Storie di piazze e chiese e muri, e di uomini grandi e piccoli a Cagliari, di Gianfranco Murtas
Sono pennellate leggere e di colore quelle donate alla microstoria cittadina, in mille circostanze, da don Luigi Cherchi, residente fino alla sua morte nel quartiere cagliaritano di San Michele: in via Bosco Cappuccio 63, pressoché dalla presa di possesso del suo stallo canonicale in duomo, dopo il suo ritorno in città da Decimoputzu, dov’era stato parroco dal 1952 e per un lustro abbondante, e la sosta, anch’essa di cinque o sei anni, mi pare, nella cappellania del Santo Sepolcro dal 1958.
Pennellate perché monsignore, autore di qualche decina fra monografie (fra cui una preziosa raccolta biografica, sul crinale quasi bimillenario, dei vescovi cagliaritani, da Quintasio e poi Lucifero a Giuseppe Bonfiglioli) ed operette agiografiche o di taglio letterario, demologico ed anche di memoria paesana (a partire dalla sua San Sperate), aveva il gusto della storia popolare: la storia che germinava, di tanto in tanto, qualche distinta personalità degna d’esser raccontata a sé. Per cui era solito di andarsene in Biblioteca universitaria, e da una parte lui, da un’altra Antonio Romagnino, e da un’altra ancora Tito Orrù e Paolo De Magistris, erano per anni e anni, press’a poco fra ’70 e ’80 e anche ’90, questi monumenti di cultura e saggezza che intervallavano le postazioni di noi studenti, e dopo anche dei nostri fratelli minori, perduti lì nella sala settecentesca o nelle altre, più per ricerche di scelta che per preparare gli esami.
Una delle operette di monsignore s’intitola “Breve storia del quartiere San Michele” e raccoglie, ben ordinati, gli articoli che con pazienza egli aveva pubblicato per due anni, dall’estate 1985 alla primavera del 1987 – su “Il Primo giorno”, periodico a servizio della parrocchia della Medaglia Miracolosa. Una storia «presa dal vivo» – secondo le sue stesse parole –, con qualche integrazione dalle pagine utili del can. Giovanni Spano, di Dionigi Scano o di Francesco Alziator…
La prende da lontano, monsignore, la storia urbanistica e sociale di quell’indistinto pezzo di Cagliari che gli sarebbe divenuto, con il passare del tempo, così caro: tornando con la memoria agli anni del suo seminario, e cioè della sua adolescenza, che poi erano anche i primi della dittatura che s’avviava alla pacificazione del concordato, egli traccia idealmente i segni irregolari dei viottoli agresti di Masonis (oggi via Cadello), Maglias ecc., quasi perimetro estremo di un limbo tutto da decifrare. Inquadra in un rapporto come di mille a uno quello fra natura e cemento in quell’ameno indistinto verde spalmato ben oltre le mura virtuali delle circoscrizioni ecclesiastiche, che sul fronte nord-ovest della città, e fino al casello del Dazio e al Fangario vero e proprio, erano presidiate dalle parrocchie dell’Annunziata e di Sant’Avendrace. Dall’altra parte erano il colle e il castello otto volte centenario di San Michele. A farla breve, «era la zona che il popolo, in mancanza di denominazioni ufficiali, chiamava in modo globale o Bingia Matta o Is Mirrionis o San Michele». Poche e malandate le strade di traversata, più numerosi i sentieri campestri insinuati fra quelle vigne e quegli orti che erano rimbalzati di tanto in tanto, magari per qualche fatto di sangue o per i furti, nelle cronache dei giornali locali già dalla fine dell’Ottocento. Lì erano i possedimenti di Michele Carboni «fu Michele, fu Vincenzo», con la sua villa che aveva riciclato un antico convento ormai perduto, mentre tutt’attorno, dalla piazza d’Armi al prossimo cimitero, dal colle dei Carroz fino al Dazio era l’impero di una dinastia industriale-commerciale fra le maggiori, per la genialità imprenditoriale multianime, dell’Ottocento cagliaritano e anche del primo Novecento. Ben a ragione essa poteva dire, come Carlo V, che il sole non tramontava mai sulle sue proprietà.
