una maturazione popolare che oggi porta, dal basso, i comuni della Sardegna a pretendere risposte dalla politica regionale. Basti ricordare le parole del “consultore” dell’allora Partito Comunista Italiano, l’onorevole Dessanay, in occasione del dibattito conclusivo sul testo di Statuto da mandare all’approvazione dell’Assemblea 27 costituente. Lo cito testualmente: “E’ stata prospettata un’altra soluzione, ma a noi è parsa inaccettabile, è la soluzione proposta dalla corrente sardista, soluzione che possiamo definire della zona franca”. Dello stesso tenore la posizione espressa dalla Democrazia cristiana per voce del “consultore” Castaldi, che criticò minuziosamente, e anche qui cito testualmente: “Il sistema del progetto sardista secondo il quale il territorio della Regione sarebbe posto del tutto fuori dalla linea doganale dello Stato”. Le posizioni non mutarono nel tempo, tanto che le successive proposte di legge sul tema vennero sempre boicottate. La proposta del compianto Michele Columbu e del collega Chanoux alla Camera dei deputati del 3 luglio ’75, la proposta dell’indimenticato Titino Melis nel Consiglio regionale della Sardegna il 28 luglio dello stesso anno, il progetto di zona franca presentato al Senato della Repubblica da Mario Melis il 21 settembre del 1978 e, se ne deve dare atto, alla Camera da due deputati sardi di allora il 17 luglio 1979, Raffaele Garzia e il collega Felice Contu, certamente memore della giovanile militanza sardista. Lo stesso progetto venne presentato come proposta di legge dai sardisti Melis, Piredda, e Carlo Sanna il 31 luglio del ’79 in Consiglio regionale, e infine, come noto, la proposta di legge nazionale numero 10, presentata dalla Giunta regionale di Mario Melis, il 14 maggio 1987, storicamente approvata dall’Aula il 22 luglio ’88, ma che decadde per la scadenza della legislatura in Parlamento. Gli anni ’90 del secolo scorso videro invece modificarsi l’approccio al tema con l’abbandono dell’idea di una soluzione legislativa complessiva in favore di un pragmatico rilievo sulle norme di attuazione dell’articolo 12 dello Statuto, e dunque con l’attivazione di punti franchi. In questo senso si susseguirono dapprima il ben noto decreto legislativo numero 75, e l’intesa istituzionale di programma del ’99, che determinò, per la prima volta, l’estensione del concetto di zona franca sul piano fiscale, superando la definizione classica in senso esclusivamente doganale, anche alla luce del mutato contesto internazionale sulle politiche del commercio e del libero scambio. Ancora il D.P.C.M. del 7 giugno 2001 definì le norme di carattere operativo per l’avvio della zona franca di Cagliari. Da allora, con responsabilità trasversali agli schieramenti, tutto si è arenato. L’alternarsi delle più svariate formule politiche al governo della Regione non ha portato a compimento l’iter finalmente avviatosi; non è un esercizio sterile questa ricostruzione, perché rende bene, forse con il giusto tedio e un po’ d’angoscia, il senso del trascorrere infruttuoso degli anni in un’Isola che è stata tenuta immobile, come sospesa nel tempo. Gli esempi sono tanti. Oggi, in un contesto di profondi e rapidi mutamenti, molti dei modelli conosciuti vanno sostanziati di contenuti e strumenti nuovi. Oggi dobbiamo declinare sul piano della concretezza normativa, economica e fiscale, l’espressione zona franca. L’abbiamo detto: non ci si può limitare agli aspetti doganali. Occorre, quanto meno, un plafond manovrabile di risorse da investire in esenzioni e sgravi contributivi e fiscali che rendano concretamente appetibile l’afflusso di nuovi investimenti e capitali dall’esterno, per avviare uno sviluppo solido che consenta in Sardegna l’accumulo di ricchezza e non solo il consumo. Con questo non si vuole negare l’opportunità che anche una zona franca doganale può offrire. Penso ad esempio a Barcellona, che la avviò fin dal 1916. Oggi la sua zona franca, che si estende per 600 ettari, offre una varietà di servizi di qualità ed è la base operativa di circa 300 società che alimentano i propri commerci con la Spagna, l’Europa e il resto del mondo. Tuttavia non può non osservarsi che, allo stato attuale, la sola zona franca doganale rappresenta uno strumento di politica economica piuttosto datato e inefficace se non corroborato da ulteriori misure per l’avvio di un processo di sviluppo e crescita della Sardegna che, fin dal 1987, alcuni economisti e accademici sardi definirono, forse enfaticamente, autopropulsivo. Nel tempo, infatti, sono venute sempre diminuendo le esigenze di tappe intermedie per la manipolazione usuale delle merci nel processo di distribuzione e commercializzazione e l’incidenza dei prelievi doganali, specifici rispetto all’intero ammontare dei prelievi fiscali, si è talmente ridotta da non rappresentare più un elemento di particolare attrattività economica. Ecco perché, a nostro avviso, il ritorno a un approccio normativo sulla zona franca con una specifica legge piuttosto che con norme di attuazione del vigente Statuto, deve rappresentare il momento di sintesi di un’idea nuova e moderna di zona franca, alla quale deve aggiungersi l’ulteriore attribuzione di “integrale” almeno sotto due ordini di distinte considerazioni. In primo luogo sotto un profilo geografico e di estensione. Per noi “integrale” significa superamento del modello di punto franco circoscritto e affermazione di una zona franca coincidente con il territorio della Sardegna e delle sue isole, che trova nel mare il suo confine naturale, nei porti e negli aeroporti i suoi varchi d’accesso. In secondo luogo sotto il profilo degli strumenti agevolativi di politica economica preordinati a un percorso di sviluppo endogeno. Da questo punto di vista utilizziamo “integrale” per definire un’idea di zona franca che offra un’articolata ed equilibrata coniugazione delle tre distinte tipologie classiche, di consumo, doganale, di produzione, integrate anche queste da un regime di esenzioni fiscali e contributive che incidano nettamente e principalmente sulla pressione fiscale e sul costo del lavoro per le imprese. Come è noto, nel modello di zona franca di consumo, infatti, rientrano solo quegli istituti volti a favorire la facilitazione dei consumi in un determinato territorio o per una determinata popolazione, individuando degli stock di merci, definite per quantità e tipologia e che vengano successivamente immesse nel consumo locale al netto di imposte, dazi, diritti e quant’altro. Tale strumento, che tende a migliorare le condizioni di vita dei residenti aumentandone il reddito reale e la capacità di spesa, favorisce altresì i flussi turistici verso tali aree e la creazione di mercati di nicchia. In Sardegna l’effetto si produrrebbe in settori importanti come l’agroalimentare, l’artigianato artistico e, in generale, verso le produzioni tipiche connesse al mercato turistico. Ma tutte queste problematiche vanno ricondotte a un modello che ci consenta di calcolare esattamente quali siano i costi, i benefici e l’indotto. Nel modello di zona franca doganale – l’abbiamo detto, è stato più volte sviluppato – l’effetto principale è rivolto all’incremento di traffici e del commercio internazionale. Nella zona di produzione, infine, l’obiettivo perseguito è l’insediamento e la permanente localizzazione di imprese in un determinato territorio. Si tratta di uno strumento di politica economica che incentiva lo sviluppo di regioni particolarmente depresse, attraverso il richiamo di capitali privati esterni a