Un paese sardo e il suo vescovo-missionario in terra d’Italia. Quartucciu ha ricordato don Raffaele Piras di Gianfranco Murtas
Nella foto: la chiesa parrocchiale di san Giorgio a Quartucciu.
Com’era stato annunciato si è tenuta a Quartucciu, lo scorso martedì 13 ottobre – data anniversaria della nascita avvenuta nel 1865 –, una serata d’onore religioso in memoria di don Raffaele Piras, un vescovo forse poco noto alla stessa Chiesa sarda, ma che pure ebbe larghi riconoscimenti di dottrina e pietà e, con la promozione vescovile intervenuta nella tarda estate del 1906, l’esplicito apprezzamento papale.
Forse sempre, certamente con Pio X – il pontefice duramente antimodernista ma con un integro spirito religioso e pastorale (non politico né diplomatico né accademico cioè) –, la nomina episcopale ha costituito la patente, rilasciata ad un ecclesiastico, di idoneità o adeguatezza ad interpretare le linee dottrinali proprie, o declinate allo stile proprio, e nel tempo che a lui era dato, del successore del maggior apostolo. Stavolta appunto con papa Sarto: catechesi, ortodossia, autonomia dell’ufficio petrino ed episcopale (direi anche, su altro piano, flessibilità nel licet alla partecipazione del laicato italiano alle attività pubbliche).
E’ proprio questo che è facile riscontrare nelle cinque lettere pastorali, di finissimo taglio letterario e contenuto ora tutto teologico ora piuttosto ecclesiologico, a firma del vescovo Piras fra il 1907 ed il 1911, in perfetta coerenza con quanto da lui già pubblicato, negli anni precedenti, dallo stallo canonicale in Santa Maria di Castello o dalla cattedra (dogmatica, sacra scrittura, storia della Chiesa) al Tridentino della via Università.
Sono gli stessi testi delle lettere da lui diffusi ai propri diocesani abruzzesi – clero e popolo – , e con essi sono gli innumerevoli interventi omiletici anche durante le visite alle comunità parrocchiali di cui è rimasta traccia, unitamente agli atti concreti di governo adottati, a marcare di segno squisitamente piino, e dunque missionario, il suo mandato: essendo l’Abruzzo, e certamente quella porzione provinciale di nord-est fra Pescara e Teramo ricadente nella sua giurisdizione di Penne ed Atri, vera e propria terra di nuova semina o conversione, o rieducazione, spirituale, non meno certamente di quanto, a leggere le testimonianze del tempo, poteva esserlo la Sardegna. Di più e meglio, per dato esemplificativo: quella certa diocesi di Alghero alla quale venne inviato, appena pochi mesi dopo, giusto con il mandato di vescovo-missionario, il milanese di Rho Ernesto Pietro Angelo Piovella (da allora, o in preparazione di allora, Ernesto Maria).
E cosa fosse, anche a confronto con la realtà sarda o specificamente del Campidano cagliaritano di partenza, la religiosità o la pratica di pietà o devozione degli abruzzesi di Penne e Atri fu lo stesso segretario sardo del vescovo a testimoniarlo. Il confronto risulta impietoso per i nuovi diocesani, riscattando gli isolani. Ne scrisse appunto don Silvio Cambatzu, e si tratta di parole gustosamente pittoriche – amare e pittoriche – che ha fatto bene il giovane don Pierpaolo Piras, attuale parroco di San Lucifero in Cagliari, a ripetere nella omelia alla messa d’onore celebrata, giorni fa, dall’arcivescovo Miglio, fra le divise di gala dei cavalieri costantiniani e un dignitoso affollamento dell’assemblea locale, nella parrocchiale antica e magnifica di San Giorgio: «… la pietà è molto trascurata: difatti le funzioni o non si fanno, o si fanno strapazzando la liturgia; sicché per chi è abituato a veder le funzioni fatte con gravità e secondo le sacre cerimonie, perde la divozione e gli illanguidisce la fede… I Sacramenti poi non si frequentano per niente, raramente anche nei Seminari, e perciò mi sembra di trovarmi in un deserto, abituato a vedere i confessionali della nostra Chiesa circondati da fedeli e così pure la balaustra dell’altare piena d’anime… Perciò ho sempre il cuore vuoto, privo di queste sante consolazioni, e qualche volta, lo dico con sincerità, mi viene un po’ di pentimento d’aver lasciato la cura delle anime, che mi rendeva tanto felice; ma poi quando penso di trovarmi con un santo Vescovo e posso indirettamente cooperare alla salvezza delle anime, allora il mio cuore si riconcilia un po’». Così in confidenza al nuovo vicario generale di Cagliari don Giuseppe Miglior (futuro presule in Ogliastra).