Arrivano i vincenziani. Da Sant’Avendrace, dov’era parroco dal 1928, il dotto teologo Salvatore Cabras allungava il suo apostolato verso i nuovi nuclei abitati che sforavano, in progress, le aree coltivate distribuendosi nella piana orientata verso i margini estremi del monte Claro e fino a Pirri (proprio dal 1928 assorbito nella municipalità del capoluogo, avendo perduto, per semplificazione fascista, la sua autonomia comunale). All’inizio del 1936 egli promosse una cosiddetta “grande missione” che doveva istruire anche quegli sparsi cristiani d’oltre confine, e per la bisogna chiamò due predicatori vincenziani (i padri Camillo Perosino e Francesco Baudo) che parlarono in luoghi diversi, sia nella parrocchiale che nel vicino asilo, e anche in un salone-dipendenza della villa dei nobili Carboni (trasformato poi, provvisoriamente, con tanto di altare e confessionale, in cappella utilizzata per la messa domenicale e le funzioni vespertine, oltre che per il catechismo di grandi e piccoli). Numerose le medagliette “miracolose” distribuite agli intervenuti, significativo anche il numero delle regolarizzazioni matrimoniali, nella festa inconsapevole delle creature d’attorno.
Fu al termine di questa kermesse religiosa che vennero erette, nel piazzale della parrocchia intitolata al santo vescovo Avendrace e, per qualche tempo, nell’attuale via Tofane, due grandi croci. Come in terra di missione, in Asia o Africa o America latina, nell’indistinto fra il casello del Dazio e il prossimo cimitero (funzionante dal 1941) la Chiesa dei preti sfondava dunque le linee, chiamava e coinvolgeva, secondo la sensibilità anche pedagogica del tempo. E celebrava i suoi riti, in attesa di locali più adatti o tipizzati, ora in un cortile (quello Castagna, in via Monte Grappa), ora in un’officina (nella via Bosco Cappuccio), come documentano i pochi reperti fotografici che valgono oro per l’efficacia del racconto di quell’inizio o quel primo divenire, con i suoi luoghi, con i suoi protagonisti, con le sue occasioni.
Passata, già nel secondo anno di guerra, la guida della comunità di Sant’Avendrace a don Emilio Secci (e al suo vice don Evaristo Carta) si lanciò, o rilanciò, nel 1948 l’organizzazione degli Uomini cattolici. Ad alcuni fra i più volenterosi di loro si deve il progetto di fondazione di un asilo infantile e di un ricreatorio da intitolare al Sacro Cuore. Presto si aggiunsero le patronesse. Lo sforzo unitario puntava ad erigere una piccola chiesa, superando la difficoltà, però non da poco, derivante dalla dubbia disponibilità del sito – la futura piazza San Michele, detta Campo Carboni –, trattandosi di area demaniale. Uno stanzone per la messa – celebranti dottor Cabras, dottor Carta, dottor Faraone, l’indimenticato don Aramu (destinato a Sant’Elia, altra terra di missione urbana dai primissimi anni ‘50), i padri vincenziani-lazzaristi Iddas, Cubeddu ecc. – doveva bastare in un primo tempo; in riserva, per il momento più opportuno (venuto nel 1958), un ampliamento, al coperto, per il cinematografo e le conferenze.
Dalla vigilia del Natale 1949 si presentava così l’opera religiosa in territorio di San Michele, l’opera inaugurale (e di buon auspicio) del nuovo arcivescovo Paolo Botto, a Cagliari da due mesi soltanto. Rilevante, sotto mille aspetti, il lavoro discreto e intelligente della vincenziana suor Maria, in servizio al vicino ospedale SS. Trinità.
Parentesi. Nel momento in cui sembra cedere – ma non dovrà cedere – l’Asilo Marina Stampace della via Baylle, per un secolo e passa affidato alle Figlie della Carità e teatro dell’ordinaria santità cui si richiamano, con altri, i nomi ingegnosi e provvidenziali di suor Nicoli e suor Tambelli – la memoria di un’altra Figlia della Carità, appunto suor Maria al secolo Giuseppina Carta di Codrongianus, merita d’essere evocato per quanto a lei vada riconosciuto il tanto che avrebbe segnato, religiosamente e socialmente, il quartiere nuovo in sviluppo: l’affidamento cioè della cura della prossima parrocchia ai vincenziani. Don Cherchi stesso ricorda la confidenza avuta direttamente da suor Maria: a lei che sollecitava quell’incarico per i suoi confratelli, l’arcivescovo aveva risposto quasi sconsolato: «se non hanno accettato l’erezione della parrocchia di San Paolo!» (passata poi ai salesiani), ma proprio così offrendole… l’assist, per insistere e spiegare: «non hanno accettato perché quella è una zona di gente ricca, questa invece è una zona di gente povera…».