fronte di benefici offerti sul fronte dei dazi e delle franchigie sulle importazioni, ma soprattutto sul fronte fiscale con un pacchetto di agevolazioni in grado di incidere sia sull’imposizione diretta, in termini di IRES e IRE, sia indiretta (IVA, imposta di fabbricazione e analoghe). Quest’ultimo insieme di benefici, che non rientra storicamente nella definizione economica classica di zona franca, trova oramai un’ampia serie di precedenti nell’esperienza internazionale, anche in ambito UE. 29 E’ stato detto più parti: “L’Unione europea non farà mai passare un progetto di zona franca”. Invece anche nell’ambito dell’Unione europea tali interventi, che si configurano pure come aiuti di Stato, sono ammessi in un quadro di riequilibrio e compensazione di situazioni di svantaggio derivanti da fattori oggettivi, come ad esempio l’insularità o i limiti interni ed esterni di un sistema produttivo. Chiaramente un modello di zona franca integrale delineato in questi termini necessita di una giustificazione a livello comunitario che non potrà prescindere da un limite temporale di applicazione. Tutte le altre esperienze in questo senso avevano ab origine una durata limitata nel tempo, tendenzialmente decennale, la cui scadenza risultava certa e definita fin dal provvedimento di richiesta dello Stato membro. Ciò non esclude che tale durata possa successivamente essere prorogata e i benefici riproposti con differente intensità per il periodo successivo. Gli esempi maggiormente significativi, sotto questo profilo, per dimostrare che non parliamo di sogni, non parliamo di salti nel buio, ma di esperienze già consolidate nel tempo, sono a mio avviso rinvenibili nel modello portoghese riferito alla Regione autonoma di Madeira, nel régimen especial proposto dalla Spagna per la Comunidad Autónoma de Canarias e infine, da ultimo, le ipotesi di istituti franchi elaborati dalla Repubblica della Lettonia, che rappresentano il modello di riferimento dei Paesi di nuova adesione al trattato UE. In Portogallo la Commissione europea, con un provvedimento del 2002, ha autorizzato la riforma fiscale presentata dalle autorità governative portoghesi per la zona franca della Regione autonoma di Madeira. Tale riforma prevedeva un nuovo piano di aiuti fiscali per le imprese che si fossero insediate nella zona franca industriale e nel Madeira International Business Centre. Con questa decisione la Commissione ha stabilito un principio importante, ha riconosciuto cioè che gli aiuti erogati sotto forma di riduzioni della pressione fiscale, entro la scadenza originariamente prevista, possono contribuire allo sviluppo regionale delle attività e dell’economia in genere. Con tale provvedimento si è altresì riperimetrata la zona franca facendola coincidere con i confini della zona franca industriale, del Centro internazionale di servizi e del registro internazionale navale. In Spagna il Governo centrale nel suo territorio ha istituito numerose comunidades autónomas e i regimi fiscali locali, i cosiddetti régimen foral. Di particolare interesse sono i regimi fiscali adottati in Navarra, nei Paesi Baschi e nelle richiamate Isole Canarie. Le Isole Canarie hanno goduto tradizionalmente di un sistema fiscale del tutto eccezionale rispetto al resto del territorio spagnolo. Le circostanze geografiche e la lontananza dal territorio peninsulare giustificano l’esistenza del regime speciale, il régimen especial. Quest’ultimo è riconosciuto dalla Costituzione spagnola e dall’articolo 46 dell’Estatuto de Autonomia de Canarias, approvato nel 1982, quindi ben lontano dal nostro Statuto di autonomia. Obiettivo del regime fiscale agevolato è quello di promuovere lo sviluppo economico e sociale delle isole e la diversificazione della struttura produttiva per mezzo di incentivi in favore della localizzazione nelle isole di imprese e capitali attratti dai vantaggi inerenti la creazione della Zona Especial Canaria, la cosiddetta ZEC in acronimo. Il suo ambito di applicazione si riduce nei limiti geografici ai contribuenti e alle attività ammesse al regime speciale medesimo. La ZEC, che si estende per tutto il territorio delle Isole Canarie con specifiche particolarità, è autorizzata dalla Commissione europea con un provvedimento del 2000, di durata iniziale prevista fino al 2008 e successivamente prorogata. INCIDENZA IMPOSTA SUI REDDITI DELLE SOCIETA’ NEI PAESI UE ( anno 2010 ) Vi sono delle condizioni chiaramente, e anche la Regione Sardegna, nel disegnare il proprio modello di zona franca, dovrà delimitare un perimetro di accessibilità alla zona franca, perché dalla delimitazione di questo perimetro si ottiene anche una quantificazione certa delle risorse necessarie. In quel caso i requisiti richiesti sono quelli di essere di nuova creazione, con domicilio fiscale e sede della direzione effettiva nelle isole, che almeno uno degli amministratori debba avere la residenza nelle isole, che realizzi un investimento minimo di 100 mila euro in attività fisse connesse all’attività entro i primi due anni e di creare almeno cinque posti di lavoro entro i primi sei mesi seguenti alla data dell’autorizzazione. Questo dei posti di lavoro è un requisito interessante anche sotto il profilo della intensità delle agevolazioni che poi la ZEC va a riconoscere. Infatti, l’intensità varia a seconda della creazione di nuovi occupati. Per l’imposta sulle società, l’impuesto de sociedades, che nel territorio spagnolo è del 35 per 31 cento, i benefici si applicano tenendo conto di tre distinti periodi che variano a seconda dell’anno di insediamento nella ZEC. Un semplice esempio può aiutare a far capire a tutti il meccanismo. Se una società Alfa si insedia nella ZEC nei primi due anni dall’autorizzazione dell’Unione europea e crea un numero netto di occupati da 5 a 8 pagherà in luogo del 35 per cento un’imposta dell’1 per cento per i primi tre anni di attività, del 2,5 per i successivi quattro e del 5 per il restante periodo di applicazione. Al crescere del numero degli occupati l’aliquota dell’imposta si riduce progressivamente fino a un minimo a regime del 3,5 con oltre 20 occupati. Nei Paesi di nuova adesione all’Unione Europea, con decorrenza dal 1° maggio 2004 sono particolarmente interessanti le ipotesi di istituti franchi elaborati dalla Repubblica lettone. Le zone franche speciali, le special economic zone, in Lettonia sono state introdotte con diversi provvedimenti. Anche qui l’insieme del pacchetto di agevolazioni prevede dall’esenzione dell’80 per cento dell’imposta sulla proprietà immobiliare, all’ammortamento accelerato fino al 200 per cento della percentuale ordinaria, all’esenzione del 70 per cento dell’imposta sul reddito. Perché tutta questa digressione su modelli che già sono operanti nel resto d’Europa e del mondo? Per rappresentare la certezza, la consapevolezza che il Partito deve avere che certo vi sono delle criticità, certo ci sono delle difficoltà, però questo modello esiste ed è ben consolidato altrove. La nostra attività, la nostra capacità di studio deve essere rivolta a coglierne gli aspetti positivi per poterli riproporre. Il Partito sardo d’Azione dovrà riprendere la propria storica iniziativa sul tema per dare un segnale chiaro ai sardi sulla capacità della politica di dare risposta a delle aspettative senza alimentare false aspettative, senza utilizzare questo strumento in chiave propagandistica, ma cercando di dare una svolta di qualità e di sostanza per offrire strumenti adeguati al circuito economico e produttivo isolano.