Ecco il primo elemento che mi parrebbe utile cogliere nella fatica episcopale di don Raffaele Piras in Abruzzo e che in nuce era anche nelle parole pronunciate dall’altare dal giovane pronipote: l’urgente missionarietà. E con questa la severità applicativa dei mansionari clericali. Vescovo tradizionale, legato alla scuola pontificale, egli non si perita, infatti, di comminare punizioni a canonici e rettori di chiese parrocchiali. Multa i capitolari che mancano alle funzioni corali in duomo, sospende i preti che pubblicano articoli su sgraditi giornali… liberali, o che pubblicamente pregano per un defunto estraneo alla Chiesa… Pare di intenderne le motivazioni profonde, esclusa essendo una propensione formalistica piuttosto che sostanziale ai doveri, nello scrupolo, vissuto come fatto di coscienza, di un adempimento dovuto e mirato esclusivamente al bene delle anime, oltreché ad majorem Dei gloriam… Insomma, in tempi di rigore, e anche furore, antimodernista, è comprensibile l’esigenza, e ancora l’urgenza, di un inquadramento funzionalmente comunitario dei ranghi diocesani, riportando il mestiere alla vocazione e il piatto al merito e non soltanto al bisogno.
Colpisce, al riguardo, anche la tempistica di quello svolgimento episcopale, per certi versi di completamento del lavoro, dottrinale essenzialmente, fra cattedra e pergamo, compiuto a Cagliari. La nomina papale, preparata dalla competente congregazione della Curia romana, precisata nella dignità teologica da una apposita commissione della Santa Sede, ma soprattutto accompagnata dalle confidenze personali e dalle esortazioni dello stesso Pio X in un primo incontro riservato tenutosi la sera del 15 settembre e di cui lo stesso monsignore scrive – quasi diligente cronista di formidabile memoria – nella prima lettera pastorale (“Misit me Dominus”) inviata ai suoi diocesani vestini ed atriani nella festività pasquale del 1907, giunge a Cagliari nel declinare di un anno in abbinata ad altra nomina, stavolta in capo alla diocesi di Alghero (quella stessa alla quale sta per essere inviato padre Piovella oblato di Rho). Essa ha per ricevente un sacerdote nativo di Silanus e destinato anche lui a una diocesi povera, poverissima, del continente italiano, nella Calabria ionica: Gerace, o Locri-Gerace. Mi riferisco a don Giorgio Del Rio, apripista di altri vescovi sardi inviati, come missionari pure loro, in tempi successivi, nella stessa regione: da don Salvatore Scanu a don Saturnino Peri, da don Agostino Saba a don Enea Selis a don Giovanni Francesco Pala.