I contatti dell’arcivescovo Botto con i vincenziani (il padre generale Slattery, i padri visitatori Cocchi e Tasso, i padri della provincia torinese) si protrassero per un anno intero, fra 1953 e 1954. Primo responsabile della parrocchia fu l’ipercinetico, generosissimo padre Candido Cubeddu, affiancato dal suo confratello padre Augusto Giacomini; subentrò quindi nell’ufficio di parroco il padre Giovanni Cau, e dal settembre 1957 il mitico padre Nicola Abbo, che sarebbe rimasto sulla breccia per tutta la vita, anche da senatore (cioè fino al 1990).
Primo problema canonico la traccia dei confini, possibili all’inizio solo in direzione ovest/nord-ovest (cioè verso Sant’Avendrace), data la perdurante indeterminatezza delle aree volte verso il colle e la valle di Is Mirrionis in direzione di Pirri. (E’ di questi anni anche l’operazione che porterà al nuovo cantiere del seminario minore sulle pendici di San Michele, dopo la rinuncia al Tridentino, e la sua vendita alla Pubblica Istruzione, ed il passaggio delle classi per breve tempo all’estivo di Dolianova).
Sotto il fecondissimo parrocato di padre Abbo si svolge il film moderno, ma già ormai cinquantennale, della parrocchia della Medaglia Miracolosa e anche della piazza San Michele. Affidato il progetto all’architetto don Angelo Verri di Casale Monferrato, la posa della prima pietra data al 27 novembre 1960; il funzionamento della cripta – primo step della monumentale costruzione – prende corso nell’agosto 1962; l’inaugurazione vera e propria della chiesa, con la benedizione del cardinale Sebastiano Baggio, è del 28 settembre 1969; la consacrazione con gli antichi rituali, con l’intervento dell’arcivescovo Giuseppe Bonfiglioli, segue a distanza di ben nove anni, in data 21 settembre 1978. Così la parrocchiale. Di lato l’oratorio, la cui prima pietra è benedetta dallo stesso monsignor Bonfiglioli il 23 settembre 1973, a poche settimane della sua venuta a Cagliari.
Lunga traversata. Di pochi anni successivi è l’allestimento, di fianco ai grandi spazi di piazza San Michele, della piazza-sorella, per gli affacci virtuosi delle palazzine popolari consegnate già dal 1950, per le passeggiate fra le aiuole dei trecento inquilini, per qualche sosta degli anziani su una panchina salva, per qualche tiro di calcio di bambini e ragazzi… Cagliaritanità trapiantata qui e nei pressi, tanto più negli anni a scavalco di decennio, fra ’50 e ’60 cioè, dall’Ausonia (al Poetto), o anche da Sant’Elia. Altre famiglie faranno, nel tempo, il tragitto opposto, arrivando al nuovo borgo, al Favero dei 265 appartamenti, magari in via Schiavazzi, dalle strade di San Michele o Is Mirrionis. Già dai primissimi anni ’50, comunque, le case popolari rimediano alle impellenze più disperate. Sono gli acronimi che correranno per lungo tempo, come gli erogatori delle grazie sociali al popolo, quelli della Gescal o dell’Ina-Casa, fino a quello dell’Iacp che intanto trasformano, urbanizzandola fra mille contraddizioni e lentezze comunali, quella parte di città. Che è Cagliari vera però, non accessoria. Che è teatro del discorrere nostro popolare, così magnificamente registrato dal genio di Sergio Atzeni.
In zona di via Timavo sorge nel 1954 il primo asilo del quartiere-cantiere, affidato alle Figlie della Carità; esso trasloca, negli anni del parrocato Abbo, in via Doberdò, ed è poi rimodulato in scuola materna statale dal 1969; un asilo lo allestiscono anche le Ancelle della Sacra famiglia, e un altro poi sorge in via Bosco Cappuccio… Si potrebbe scrivere, scorrendo un trentennio circa, una lunga storia cittadina, o anche soltanto di quartiere, imbastendola sulla sequenza e le combinazioni di asili e scuole in San Michele e Is Mirrionis, quella privata e quell’altra pubblica, e si comincerebbe così a comporre, prendendola per questo verso, la trama sociale della Cagliari nuova, autentica nonostante, o forse anche in virtù del suo crescente meticciato (esito della polarizzazione urbana e cioè dell’inurbamento ad altri indici dal dopoguerra): della Cagliari comunque assai diversa dal passato anche per i tratti distintivi degli stessi ceti popolari che le danno, nella quotidianità, umanità e lavoro, colore e servizio… Un giorno purtroppo anche le cadute nella droga giovanile.