8.5 I grandi temi storici da sviluppare
Conferenze Programmatiche specifiche dovranno attualizzare e sviluppare i grandi temi storici del sardismo a partire dai trasporti e la continuità territoriale, affrontando le questioni più urgenti del presente e dando una prospettiva credibile e realistica per il futuro. In particolare: – la valorizzazione ed integrazione a sistema dell’immenso valore del patrimonio culturale ed archeologico unico al mondo per consolidare un modello di Economia della Cultura, dal quale trarre nuove opportunità di crescita e di sviluppo sostenibile in grado di generare lavoro nei settori principali e dell’indotto; – lo studio specifico dei maggiori costi ed oneri derivanti dalla condizione di insularità, oltre l’aspetto puramente geografico e nominale, finalizzata ad un sistema di compensazioni che consenta di riallineare in termini di opportunità e competitività la Sardegna con le altre regioni d’Europa; – una tutela coerente e sostenibile dell’ambiente e del paesaggio che – rifuggendo le radicalizzazioni ideologiche e massimaliste – contemperi le esigenze di conservazione del grande patrimonio naturalistico sardo con le attività umane compatibili; – la ridefinizione della vertenza entrate per assicurare un adeguata partita di risorse finanziarie in grado di supportare incisive politiche di settore per superare il divario competitivo, la disoccupazione, il ritardo infrastrutturale e di sviluppo, le insostenibili diseguaglianze sociali incrementate da una crescente povertà; – l’istituzione dell’Agenzia sarda delle entrate quale strumento di supporto dell’Amministrazione e degli enti locali per l’esercizio della propria sovranità tributaria, riscrivendo l’autonomia finanziaria della Regione e affermando il principio di sussidiarietà e leale collaborazione nell’accertamento e nella riscossione dei tributi regionali e locali; – la negazione di qualsiasi ulteriore insediamento inquinante nell’Isola ed il progressivo smantellamento degli esistenti con un adeguato programma di bonifiche e di riconversione professionale degli occupati: no alle scorie nucleari; no alle esercitazioni militari a fuoco; no a discariche che determino l’importazione di rifiuti dall’esterno; – la riforma del sistema sanitario assumendo la centralità del paziente e della salute come criterio guida per il dimensionamento e lo sviluppo della rete ospedaliera, garantendo parità di accesso e adeguatezza delle prestazioni; – la riforma della regione e del sistema delle autonomie locali in termini di reale sussidiarietà e leale collaborazione; – La revisione delle servitù militari secondo l’esclusivo interesse dei sardi e della pace nel mediterraneo; – Un Piano energetico che sia basato sui reali interessi della Sardegna e del suo sviluppo economico autonomamente deciso in vista dello sfruttamento delle proprie risorse naturali; – il riconoscimento della competenza esclusiva in materia di antichità e belle arti e la regionalizzazione delle Sovrintendenze Archeologiche ed Architettoniche;
9. Ridefinire il perimetro del sardismo
La grande attualizzazione programmatica degli ideali storici del Partito dovrà contribuire a ridefinire in maniera chiara il perimetro del sardismo. Dopo tanti anni di impegno e di azione, infatti, grande parte del patrimonio ideale e programmatico del PSd’Az ha contaminato l’intera società sarda e l’ideologia degli altri soggetti politici, che si fanno spesso propugnatori delle nostre stesse battagli, dei nostri temi storici, fermandosi però purtroppo il più delle volte a mere affermazioni di principio o ai soli titoli. E’ un po’ quello che Mario Melis definì a suo tempo “il sardismo diffuso”. Un opportunità e un rischio. Da un lato, infatti, infatti sta l’opportunità di coinvolgere una platea sempre più ampia di attori e protagonisti sociali e politici sul dibattito sardista ma dall’altro risiede il rischio di vedere diluita la propria originalità fino a sfumare nei suoi contorni a tal punto da divenire non immediatamente riconoscibile dal corpo elettorale. Ovvero, nel momento in cui strumentalmente il lessico politico e le proposizioni programmatiche di altri soggetti mutuano il nostro vocabolario – restando però alla superficie delle cose, senza sostanziare di contenuti concreti gli enunciati – il nostro consenso potenziale in Sardegna si distribuisce su partiti – solo apparentemente compatibili – che in verità non perseguiranno mai fino in fondo gli obiettivi dell’indipendenza, del riscatto e del progresso del Popolo Sardo. Occorre distinguerci e renderci riconoscibili agli occhi dei sardi, per coerenza e credibilità. Occorre, ancora, aprire il partito affinché il perimetro del sardismo ricomprenda quei settori della società civile oltreché quelle sensibilità politiche affini che attualmente militano o vivono in solitudine al di fuori del Partito.
10. La sfida del governo
Il grande lavoro che ci proponiamo non può avere un orizzonte sterile ma deve – pur nella consapevolezza delle difficoltà che si incontreranno – prefiggersi la sfida del governo dell’Isola come strumento per portare a compimento il SARDISMO inteso come ideologia di liberazione nazionale e sociale. Pertanto, da qui, oggi, dal territorio che porta un nome evocativo e simbolico per la storia dei Sardi, Arborea, come il Giudicato che ebbe l’ambizione di riunificare l’intera Sardegna sotto una bandiera ed uno stato indipendente, riparte la sfida sardista per la libertà e la felicità del Nostro Popolo! Ai soliti Sacerdoti del pessimismo e della rassegnazione, ai cultori dell’asservimento passivo all’ineluttabile “status quo”, consentitemi di riservare pochi istanti per concludere con le parole di una famosa opera di Pablo Neruda: “Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine, ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,… lentamente muore… chi non rischia la certezza per l’incertezza, per inseguire un sogno,… lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo, chi non fa domande sugli argomenti che non conosce, chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce…”. Fortza Paris! F.to Christian Solinas ( .
..seguono 149 firme… )
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XXXIII CONGRESSO NAZIONALE del Partidu Sardu – Partito Sardo d’Azione
TESI CONGRESSUALE
DAL GOVERNO DELLA DIPENDENZA AL GOVERNO DELLA RESPONSABILITA, di ANGELO CARTA + 100 firme
” Arborea 24–25 ottobre 2015
Essere Sardi è un vantaggio. Lo è sempre stato ma ora lo è anche di più perché essere sardo, cioè fatto a immagine e somiglianza di questa terra, oggi vuol dire avere da raccontare di sé al mondo usando ancora la propria lingua e la propria musica pur conoscendo le lingue e le musiche del mondo. Il tempo della modernità, nella quale ci vogliono fare credere ad una Sardegna spettatrice, non ha sterilizzato il processo della definizione dell’identità anzi lo ha alimentato, grazie al fatto che i sardi si sono sempre sentiti forti delle loro ragioni, del proprio essere. I sardi hanno sempre sentito così, anche quando al mondo non interessava la loro storia, il loro passaggio leggero sulla terra. Ora è necessario uscire dalla metafora che ci vuole tutti sardisti dove “tutti” vuol dire esattamente “nessuno”, perché il sardismo è ridotto ad una sorta di trasversalità culturale di cui chiunque è legittimato ad appropriarsi.