Ecco l’altro aspetto che merita fissare qualitativamente, oltre il dato di missionarietà: la destinazione continentale italiana. Una flusso geografico, si direbbe, che equilibra bene – date le proporzioni demografiche – il dare e il prendere delle diocesi sarde rispetto a quello delle Chiese locali sulla penisola (ai presuli già citati si potrebbero aggiungere, in risalita lungo lo stivale, alla volta della Lucania (in condivisione con la Puglia) don Salvatore Isgrò, della Puglia don Paolo Carta (negli anni ’50-60, ma già fra Giovanni Maria Sanna, conventuale, traslato nel 1922 dalla diocesi di Ampurias Tempio a quella di Gravina-Montepeloso-Irsina, dove nel 1975 andrà don Salvatore Isgrò), dell’Umbria don Carlo Urru, ancora dell’Abruzzo don Salvatore Delogu, della Toscana e poi della Lombardia don Antonio Angioni) .
Certo resta il problema – che è permanente e vale ancora oggi, quando certi tratti del bisogno missionario mostrano connotati diversi da quelli ormai d’un secolo fa – della opportunità che le provvisioni delle sedi episcopali coinvolgano personalità estranee, per vissuto e cultura sociale, ad un certo ambiente territoriale. Questione insoluta perché trova ragioni a supporto e contrarie forse di pari rilievo: da una parte l’autonomia da impertinenti situazioni di fatto talvolta cristallizzate, dall’altra la consentaneità esperienziale e genericamente valoriale con la popolazione residente e lo staff dei collaboratori. (Tale aspetto comunque esula dal range tematico di questo mio scritto).
Questo sul piano strettamente religioso od ecclesiale. Sul piano civile e politico, della storia sociale ed amministrativa isolana e cagliaritana in specie, sarebbe utile collocare la promozione di don Piras in un contesto temporale che vede un sardo – l’onorevole Francesco Cocco Ortu, cattolico e liberale – stabile su uno dei seggi ministeriali più prestigiosi, con Giolitti presidente del Consiglio, ma vede anche turbolenze sociali che la politica, quella nazionale così come quella locale, non sa affrontare e trovano motivo essenzialmente nel crescente carovita e nella non accorta gestione dei passaggi di progresso, anche industriale e tecnologico, che determinano superamenti e marginalizzazioni del lavoro autonomo (ad esempio quello dei carrettieri messi in crisi, nei trasporti verso il porto, dall’avvio della Tramvia del Campidano).
Rivolgimenti popolari inchiodano Cagliari, nella primavera del 1906, e davanti ad essi non rimane zitta la voce della Chiesa locale: quella dello stesso arcivescovo Balestra, priva peraltro di una sua autorevolezza nello specifico. Va ricordato infatti che è soltanto di pochi mesi prima, nel 1905, la tacitazione di quella tribuna libera e sensibile sul piano sociale, si direbbe semplicemente evangelica, rappresentata dal periodico “il Lavoratore” di don Virgilio Angioni. Vinse in quel momento il partito notabilare e paternalista dell’aristocrazia nera storicamente radicata a Castello, mentre le posizioni del gruppo dei giovani del circolo Leone XIII, detti della “democrazia cristiana” (di mediata derivazione murriana), vennero smentite dall’ufficialità della Curia. Espressione di tale prevalente indirizzo fu allora il quotidiano, poi settimanale, “La Sardegna Cattolica”, rilanciatosi nel 1907 con la nuova sostitutiva testata de “Il Corriere dell’Isola” (che quasi esordirà con uno speciale proprio sulla elevazione episcopale del monsignore quartucciaio).
Può dirsi di più. L’arcivescovo Balestra si sarebbe fatto vanto, con la Santa Sede, della propria determinazione nello stroncare il Fascio democratico-cristiano e la sua voce, che pure era una voce popolare genuina e generosa: «Senza indugio ho distrutto mentre era ancora in fasce il movimento… e ho soppresso il suo giornale diretto da un parroco… che però si è sottomesso» (così nella “Relatio ad limina” del 1909). Ebbene, quell’orientamento imperativo e censurativo era stato condiviso appieno dal vicario generale della archidiocesi, il quale già un anno prima, scrivendo il 1° luglio 1904 ai direttori spirituali delle Associazioni dei cosiddetti “luigini” delle quattro parrocchie cittadine, aveva mostrato preoccupazione circa il diffondersi a Cagliari «di certe dottrine intorno all’azione popolare cristiana». Tema di socialismo bianco, tema di perdere il tono paternalista nella conduzione dell’apostolato sociale, tema di contraddire la sensibilità dell’establishment patrizio fedele e intransigente.