Via Cogoni, via Brianza, via Val Venosta, via Castagne Vizza, via Premuda, via Serbariu, via Baronia (per suor Teresa Tambelli), gli asili e le materne della città nuova zampillano, eppure non bastano mai. Per due decenni almeno, i picchi dello sviluppo demografico, fra Is Mirrionis e San Michele, sono esplosivi… Così per le elementari: da via Montello a piazza Medaglia Miracolosa (qui nel 1952), a via Is Mirrionis, a via Podgora (poi Premuda), a via Flumentepido (“Santu Perdixeddu”), a via Meilogu, a via Monsignor Piovella… Così per le medie, dalla Alagon in via Duca degli Abruzzi (1960), alla Mameli in via Bligny, alla Ciusa (poi comprensiva) in via Meilogu… e tutto il resto, con ricadute sostanziali sul territorio in espansione continua e ad incontrollato (almeno sembra) coefficiente costruttivo, fra formazione professionale, Magistrali, Tecnico Femminile ecc.
Lo stradario celebra le battaglie-mattanza e le glorie di patria della grande guerra – così nelle vie più prossime alla piazza San Michele –, celebra poi, magari nelle matrici dirimpetto all’ospedale, le regioni storiche dell’isola e le maggiori miniere dell’Iglesiente, e più in là, verso Saint Tropez, celebra gli arcivescovi nostri e, dopo ancora, le regioni d’Italia e le famiglie di riguardo, dai Masones ai Cornalias, ai Matta (pare proprio così, che Bingia Matta, come Bingia Pernis venga da un patronimico…).
Le nuove parrocchie, già dai primi e precari ma eroici allestimenti in garage o cantine, offrono alla massa gli strumenti e le occasioni di evolvere in comunità: ecco Sant’Eusebio (erezione canonica nel 1958, prima pietra nel 1960, consacrazione nel 1972), ecco i Santi Pietro e Paolo (erezione canonica nel 1967, montaggio step by step, e prima e dopo, in una casermetta di lato all’ospedale); più in là San Massimiliano Kolbe (parrocchia dal 1973, con ospitalità iniziale dai padri saveriani). E’ già venuta, press’a poco fra La Vega e Is Istelladas, dove s’alleano la birreria secolare e il manicomio provinciale, la parrocchia di San Francesco d’Assisi affidata ai conventuali; verranno quelle altre intitolate alla Madonna della strada (1972, prima pietra nel 1985) a Mulinu Becciu e allo Spirito Santo (1981) a Su Planu; nel mezzo, più prossima alla Medaglia Miracolosa, in via Montello, quella della Sacra Famiglia (1986).
Piazza San Michele. Nello stradario sociale-topografico ovviamente sembra conquistare un suo ruolo capitale, per anzianità di apripista, la piazza della chiesa, conversione dell’antico Campo Carboni. In quella piazza, dopo l’impianto della stazione AGIP, nel 1965, venne il rondò con la fontana e lo zampillo e vennero i sedili all’ombra sperata dei pini piantumati sul fianco orientale della piazza. Passava il tram, anch’io in ogni anno della mia infanzia, preciso nel mese di novembre, lo prendevo da Villanova per raggiungere quel cimitero che sembrava lontanissimo. La meraviglia del tram, su binari che finivano appunto nella piazza San Michele, prima dell’inoltro fangoso (pioveva a novembre!) lungo la via Duca degli Abruzzi. Così dal 1952 al 1968. Da quel 1968, salvo errore, funzionava anche l’edicola. In testa alle vendite, con L’Unione Sarda, i giornali sportivi ed i settimanali di famiglia.
L’8 febbraio 1979, un giovedì salvo errore, la ruspa abbatté la modesta chiesetta dei pionieri: la chiesetta con l’annessa sala-riunioni ed il cinematografo, nel cuore della piazza. Giustamente vinceva la monumentale, accogliente e luminosa, mossa e multispaziale pur in quell’unica aula moderna, nel frattempo salita verso il cielo con la rivendicazione mariana del sentimento popolare che il papa Paolo VI aveva ammirato nella sua visita cagliaritana del 1970 (anno dello scudetto e anno della visita papale in città). Soltanto un lustro più tardi si pensò, da parte del Comune, a piastrellare con qualche eleganza la piazza, a dotarla di aiuole e alberi, ora pini ora magnolie o altro, e anche di panchine, 34 i sedili di ferro, per le pause personali e i salotti sociali, sotto il sole tiepido dei pomeriggi e nel fresco della sera. L’illuminazione della piazza venne nella notte del 6 giugno 1985. Un ricordo a latere: un cippo memoriale evocativo di una vita breve, quella di un ex alunno della Alagon, di Giuliano Figus vittima di belve inferocite. Una colomba bronzea ferita a morte e la mano consolatrice d’una madre, sconfitta nel soccorso.