LE PRECONDIZIONI PER IL RILANCIO
Le precondizioni che sostengano un modello credibile di sviluppo non risiedono in aiuti di stato o europei, né in rivendicazioni di responsabilità terze: sono in mezzo a noi sardi, sono nella imprescindibile esigenza di essere noi i decisori e non solo i portatori di interessi. Dobbiamo pretendere di incassare i nostri crediti maturati con piani di rinascita previsti nello statuto e mai realizzati, i danni subiti in tanti anni di colonialismo. Le risorse dovranno essere gestite dai sardi senza intermediazioni e mediazioni dei governanti romani incapaci di capire la Sardegna e i Sardi. Il sardismo che intendiamo, infatti, non è rivendicativo verso terzi estranei. E’ la rivendicazione di ogni sardo anzitutto verso se stesso, ad essere ciò che questa terra ha prodotto, ciò che da questa terra ha maturato e che deve trovare la sua espressione qui, fra le sue cose, il suo mare il suo ambiente.
3 Essere sardo e vivere in Sardegna è un vantaggio se il sardo non rivendica per altri responsabilità sue, ma le pretende per sé. Vincoli in materia ambientale, fiscale, marittima, doganale, dazi e gabelle, trasferimenti, aiuti cosiddetti mirati, la tutela dall’esterno della cultura e dei beni culturali, sono i frutti che la politica è stata in grado di offrire ai sardi fino ad oggi, tutte con un comune denominatore: la dipendenza. Il sardismo di ogni sardo deve trasformare in proposta di convivenza civile all’interno dell’Europa dei Popoli la necessità di una libera espressione dell’essere, del sentirsi, del parlare e vivere come sardo, non omologato ma integrato, non suddito ma pari, non isolazionista ma aperto in una condizione di libertà di espressione culturale, di identità vissuta. Il cammino è stato lungo ma il passaggio dalla dipendenza alla responsabilità è possibile se avremo un sardismo interlocutore del popolo sardo e suo rappresentante nella partita che si deve giocare con lo stato e con l’Europa.
IL PSDAZ E’ UN PARTITO E NON UN MOVIMENTO INDISTINTO
Per questo dobbiamo ripensare il sardismo e il rapporto con i sardi attraverso l’inizio di una revisione organizzativa e di prassi che ci colleghi di più alle nostre comunità senza cedere alle tentazioni di un partito liquido, telematico, senza contatto con la base popolare e che sarebbe controllato da una élite forse illuminata ma poco democratica e con la tentazione dell’uomo solo al comando. Al contrario dobbiamo ripensare le sezioni non più come collettori di tessere ma come luoghi al servizio della comunità ed attenti ai bisogni reali; luogo di elaborazione e maturazione politica, luogo di formazione per le nuove classi dirigenti. Responsabili verso noi stessi e verso lo stato delle politiche fiscali all’interno di una fascia territoriale, la Sardegna, esterna alla cinta doganale. E’ nostro dovere rilanciare la battaglia per la zona franca, riappropriandoci di una elaborazione nostra e sempre aggiornata riprendendo le proposte di legge nella scorsa legislatura. Dobbiamo rivitalizzare il forte movimento di massa recentemente sviluppatosi in Sardegna senza le strumentalizzazioni delle quali è stato vittima e che un entusiastico ma errato modo di concepire la zona franca lo ha fatto nascere e anche morire. Sardi capaci di avere da se stessi e per se stessi le risorse per lo sviluppo in un rapporto innovato dove non si attende ma si agisce da protagonisti. Sardi, la cui forte flessibilità culturale ed economica possa proporre nella nostra terra l’occasione per riconoscere ed apprezzare le competenze funzionali allo sviluppo.
PUNTI QUALIFICANTI DEL NOSTRO SARDISMO
Una fiscalità affidata ai sardi che ribalti il rapporto con lo stato: non più l’attesa di un ritorno delle entrate sotto forma di trasferimenti, ma la conservazione in loco in gestione ai sardi. Restituire le competenze fiscali alla Sardegna tramite il rovesciamento dell’attuale situazione, secondo l’originaria impostazione sardista, per cui in Sardegna si esigono e amministrano le tasse e una parte va allo Stato. Dobbiamo lottare per la riforma dello Statuto in questa direzione e ottenere la restituzione delle immense cifre di tasse e imposte pagate dai sardi ed incamerate dallo stato che ha restituito le nostre risorse mascherandole come aiuti e destinandole in gran parte a soggetti estranei che ne hanno abusato sottraendole allo sviluppo della Sardegna tradendo le comunità che attendevano una prospettiva che non è mai arrivata. Non più e non solo un risarcimento dei vincoli in termini monetari, ma la compensazione di vincoli nuovi determinati dai Sardi con l’azzeramento dei vincoli fino ad oggi subiti. Dobbiamo formare una coscienza nuova in chi amministra la Sardegna per avviare una serrata trattativa con lo Stato per ridefinire il rapporto con esso che ribalti il centralismo vecchio come quello nuovo, nei termini possibili in relazione alle nostre forze. I Sardisti si iscrivono a governare la Sardegna quando e se ci saranno queste condizioni. In questo senso il Psd’az conferma che il centro della politica in Sardegna non può che essere il SARDISMO al di là di superate e dannose equazioni di compatibilità ideologica con la sinistra o la destra dell’arco politico succursalista romano. Il sardismo che declini Sardegna in terra di sviluppo, in luogo dove è facile e conveniente fare impresa, dove è facile arrivare e vivere, crocevia di incontri, di traffico di idee e di speranze. 5 Sardegna non più come isola, ma come punto di partenza e di arrivo, non più e non solo come luogo esotico, ma terra di lavoro e di benessere. Sardegna come luogo di libertà di commercio e di esportazione, capace finalmente di interpretare appieno la sua vocazione mediterranea. La Sardegna e il Sardismo col Partito Sardo d’Azione come terra di libertà, dell’antiproibizionismo, liberale e sopratutto liberista che abbia come suo importante e caratteristico obbiettivo la zona franca fiscale e doganale. Un’idea politica ed un partito vicino al popolo e alle sue esigenze con la sua idea di socialità forte e determinata, ma mai compatibile con idee non democratiche e totalitarie di socialismo e ancora peggio di comunismo o di fascismo. Il liberismo e il socialismo sardista che convivono dialetticamente assieme in una alternanza di prevalenza a seconda dei tempi e delle necessità, raccordandosi sempre con le migliori esperienze democratiche europee, rifuggendo da suggestioni autoritarie e sopratutto violente in qualsiasi forma, prediligendo la via pacifica all’indipendenza che rimane il nostro ultimo obbiettivo assieme alla massima giustizia sociale. Senza questi caratteri essere sardi è solo un dato anagrafico inerte se non è accompagnato dallo stato morale della sardità: quel sentimento intimo ma dirompente che ci fa sentire noi stessi solamente se siamo connessi alla nostra terra e alla sua gente. Per arrivare a questo si deve ribaltare il sentimento di fatalistica rassegnazione che sempre ha accompagnato il viaggio vissuto come un ineluttabile momento di iniziazione al mondo che offre opportunità: l’abbandono della Sardegna per studiare, lavorare, produrre, cercare, trovare e, forse, tornare. Preparare un Popolo Sardo consapevole che l’obiettivo della continuità territoriale può essere solo uno slogan che camuffa altre conquiste, magari di un turismo più vorace, se non è unito a quello della continuità culturale. Un Popolo consapevole che la sua terra, la Sardegna, sta al mondo esattamente quanto la Sardegna si racconta al mondo ed esattamente nel modo in cui si racconta. 