Eppure, a considerare senza pregiudizio l’esperienza e i presupposti ideali dei democratici bianchi, tanto timore non pareva giustificato. Sì, don Raffaele Piras aveva ereditato, nella battaglia ideologica fra creazionismo ed evoluzionismo, certe pulsioni che erano state, acerbe e autistiche, trent’anni prima, del can. Francesco Miglior; nei suoi scritti, come ad esempio ne “Il sacerdozio cattolico”, aveva riesposto la dottrina classica e intangibile; nello stesso 1900 aveva assunto, in combinazione con gli altri uffici al Tridentino e nella Metropolitana, l’incarico di assistente ecclesiastico del Comitato diocesano dell’Opera dei Congressi voluto dall’arcivescovo Serci-Serra ed a piena egemonia della nobiltà castellana (Quesada, Sanjust, Aymerich, De Magistris ecc.). Nonostante queste premesse o questo contesto, egli godeva, o continuava a godere comunque, della deferente ammirazione proprio di don Virgilio Angioni, missionario sociale nella sua stessa terra, il punito (con il suo Fascio dc e il suo giornale) che del professor Piras era stato allievo.
Don Tonino Cabizzosu, nella bella biografia dedicata al fondatore dell’Opera Buon Pastore (“Virgilio Angioni, una Chiesa per gli ultimi”, Nuoro, 1995), presentando il documento, richiama i motivi di una certa dedica in capo ad un testo di pedagogia ecclesiastica dissertato dall’Angioni, nel 1902, al Leoniano (“Dell’autorità nel governo civile, ecclesiastico, educativo, Concetti sparsi di etica cristiana”): «Nelle circostanze solenni, quando è doveroso per tutti mostrarsi ad offrire, i poveri pure non disdegnano la propria inferiorità e, facendo sforzi, presentano di quello che hanno e che possono. Così avviene ora per me… Quelli che raccolgo in queste pagine… sono concetti sparsi circa l’autorità e lo spiegamento suo nei vari governi, nella società, dal civile all’ecclesiastico, secondo i principi dell’etica cristiana, del vangelo e dei santi padri, con un richiamo ed una razionale applicazione degli stessi principi alla pedagogia e al governo educativo in specie…». La disciplina consapevole e ragionata come linea guida del pensare e dell’agire di don Piras, da giovane prete ed ora da influente professore e canonico (e presto da vicario generale e quindi da vescovo), costituiva per il giovanissimo chierico il modello morale, intellettuale ed operativo per realizzare la fraternità, nell’onesto scambio interpersonale in vista di una società inclusiva ed austera.