Oggi una quinta grigia e spessa. La stampa scritta, i telegiornali regionali e i blog della rete hanno scritto o mostrato, nelle ultime settimane, le immagini della piazza sconvolta dai lavori comunali, e dato conto delle proteste, pressoché unanimi, dei residenti per uno spesso muro alto cinque metri che fascia la chiesa monumentale dal basso separandola dalla piazza antistante, benché le offra lateralmente i gradini di accesso.
Non ho la competenza di giudicare l’opera che è ancora tutto cantiere. Condivido però le perplessità dei più e, pur immaginando che la struttura finita possa attenuare i disvalori estetici oggi rilevati, non credo possa però rovesciarne il segno, trasformando il negativo in positivo.
Mi interessa piuttosto evidenziare, per quanto possa essermi documentato, la miopia (cento altre volte mostrata e registrata) del sindaco Zedda circa la modalità del suo rapporto corrente con la cittadinanza, per quanto sia pure vero che egli non amministra la città dal chiuso di una stanza. Miopia non solo di Zedda – che ho votato quattro anni fa, improponibile essendo il suo competitore (non per la persona al voto, ma per la composita area politica di riferimento, parademocristiana e parafascista, con il più dei pagani irridenti alla bandiera), ma certo invotabile oggi – ma anche di altri esponenti della giunta e del Consiglio, delle commissioni cioè, incapaci di modalità dialogiche e democratiche nella sostanza.
I consiglieri di Forza Italia Nazionale e più, che di scempi cittadini sono esperti per averli compiuti nella loro troppo lunga stagione – come i rivestimenti lignei dell’anfiteatro e il ripascimento del Poetto insegnano – dicono che il muro cresciuto alla base della magnifica chiesa della Medaglia Miracolosa, nella piazza San Michele di Cagliari, sia proprio uno scempio. Da competenti, potrebbero avere ragione. In materia si è pronunciato, fra gli altri o più degli altri, anche il consigliere democristiano-berlusconiano (povero De Gasperi!) Tocco. Il quale, dopo essersi annessi molti meriti circa il recente riconoscimento della cittadinanza onoraria al rettore maggiore dei Salesiani (la prima autorità mondiale dell’Opera di Don Bosco) – meriti invece pari a zero, perché tutti accreditabili ai giovani ex allievi che hanno fatto tutto e più di tutto, soprattutto studio e collazione dei materiali forniti al Consiglio comunale – ha anche lui condannato gli amministratori e i tecnici, carezzando l’opinione protestante.
Basta così. Rilevo con malinconia che anche i migliori – dico quelli del centro-sinistra –, quando si innamorano troppo di se stessi, cadono nella trappola della autoreferenzialità e al civis quidam che si mostra inorridito per la malachirurgia imposta alla piazza San Michele non si offrono con un cordiale, o almeno cortese, «parliamone», ma obiettano – come hanno obiettato – un «ma chi ti manda?». La teoria del complotto accompagna sempre gli insicuri.
Una piazza metafora del ceto dirigente. E’ tutto qui forse, non lo so e non lo spero, il filo che potrebbe portare alla sconfitta del PD e dei suoi alleati politici o civici, al prossimo turno elettorale. Insomma, Berlusconi ci ha fatti vergognare davanti al mondo, ma la democrazia riformatrice italiana poteva opporgli soltanto Renzi? E a un sindaco di Cagliari sul cui nome si erano riversati i consensi di fiducia morale, prima ancora che amministrativa, di settori i più vari della opinione cittadina, potrebbe mai perdonarsi, con le altre scivolate – compresa questa di piazza San Michele – la schiena piegata davanti a un arcivescovo non credente che minacciava il muso davanti a un riconoscimento civico – dico e ripeto civico – a un don Cugusi per i trent’anni di fatiche sociali e culturali, scolastiche e pedagogiche, nel quartiere della Marina? Mentre a Firenze, davanti al muso di un arcivescovo per un simile riconoscimento (il fiorino d’oro) attribuito dalla Municipalità al fondatore della comunità dell’Isolotto, l’oggi scomparso don Enzo Mazzi, il sindaco aveva risposto: «prendiamo atto, ma la Municipalità non attende autorizzazioni dalla Curia per gli atti di propria competenza».
Non sembri lontana quella vicenda tutta cagliaritana che aveva l’epicentro nel quartiere storico della Marina da quest’altra insediata nella già periferica piazza San Michele. Lascio ampio spazio d’intuizione a chi voglia declinarne i nessi.