6 Se questa narrazione la fanno solo gli uomini che vendono felicità a tempo grazie ai nostri valori ambientali e culturali presentati superficialmente perché il metro è lo spazio breve della vacanza, della Sardegna rimarranno esotici ricordi. L’obiettivo deve essere un altro: LA CONTINUITA’ CULTURALE Per fare questo è necessario contrastare l’ormai bicentenario tentativo dello Stato dominante di cancellare la lingua sarda e le sue varianti come l’algherese, il sassarere, il tabarchino ed il gallurese che hanno gli stessi diritti della lingua sarda, e la storia e la cultura di questa nostra Terra. Il grandissimo valore della nazione sarda, forse unica nel Mediterraneo, nella quale i suoi abitanti pur parlando in maggioranza il sardo e in misura inferiore le lingue alloglotte, si sentono tutti sardi, appartenenti alla stessa nazione e pronti sempre alla lotta per difenderla ed affermarla. Rafforzare questa lotta per bloccare la desardizzazione è compito del Psdaz per riportare la lingua sarda e le altre nella società tutta a partire dalla scuola materna sino all’università e per un suo uso normalizzato in ogni significativo settore della vita pubblica con un contemporaneo salvataggio della lingua sarda così com’è parlata in ogni comunità Continuità culturale che non può esistere senza la salvaguardia della nostra storia che deve essere studiata sin dalle rime classi al contrario di quanto finora è avvenuto con la sistematica cancellazione e omissione di quanto esiste di Sardo. Continuità culturale con i sardi che la Sardegna la abitano senza pentimenti, i sardi che la Sardegna la vivono da lontano con orgoglio e prossimità emotiva, gli ospiti che devono restituire non i denari spesi per la vacanza, ma il credito di felicità che vedere ed almeno intuire la Sardegna comporta, per farla diventare una formidabile rete di sardità nel mondo che va sfruttata come laboratorio di idee per produrre nuovi valori calcolabili economicamente non solo in base ai “prodotti tipici” venduti ma in base a servizi innovativi prodotti con la telematica. Occorre annullare la distanza culturale tra la Sardegna e il mondo in modo che non esista più la necessità del viaggio di ritorno di un percorso psicologico e fisico dell’abbandono ritenuto inevitabile: 7 si torna e si trova un’altra Sardegna che ci appartiene ogni volta un po’ meno finché diventa una matrigna lontana e un’occasione persa. Noi sardisti dobbiamo realizzare il nostro sogno che è quello di essere partecipi di un processo politico ed economico di liberazione, che veda questa splendida isola ritornare ad essere terra di libertà e benessere per non vedere più partire tanti sardi verso un’emigrazione non voluta, non cercata e spesso senza ritorno, conservando per tutta la vita il dolore di un distacco dalla propria madre patria e sognando un ritorno impossibile. Vorremmo vedere partire solo gente contenta di partire in altre terre ed in altre società per studio, per affari, per amore o solo per la voglia di conoscere altro e vivere nuove esperienze. Lo scambio di popolazioni, l’intreccio di culture ed esperienze diverse ci fa appartenenti ad una più vasta umanità e ci fa crescere. Ma non per forza, ciò è inaccettabile. Occorre creare il senso comune del luogo ideale/virtuale della sardità soprattutto in riferimento ai sardi lontani. Vorremmo vedere i sardi tornare in Sardegna, riportando da noi le esperienze maturate, le professionalità acquisite e la voglia di fare e intraprendere. Un programma sardista che possa consentire a migliaia di sardi di tornare a casa, anche con le nuove famiglie costruite nell’emigrazione, contribuendo ad una nuova stagione di sviluppo economico e rinascita culturale della Sardegna non più terra di partenza ma di arrivo e ritorno. Un programma possibile solo se ci libereremo dal colonialismo e saremo capaci di autogovernarci democraticamente e con RESPONSABILITA’. Allora la vecchia forma rettilinea del viaggio di abbandono diventerà la forma circolare del viaggio della vita, un legame che non si spezza mai.
UN PROGRAMMA PER ANDARE AVANTI
Un programma capace di andare oltre la scelta di rappresentare politicamente questo o quel gruppo sociale trovando valori e obiettivi differenti secondo i filtri forniti dalle ideologie superate dalla velocità in cui il mondo ridefinisce i rapporti di produzione e consumo. Per sostenere in Sardegna l’urto di scelte economiche fatte anche per noi da altri in altri luoghi e con obiettivi senza confini o valori etici, non basta adoperare il sardismo come addensante per proporre un vecchio interclassismo legato ad un valore fondante. Occorre usare il sardismo e la sua declinazione politica per ricercare il punto di sintesi oltre le retoriche del “bene della Sardegna” slogan buono per tutti. Questa sintesi sta nell’idea di identità come processo narrativo continuo e dunque come azione politica volta a realizzare la Sardegna come soggetto indipendente titolare di diritti e di doveri. La politica deve assicurare le condizioni attraverso le quali l’identità possa trovare emersione e non rimanga uno sfondo folclorico o di ricerca antropologica o sociologica. Non è solo un problema culturale, né solo di economie, né solo di prassi quotidiana: è il problema della agibilità politica dell’idea di Sardegna. L’agibilità politica passa attraverso la presenza forte ed autorevole del PsdAz. L’intuizione più importante dei fanti e degli ufficiali della Brigata Sassari e di tutti i combattenti sardi nella I guerra mondiale, che in quest’anno ricordiamo nel centenario del suo inizio, a mio parere non fu il programma politico, perché questo muta col tempo e con gli eventi, ma con la decisione di costruire un soggetto che non era mai esistito che fosse il punto di riferimento politico della nazione sarda, il partito dei sardi, il PSDAz. Non è un caso che sino ad oggi abbiamo assistito al tentativo di assorbimento, infeudazione, condizionamento e distruzione del nostro partito da parte dell’intero sistema politico italiano per prenderne l’eredità, utilizzarla per mascherarsi davanti alle masse come sardisti, ma fare l’esatto contrario della politica sardista, cioè colonizzare e sfruttare ancora di più la Sardegna e assimilarla alla penisola. 9 Distrutta la lingua sarda ed il PsdAz la nazione sarda sarebbe finita, cancellata culturalmente e nella sua soggettività politica e quindi del diritto naturale all’indipendenza e alla Repubblica dei sardi, che è l’obbiettivo istituzionale incancellabile del PSdAz. La ristrutturazione in atto degli strumenti rappresentativi della volontà popolare in Italia, dai nuovi partiti alla cosiddetta antipolitica, segna uno scenario complesso ma che offre l’occasione imperdibile di affermare la nostra identità come valore politico convincente. La Sardegna sta al mondo non solo perché esprime diversità e differenza ma perché è riconoscibile nella dinamica della sua individualità. Affermare la sovranità, o vedersi negare il diritto naturale a farlo, sono passaggi formali certamente utili quando si scrivono i trattati internazionali, interessanti per gli esperti di ingegneria costituzionale, ma immancabilmente percepiti come insignificanti e difficili da capire dalla gente. La differenza è la pratica quotidiana del confronto tra città e campagna, tra ieri e oggi, tra l’isola e i continenti, tra una lettura e un’altra, è sempre un’andata e un ritorno: un percorso individuale che diventa cultura quando ha voce perché viene raccontato, con le parole, le musiche , i riti, le abitudini. Allora conquista un altro significato affascinante ma misterioso quanto il rapporto col mondo: per raccontare chi sei inevitabilmente inizi a dire “sono sardo”. Questa conquista verbale e semantica segna la sovranità dell’individuo ed ora deve segnare la sovranità della comunità che della sua differenza è sempre orgogliosamente andata fiera ma di cui ora deve diventare responsabile. Questa responsabilità si trova espressa nel processo politico in maniera debole se ridotta a sintesi da affiancare ad altre già descritte in altri contesti. E’ necessario ora affermare la capacità della differenza a farsi soggetto politico autonomo. La differenza è un valore vincente anche negli ecosistemi culturali e non solo in quelli ambientali quando non è annullata da una narrazione superficiale.