Se queste erano le migliori intenzioni riconosciute implicitamente all’autorevole monsignore in carriera, sarebbe da dire che però, a una lettura dei fenomeni sociali estranei ma non lontani della visuale cattolica, non sempre la consapevolezza interpretativa appare corretta. Il moto esploso nel 1906 rappresenta efficacemente, come un caso di scuola, rivelando questi limiti formativi e di mentalità della gerarchia ecclesiastica cagliaritana. Perché l’orientamento al blocco d’ordine partito, per volontà dell’arcivescovo e con prese di posizione dirette e personali dello stesso don Piras divenuto vicario generale dell’archidiocesi – come anche sembra ricordare Francesco Atzeni nel suo “Il movimento cattolico a Cagliari dal 1870 al 1915” (Cagliari, ESA, 1984) –, appare come una mossa puramente difensiva e forse oltranzista nel rifiuto della istanza popolare ben più che un intervento a sostegno di un’amministrazione che, colpita da quell’istanza e costretta alle dimissioni, si sa essere non amata, forse inadeguata e senza prospettiva, e altra se non avversa sul piano delle idealità etico-civili. Perché proprio qui sta, e si rivela nel suo clamore, lo snodo direi dirimente indirizzi e responsabilità del cattolicesimo militante cagliaritano (e sardo a seguire) e della gerarchia ecclesiastica: vince la paura degli accresciuti spazi sociali e forse anche elettorali della sinistra radical-repubblicana e socialista – com’è appunto nel 1906 – , e si confonde l’istanza proletaria con quella, forse prevalente, del lavoro autonomo, puntando a soluzioni che sconteranno, per il milieu clericale, le contraddizioni più gravose: anche per il brunismo che salirà di tono e d’iniziativa proprio all’interno di quella sorta di blocco d’ordine borghese, o borghese a carezza aristocratica, che associando i guelfi e i loro avversari ideologici in logica antisocialista, vivrà per alcuni anni la precarietà dell’inconciliabile.
Insomma, nel rapporto Chiesa-politica, o Chiesa-amministrazione, sarà inevitabilmente diverso da quanto accadrà nella galassia liberale dopo i moti antibacareddiani: perché comunque la cultura civica apparenta i due grandi filoni avversari fin dal 1889, dalla vittoria di Ottone Bacaredda sui cocchiani accusati di aver coperto le malefatte bancarottiere nel Comune e perfino nella deputazione. Diverso è con la Chiesa, perché qui debbono anche mediarsi posizioni che trovano dettato nella volontà di istanze sovraordinate, nella logica della conciliazione silenziosa di marca giolittiana, fino agli approdi, in chiave ancor più smaccatamente antisocialista, del Patto Gentiloni del 1913.
Uomo del popolo, don Raffaele Piras titolare, in quanto vicario generale, del secondo ufficio gerarchico dell’archidiocesi, avrà vissuto la circostanza scontandone tutte le contraddizioni fra appello di testimonianza, Vangelo in mano, e soluzioni politiche, poi anche politico-elettorali tutte ispirate da ragioni contingenti e pragmatiche. E’ materia, questa, che meriterebbe un approfondimento. Quanto egli scrive nella sua prima lettera pastorale, quella del 31 marzo 1907 e quindi precedente all’effettivo arrivo in Abruzzo, esprime interamente il sentimento delle sue radici anche sociali: «Benché non nato fra i palazzi e gli agi, ma figlio del popolo anch’io… d’una cosa, se è splendente, io oso gloriarmi; ed è che se tutti avranno diritto al mio amore, e tutti io amerò di paterno ed inalterabile affetto, grandi e piccoli, poveri e ricchi, nel mio cuore però di sacerdote e vescovo mi sarà più caro piangere con quelli che piangono, che ridere con quelli che ridono… mi stringerò affettuosamente al petto i poverelli e gli sventurati, coloro cui Iddio non volle esser largo di terrene magnificenze. Sì, il vostro tugurio o infelici, mi sembrerà più bello delle aule dorate dei principi, e le vostre vesti, o poveri, più splendide delle porpore dei re».
Le visite pastorali nei paesi tutti rurali della sua doppia diocesi, a dorso di muli e cavalli – invero come anche avveniva per i suoi confratelli (e non soltanto: si pensi al celeberrimo ipercinetico signor Manzella!) nell’Isola natia, fra Campidano e Barbagie, Ogliastra e Logudoro, Gallura o Iglesiente –, confermano questa cura prioritaria, se certo non esclusiva, che era del sentimento e anche della parola, seppure egli temesse di spingersi oltre, fino all’istanza politica – dico alla politica sociale, non alla politica ideologica –, ai religiosi preclusa da retaggi di autonormazione assai più che dalla legge dello stato liberale.