POCHI CONCETTI MA CHIARI E COMPRENSIBILI
La Sardegna ha bisogno di una sintesi politica unificante, quasi fosse un brand mercantile, o ha bisogno di un’analisi rispettosa di ogni comunità, di ogni esigenza, di ogni aspettativa o sogno? La sintesi politica che da spazio al sogno individuale solo nel momento delle elezioni e solo se si identifica con sogni di altri sembra un modello sfibrato. E’ il tempo di ricostruire un fitto legame tra le persone intorno al fuoco dei problemi o delle gioie di ogni giorno, di riprendere l’abitudine alla parola ed al rispetto delle storie. Solamente se si intuisce e capisce cosa vuole la gente si può chiedere alla gente di schierarsi e condividere azioni e sogni. Questo comporta prassi di vita politica dove si esprime la partecipazione e dove l’esempio deve essere trascinante: serve testimoniare i valori della sardità. Lo si può fare solamente avendo chiaro il percorso che porta ad una meta precisa: la trasformazione del rapporto di sudditanza tra Sardegna ed Italia. Noi abbiamo il dovere e la responsabilità politica a elaborare un programma, una prassi ed una comunicazione, che rendano possibile la spendita politica del consenso che saremo capaci di costruire. Non un programma massimo e ideale, perché già volere l’indipendenza è un programma ideale, ma un programma che vogliamo realizzare e che non ha bisogno di illustrazioni. Un programma che declini il percorso verso l’indipendenza, anche con alleanze seppur temporanee o passeggere, ma sempre funzionali al nostro obbiettivo e che su una base programmatica a medio periodo sia intellegibile dai sardi e incontri le loro aspirazioni e necessità dell’oggi e del domani. Un punto di riferimento delle diverse componenti della società sarda, senza inutili e sorpassati classismi e contrapposizioni che portano a dividere più che unire in una lotta di liberazione nazionale alla quale è chiamato il PsdAz. Un programma da elaborare dal Partito sardo con il contributo di rinnovamento di questo congresso nel solco della nostra più bella e autentica tradizione da proporre ai sardi alla valutazione elettorale. 11 Un programma che potrà essere condiviso e implementato dal contributo originale di altre forze politiche che rappresenti il manifesto sulla base del quale candidiamo il nostro partito e l’alleanza che saremo capaci di realizzare, al Governo della Sardegna. La storia e l’esperienza ci ha insegnato che dovremmo continuare a vivere nella società e con la società valorizzando e alimentando tutti gli elementi programmatici sardisti e non più sprecare occasioni importanti che ci hanno visto al Governo della Sardegna dimenticando o cessando la nostra Azione nella società sarda. La nostra bandiera e il nostro nome sono l’emblema e la rappresentazione dell’Azione e da questa non dovremo più allontanarci. Il vento sardista cessò gradualmente, ma inesorabilmente, quando cessò l’azionismo sardista che per un decennio fu alle origini di questo successo e del grande consenso popolare e dell’eccezionale proselitismo. Dobbiamo essere capaci di proporre Una visione che deve essere sostenuta dalla capacità di operare nell’immediato secondo una visione strategica che deve essere vincente.
IL PSDAZ E’ UN PROGRAMMA DI GOVERNO E NON SI ISCRIVE ALL’OPPOSIZIONE MA E’ PRONTO A FARLA
La scelta può essere vincente se inserita in un programma condiviso che si basi nel passaggio dal Governo della Dipendenza al Governo della Responsabilità e interpretato da tutti noi in maniera abile e convincente. Un’isola non è un luogo lontano ma, al contrario, un posto più vicino ad altri luoghi fisici o ideali. “Utopia” era l’isola del sogno politico perfetto coscientemente ritenuto irraggiungibile ma non per questo meno reale se capace di muovere sogni ed azioni quotidiane. I Sardi sono morti per l’utopia retorica ed estranea della patria. Sacrificio non vano perché ha diffuso la sensazione di essere qualcosa di identificabile e unitario non solo nella storia passata. Dobbiamo riannodare più fortemente i fili che hanno fatto la nostra identità e che l’italianità forzata ha allentato. Sono i legami col mondo nordafricano , con il mare e le rotte verso est fino a Bisanzio ed ora alla Cina, con la sponda catalana e spagnola. Non solo un ruolo di cerniera difficile da conquistare, vedi porto canale di Cagliari e suoi concorrenti.
IL SARDISMO PUO’ E DEVE DARE LAVORO AI SARDI
Le zone franche previste ad Olbia, Porto Torre, Oristano, Porto Vesme, Arbatax dal decreto 75/98 , che ci dobbiamo impegnare a realizzare, sono un’eccezionale occasione che non possiamo più perdere. Un ruolo di attore dinamico con la sua economia e la sua cultura già prossima a quelle economie e quelle culture: un vantaggio. Dell’abbattimento fisico della distanza vive l’industria del turismo con la quale si deve cogliere l’occasione formidabile di essere attori protagonisti e non comparse su un bellissimo fondale. Dal controllo diretto degli affidamenti dei trasporti alla costruzione di una immagine rispettosa dei valori comunitari e della sostenibilità; dalla ospitalità alla rete della Sardegna diffusa; dall’importazione di turisti e inquinamento alla implementazione di esperienze e di vividi contatti. La Sardegna deve essere prossima al mondo con la sua vera faccia e le sue opportunità e il mondo riconoscerà la sua importanza. La categoria della diffidenza è una semplificazione usata da altri per descrivere i sardi e la Sardegna e dunque provare senza possibili repliche la difficoltà del suo sviluppo, l’inevitabilità della sua arretratezza. Non è vero né è mai stato così. Non esiste altra terra così aperta al cambiamento e così forte nel non soccombere nella sua identità. Lo dimostrano gli ultimi settant’anni di storia della Sardegna o il mestiere millenario del pastore che in quindici anni è approdato con tutta la sua dinamicità nel mondo della qualità dei prodotti e del 13 mercato globale vivendo le stesse difficoltà di altri comparti economici e le stesse incredibili opportunità perdendole per politiche miopi e sorde. La tolleranza, intesa come accoglienza del nuovo quando rispetta le idee e le vocazioni dei sardi, è la pratica di tutte le nostre comunità che tanto affascina il visitatore.