Affetti ed onori per un vescovo appena quarantenne. Presentato (in quanto postulatore) da don Raimondo Ingheo, vescovo di Iglesias, suo vecchio professore e coconsacrante, insieme con l’altro suffraganeo di Nuoro, il vescovo Luca Canepa che lo aveva preceduto sullo scranno di vicariale dell’archidiocesi, don Raffaele Piras riceve l’ordine episcopale da fra Pietro Balestra, minore conventuale, al quale è legato da strettissimi vincoli collaborativi e d’affetto. Congedandosi da lui, scriverà nelle due pagine dell’aggiunta alla già citata lettera pasquale (“Parole di commiato ai miei conterranei”): «Ma è da Te soprattutto, mio amato e desideratissismo Arcivescovo, che finalmente mi debbo distaccare. Oh, quale schianto e mestizia sento nel proferire questa parola! Dopo di esser stato per quattro anni al tuo fianco ed aver conosciuto appieno più che ogni altro il tuo cuore, veramente sacerdotale ed episcopale; e gustata, come a dire, la purezza e delicatezza di tua coscienza; dopo aver sperimentato in mille contingenze i tuoi lumi nel forte e soave maneggio del governo; ammirata la tua carità addirittura inesauribile; e con tutta l’Archidiocesi e l’isola rimasto stupito della tua prodigiosa attività; dopo tutto, dico, è pur doloroso dovermi allontanare da Te… Non è il dolore del discepolo che si divide dal maestro; non è il dispiacere del suddito che si distacca dal suo superiore; ma è il cordoglio del figlio affezionato che si separa dal padre immensamente diletto…».
Così lascia Balestra, così lascia dopo un quarto di secolo i colleghi (oltreché gli allievi) del Tridentino e del Collegio Teologico, così lascia dopo giusto due decenni i capitolari della Metropolitana, dove ha ricoperto le dignità di teologo e poi di dottore canonista, così lascia i suffraganei di Iglesias e Nuoro («in cielo era scritto che io partissi pur dal vostro fianco…»).
Si tratta di entrare nelle coordinate culturali e sentimentali – del sentimento propriamente sacerdotale ed ecclesiale – del suo tempo per comprendere quanto queste parole non fossero retoriche ma espressione vivida e sincera di un rapporto umano connotato o sublimato da vocazionali elementi di pura spiritualità. Chi conosca per un poco almeno la storia dell’archidiocesi nel lungo passaggio da Ottocento a Novecento, nella lunga era cosiddetta bacareddiana, ha buona nozione della statura del clero cagliaritano, sa a cosa corrispondano, in quanto a dottrina ed attività, i nomi del decano Efisio Serra, del nuovo vicario generale Giuseppe Miglior, del cancelliere Eugenio Puxeddu, del cerimoniere Attilio Murroni…
Davanti a ben cinquecento suoi compaesani – in testa a tutti il sindaco Antonio Ballero Ciarella – don Piras riceve solennemente, il 20 gennaio 1907, il mandato episcopale nella cattedrale castellana; partecipa poi, festeggiatissimo, all’accademia che in suo onore viene allestita al Tridentino, dove egli giunge, da Santa Maria, con tanto di accompagnamento e dove riceve omaggi morali e materiali, dalla mitra alla croce pettorale, dall’anello al messale, dall’acquasantiera al calice, dal camice alla pianeta… Attorno a lui i giovani del circolo di San Saturnino, al Fossario, i notabili della militanza campioni però anche della buona vita, come il giovane dottor Mondino De Magistris (il medico dei poveri!), o come il nob. Giuseppe Sanjust (cassiere capo del Banco di Napoli e console di Turchia!), o i Manca di Nissa ed i Marongiu, gli esponenti del clero locale chi a offrire partiture di violoncello o di piano, chi polifonia, chi assolo d’autore, chi versi religiosi, chi – come cronachizza “Il Corriere dell’Isola” – «strofe alate e sonanti, in eloqui diversi, dal greco al francese, dal latino alla nostra lingua»… A scorrere poi il numero unico pubblicato come supplemento al n. 29 del “Corriere” si entra proprio dentro alla ricchezza dell’assortimento dei talenti letterari o musicali messi in offerta da giovanissimi chierici o dai circolini, da preti di parrocchia e canonici anche, e si ha una idea ancora più concreta di cosa si tratti, di cosa sia quel milieu cattolico-clericale cagliaritano in anni ancora di cosiddetta belle époque.
Due settimane ed il trionfo, certo coerente alla solennità liturgica di San Biagio vescovo e martire, si replica nella nativa Quartucciu, con il pontificale e gli omaggi replicati anch’essi, fino alle emozioni e commozioni nella casa paterna. Qui è don Mario Piu, quartucciaio lui stesso e devoto allievo di monsignore – con un futuro per sé di mezzo secolo quale parroco poi presidente della Collegiata stampacina di Sant’Anna –, a porgergli il saluto della comunità ed a mostrargli l’orgoglio della intera comunione diocesana.
E’ un orgoglio autentico questo, coinvolge tutto il territorio, città e parrocchie foranee: ne danno plastica dimostrazione le presidenze liturgiche che si susseguono per alcune settimane a Quartu ed a Sant’Eulalia, a Settimo San Pietro e Dolianova, a Nurri e a San Francesco di Paola nella via Roma, e registrate dai cronisti della stampa locale… Ovunque è incontro del giovane vescovo con i credenti riuniti in assemblea nelle chiese del loro battesimo. Quindi la partenza per il continente, da missionario. Con il segretario Cambatzu e l’amico fraterno don Luigi Pinna, quartese di nascita, presidente della Collegiata di Sant’Eulalia (ed alla vigilia quasi dei grandi e infiniti lavori, ch’egli dirigerà, di sistemazione monumentale della secentesca parrocchiale della Marina). Parte col treno alla volta di Golfo Aranci, per la tratta successiva alla volta di Civitavecchia. E intanto ad ogni stazione ferroviaria trova l’omaggio dell’applauso e dell’augurio, ad Assemini e Villasor, a Serramanna e Sanluri, ad Oristano e Chilivani…
Un sardo che si fa abruzzese. Sul continente attraversa il Lazio (ma a Roma è nuovamente accolto in udienza da papa Sarto) e raggiunge – quale prima meta abruzzese – Sulmona, territorio prenotato anch’esso ad un vescovo di nascita sarda: al bittese don Salvatore Delogu, cioè, il quale, consacrato nel 1972, dopo essere stato ausiliare a Cagliari (precedendo don Tiddia) e poi ordinario a Lanusei, sarà trasferito appunto alla diocesi di Sulmona e Valva nel 1981, qui rimanendo per quattro anni.
Don Piras, dunque, in Abruzzo: da Sulmona a Castellamare e quindi a Silvi, da qui ad Atri, la città-diocesi prossima a Teramo (va precisato: costituita, già nel Duecento, in diocesi nei limiti stessi del suo abitato, e poi associata alla maggiore circoscrizione vestina comprendente Penne e una dozzina di altri centri viciniori ed orientati a Pescara). L’ingresso il 18 giugno, giusto dieci giorni dopo il replay a Penne.
Prende avvio un quinquennio di intensissimo lavoro. Si tratta di intervenire, come ho detto, sul clero prima ancora che sui semplici battezzati ampiamente trascurati nella loro formazione e nel loro accompagnamento di vita da preti e religiosi in genere. La severità è una regola imposta dalle circostanze prima ancora che dalle norme (Pio X ha avviato il riordino legislativo in un codex che vedrà la luce però soltanto nel 1917), ed il presule intende bonificare i comportamenti, eliminare il lassismo e ogni cedimento alla controtestimonianza.