SARDISMO APERTO AL MONDO E AL MEDITERRANEO
Questo straniero può essere anche l’imprenditore che qui trova terreno fertile e tollerante, nelle leggi e nel fisco ma anche nell’ambiente sociale che per esempio non esprime né tollera modelli malavitosi organizzati. Questa è una situazione che oggi in Italia esprime un vantaggio formidabile. La virtuosità della Sardegna sul tema del controllo sistemico da parte della malavita organizzata di ogni espressione sociale, deve essere un valore trainante di forte impatto e dalla ricaduta economica misurabile in modo che possa essere riscosso in termini di fiscalità agevolata per le imprese. Un sistema sociale che esprime controllo e tolleranza è l’ideale postazione per l’impresa moderna che basa sul talento locale la sua proposta vincente. Un talento diffuso che fa dei sardi non individualisti miopi, ma soggetti intraprendenti in una sfida i cui termini di scenario mondiali devono essere declinati sulla scala della sostenibilità del sistema Sardegna: le sue materie prime, i suoi valori comunitari, le sue aspirazioni di felicità. Massima attenzione del sardismo dovrà essere rivolta all’imprenditorialità sarda ed al suo sviluppo, perché solo l’imprenditorialità dà vero sviluppo ed occupazione e continuità nel tempo, escludendo ora e per sempre l’imprenditorialità basata sull’assistenzialismo e che vive sull’intermediazione del colonialismo visto come occasione di lucro per sé stessa ma a danno di noi sardi e della nostra economia.- Come non potrà esservi vero sviluppo finché prevarranno le logiche finora viste di accentramento di potere a Cagliari con la conseguente emarginazione delle zone interne. Logiche che spingono all’abbandono di paesi e comunità delle tante zone interne della Sardegna per concentrare gli abitanti nelle città più importanti o nelle coste. 14 Questo accentramento, figlio del centralismo italiano, danneggia sia Cagliari che l’intera Sardegna, mentre un ripensamento dell’intera struttura e pratica politica, legislativa ed economica della Regione dovrebbe restituire ad ogni città sarda un suo ruolo paritetico e concorde per gli interessi generali di sviluppo e progresso, senza dividere la nazione sarda in due o più parti belligeranti fra di loro garantendo a pochi i frutti derivanti dalla pratica del divide et impera. Questa situazione che auspichiamo non è retaggio di un mondo antico fatto di rapporti ristretti in un orizzonte locale ma è la forza della cultura sarda: essere figli ed interpreti di un modello di vita invidiabile che diventa un vantaggio e non un’anticaglia che frena. Il filo del rasoio tra sentirsi spinti verso la soggettività del proprio destino o la passività dei soli ricordi sta tutto nella quantità d’investimento materiale ed intellettuale che si è disposti a fare sulle infrastrutture dell’istruzione e della tecnologia. Il passaggio tra diffidenza e tolleranza è solo la presa di coscienza del proprio ruolo al mondo che diventa la forza di proporre la Sardegna. Ci si è convinti che sia reale necessità nella politica trovare direzioni diverse di marcia finora spartite tra destra e sinistra, categorie esauste e sempre meno capaci di interpretare la realtà e descrivere le azioni degli uomini. Nel nuovo scenario che anche le ultime elezioni ci hanno consegnato queste categorie sono residuali. La necessità è quella di recuperare il rapporto con la gente . Anche e soprattutto con i tantissimi Sardi che hanno deciso di non votare.
LA VIA SARDISTA ALL’INDIPENDENZA E’ ORIGINALE E IRRIPETIBILE
L’insegnamento che possiamo ricavare dalle recenti esperienze dei nostri fratelli Scozzesi e Catalani, senza cedere a inutili confronti o assimilazioni di situazioni radicalmente diverse, è quello della loro capacità di far affluire alle urne percentuali enormi di votanti, che sono andati non solo perché supportati da lunghi anni di buon governo, da programmi realistici e di piccoli ma decisivi passi, ma spinti da una volontà ideale di libertà e progresso incardinata dall’identità chiara di essere una nazione. 15 Su queste basi, dimostrare di essere all’altezza di governare, anche se in quote corrispondenti al proprio consenso elettorale, sia nei Comuni dei quali non smetterò mai di sottolineare l’importanza degli amministratori sardisti, degli assessori e dei Sindaci quattromori, sia nei futuri enti intermedi come sopratutto nella Regione sarda, è di capitale importanza per il consenso elettorale che è l’unico metro di giudizio di una buona politica e l’unico strumento per raggiungere gli obbiettivi che proponiamo al Popolo Sardo. In questa visione bisogna far emergere una funzione anche sociale che riguarda tutti noi, che riguarda il Consiglio Regionale che non è più quella di una sorta di intermediario vuotata di senso dall’azione di questi ultimi settant’anni, progressivamente e programmaticamente rivolta più all’autoaffermazione ed all’esclusione di ogni altro dal processo decisionale e partecipativo. E’ necessario il recupero del senso sociale della politica intesa come momento di elaborazione di idee e di prassi. Un Processo Costituente dall’Autonomia all’Indipendenza deve essere un nostro punto di forza, un obbiettivo irrinunciabile per un Partito che propone ai Sardi una speranza per un futuro migliore da uomini liberi e da nazione riconosciuta come tale. Organo di senso, udito-vista-tatto-olfatto-sapore, della società perché di questa è l’espressione quando ne coglie le dinamiche e ne ascolta le storie. Organo di senso della società perché capace di spiegarne il senso intimo cogliendo il significato della vita della comunità. Fare questo abbisogna anche di un riferimento ideologico. Fare questo abbisogna di credibilità. Fare questo abbisogna anche di strumenti. Fare questo abbisogna di un popolo partecipe ed ascoltato. Fare questo abbisogna di strategie. Fare questo abbisogna di tempo: ma il tempo è sempre troppo poco.
UNITA’ DEI SARDISMI SU CIO’ CHE UNISCE
Il PSdAz ha visto sempre con favore, pur mantenendo la propria autonomia politica e confermando i suoi principali principi strategici e tattici, la nascita di una pluralità di soggetti politici di ispirazione indipendentista e sardista. Tutti sappiamo bene che il PsdAz non ha mai interferito nelle logiche interne, talvolta anche travagliate, di questi soggetti politici, anche perché impegnato nelle proprie, come le attuali, che questo congresso è chiamato a sanare e superare per un rilancio del PSDAZ. Il nostro è il primo partito indipendentista, e fonte dell’indipendentismo sardo come dimostra la storia delle non comprese frange del primo e secondo dopoguerra, l’apostolato di Antonio Simon Mossa ed i suoi amici, il Congresso di Oristano sino al successivo e storico congresso di Porto Torres nel quale l’indipendenza della Sardegna, coniugata col federalismo, fu inserita con grande scandalo generale nell’articolo 1 del nostro Statuto. Non siamo mai entrati nel merito delle vicende politiche di questi partiti e movimenti, né dato pagelle né insultato o disprezzato ne posto in liste di proscrizione al contrario di come spesso è stato fatto da una sedicente area indipendentista dalla quale veniva escluso il PSDAz, con uno sfoggio di antisardismo a volte viscerale e incomprensibile. A questo atteggiamento di distacco, alla scelta di non alimentare polemiche il PSdAz si è sempre attenuto, ma sempre con sensibile attenzione ad ogni risveglio ed impegno sopratutto giovanile verso la libertà e l’indipendenza della Sardegna. E’ chiaro che questi atteggiamenti di ostilità non nascevano da diverse posizioni politiche, da visioni programmatiche e ideali profondamente diverse dalle nostre e se riusciremo a costruire, come dobbiamo, occasioni di confronto verificheremo che non sono inconciliabili o comunque di ostacolo a ipotesi di accordi politici basati sui punti fondanti del sardismo. Oggi è diffusa la consapevolezza che questa grande area indipendentista deve unirsi per il perseguimento degli obbiettivi comuni che sono politici e culturali. Noi del Psd’az non immaginiamo questa unione senza il concorso determinante del nostro partito in grado di rappresentare il necessario elemento di amalgama capace di costruire un’alternativa seria e credibile nello scenario attuale. Evidentemente un tale processo, come avvenne nel 1979, quando fu siglato l’accordo fa il Psd’Az e importanti movimenti neosardisti che diede l’avvio al vento sardista, deve iniziare con un confronto senza pregiudiziali di nessun tipo e nell’ipotesi di un progetto comune e soprattutto con la caduta di ogni antisardismo manifesto o occulto. Il PsdAz, con il nuovo gruppo dirigente che si darà con questo congresso, dovrà essere non solo pronto ma anche promotore di un confronto a tutto campo. Non solo all’interno dell’area indipendentista ma con tutte le forze politiche e culturali nell’intento di tracciare una via non minoritaria verso l’indipendenza nazionale della Sardegna e il suo progresso sociale ed economico ed identitario. E’ necessario tracciare un segno sardista evidente come non lo è stato finora: bisogna avere la forza culturale e la capacità politica di trascinare la tradizione del sardismo oltre il segno del gesso di un Partito che lo confina ad un’articolazione della storia della politica sarda verso un segno nuovo, verso parole nuove, verso sogni nuovi. Essere sardi è un vantaggio. Essere sardisti deve essere la traduzione politica di questo vantaggio.
I FATTORI COMUNI
La nostra cultura, con la nostra lingua, i saperi comuni, le eredità incommensurabili del passato, la vitalità creativa del presente sono un vantaggio, la visione pragmatica del futuro, un progetto a breve e medio termine. Essere sardisti vuol dire essere capaci di costruire politiche culturali che esaltino il vantaggio: studiare e insegnare le lingue, iniziando dalla nostra, alimentare i saperi comuni col nuovo e col confronto, gestire direttamente i beni culturali e la loro documentazione che ne fa storia narrabile grazie ad interoperabilità e convergenza non solo tecnologica tra archivi, musei e biblioteche. Lo strumento per raggiungere questo risultato è il nostro statuto riformato che comprenda questa competenza, senza fermarsi e mirando ad elaborare una proposta di nuovo statuto sardo, anche di transizione alla statualità, sino all’indipendenza lavorando per realizzare le condizioni politiche necessarie. 18 Il nostro cielo, la nostra terra, il nostro mare sono un vantaggio. Essere sardisti vuol dire essere capaci di costruire politiche ambientali che esaltino il vantaggio: efficienti e sostenibili, basate sulla verità che la Sardegna è così perché i sardi l’hanno conservata così, usandola in maniera sostenibile finché della Sardegna non si sono appropriate logiche esterne e politici locali conseguenti che hanno disegnato un altro profilo del cielo, della terra e del mare. Lo possiamo fare anche dando contenuti alle nostre competenze statutarie e obbligando lo stato alla bonifica delle sterminate aree inquinate dalle scellerate politiche industriali e d’abbandono e a restituire ai sardi le aree occupate dalle servitù militari e dai poligoni che dovranno essere riconsegnati alla libera fruizione dei Sardi disinquinati totalmente. Aree che dovranno essere fruibili da terra e da mare nelle quali progettare un futuro diverso per le popolazioni finora ricattate per l’assenza di un’alternativa per la loro riconversione. La nostra capacità di innovare è un vantaggio. Non esiste un altro popolo così numericamente ridotto che abbia vissuto da protagonista del Mediterraneo la sua storia più antica e segni quella più recente con la forza indomabile della propria identità, anche quando schiacciata e relegata alla marginalità. Questo è successo perché è forte la flessibilità culturale ed economica della Sardegna esattamente quanto la forza dei valori e delle competenze dei sardi, che -quando era molto difficile proporle nella loro terra- le hanno portate nel mondo che le ha riconosciute ed apprezzate. La storia della Sardegna è segnata da un apparente ed ineluttabile destino di subalternità legata al fallimento di tutti i tentativi di miglioramento delle condizioni di vita. Questo deve insegnarci che è destinato a fallire qualunque ulteriore schema di sviluppo dal quale il popolo sardo, pur essendo indicato come il beneficiario degli interventi, resti estraneo al processo di formazione delle precondizioni necessarie alla realizzazione del modello proposto. La voce forte e spesso unanime di rivendicazione verso qualcuno “altro da noi sardi” che debba assumersi una responsabilità, dare una risposta, trovare una soluzione è il segno di un politica sarda che non ha capito il vantaggio di essere sardi. 19 I fallimenti in sequenza ininterrotta dimostrano come l’approccio basato sulla benevolenza esterna sia vano. E’ un atteggiamento colpevole e colluso fino al tradimento che elude l’esigenza di creare le condizioni per cui i sardi possano agire come protagonisti assumendosi la totale responsabilità delle loro scelte.
IMPORTANZA DI UN FORTE GRUPPO DIRIGENTE
Fare questo abbisogna di un gruppo dirigente sardista che auspico emerga in questo congresso che unisca sardisti di diverse generazioni ed esperienze, senza soluzioni di continuità ed unito sulla base degli ideali di sempre e dei programmi sottolineati e proposti nel Congresso stesso, senza i facili accomodamenti artificiali del passato, con maggioranza e minoranza e se invece ci fosse unanimità di programmi ed intenti questa dovrebbe essere sostanziale e non di facciata perché al contrario non porterebbe al salto di qualità che noi tutti auspichiamo . Il tempo potrebbe bastare se oggi si arriva forti di un Partito che si presenta ai Sardi credendo veramente che non basti aggiungere la Sardegna come aggettivo ad un progetto esterno e più generale a cui è sufficiente accedere. Un Partito con un progetto che liberi la Sardegna e i Sardi dal governo delle dipendenza. Un Partito con progetto che non si realizza in un soffio, ma che può iniziare oggi. Un Partito con un progetto che significa vivere insieme agli altri senza rinunciare alla nostra sovranità. Un Partito con un progetto che guarda all’Europa e al Mondo dove i Sardi possano finalmente sedere e stare come una Nazione che ha il proprio Stato. Un progetto che non significa secessione perché è lo Stato italiano secessionista in quanto ha stracciato ogni patto sottoscritto con la Sardegna. Un Partito con un programma di governo per un’intera legislatura. Pochi punti ma realizzabili. Lotteremo per una Nazione Sarda libera ed il Psdaz deve essere interprete di questa libertà e garante di ogni patto e pronto a siglarne un altro se le condizioni politiche e geopolitiche lo permetteranno nella prospettiva sardista degli Stati Uniti d’Europa. Questa è la SOVRANITA’ che noi auspichiamo. Questa è l’idea di INDIPENDENZA alla quale crediamo e che vogliamo chiedere ai Sardi di condividere.
Dorgali lì, 14 ottobre 2015 Angelo Carta.
N. 100 SOTTOSCRITTORI