Viene presto la prima visita pastorale a tutte le parrocchie, nel 1911 sarà impostata ed avviata la seconda. In relativa puntuale successione verranno le quattro lettere quaresimali al clero ed al popolo (datate 1° marzo 1908, 21 febbraio 1909, 6 febbraio 1910 e 19 febbraio 1911, esse avranno per tema forte, rispettivamente, “Gesù Cristo e la sua dottrina”, “La Santissima Trinità”, “Il Papato e la Chiesa”, La grazia santificante”).
Rientra, quando può, don Piras, nell’Isola: lo fa per assistere il padre ammalato, nel maggio 1909, per piangerlo morto ed assistere ai suoi funerali nell’aprile 1910. Di ritorno in Abruzzo dal primo rientro isolano, è accolto in nuova udienza da Pio X (espletando anche l’obbligo di calendario detto della Visita “ad limina”). Prima di tornare in continente, la seconda volta, coglie l’occasione per presiedere le missioni eusebiane – di predicazione gratuita cioè – nella sua Quartucciu e partecipare alle solennità bonarine, distribuendo centinaia e centinaia di comunioni sul piazzale del santuario (non ancora della basilica che è cantiere eterno…).
Una rapida malattia – il tifo –, non affrontata per rispettare gli impegni presi con la cattedrale di Atri in vista della festività agostana dell’Assunta, lo sfibra, abbattendolo, nel pieno dell’estate, e la commozione unisce allora, sincera, la Sardegna all’Abruzzo. La stampa delle sue diocesi e quella isolana dedicano per giorni interi ampi spazi all’evento luttuoso, proponendo cronache e schede biografiche, testimonianze ed ampi stralci dei testi dottrinali e pastorali dal presule firmati nel corso degli anni. Fra le più intense partecipazioni al lutto, quella del conterraneo don Saturnino Peri, vescovo di Crotone in Calabria.
Riti funebri, in ideale gemellaggio, sono celebrati a Cagliari (in San Giuseppe, dal can. Puxeddu, presenti l’arcivescovo Balestra e il vescovo di Ales Emanuelli, mentre don Piu ha l’incarico dell’elogio funebre) ed a Quartucciu (dal can. Silvio Canepa, suo condiscepolo, negli anni giovanili della frequenza dei corsi teologici in Genova).
Testi e ricordi. Preconizzato alla sede metropolitana di L’Aquila cede dunque, don Raffaele Piras, alla età di appena 46 anni. In più riprese, negli anni successivi la stampa cattolica isolana ne traccia il profilo umano e religioso, la dottrina e l’autorevolezza episcopale. Così almeno “La Sardegna Cattolica” nelle annate della dittatura (vedi il 1931), così “Il Quotidiano Sardo” (20 gennaio 1957), così “Orientamenti” (20 agosto 1961), e poi “NuovOrientamenti” (a firma di Lucio Spiga il 22 ottobre 1995, 9 giugno 1996, 11 e 18 ottobre 1998).
Fra gli scritti di studio a lui dedicati mi pare meritino una speciale segnalazione quelli di Tonino Cabizzosu comparsi rispettivamente nel primo e nel terzo volume della serie “Ricerche socio-religiose sulla Chiesa Sarda tra ‘800 e ‘900”, (rispettivamente Cagliari, edizioni della Torre, 1999 e Cagliari, Archivio Storico Diocesano, 2009). Gustosa – se l’aggettivo non è improprio – la proposta in appendice al primo dei due saggi, dalle carte dell’Archivio Segreto Vaticano, della “Relatio ad limina Calaritana” del 1884 – dei tempi dunque di episcopato Berchialla – ed il focus sullo stato del Tridentino e del Collegio teologico frequentato per i primi anni dal giovanissimo Raffaele Piras prima di passare, con Silvio Canepa, ai corsi nel Seminario di Genova.
Il testo – “Impegno pastorale e culturale di Raffaele Piras dal 1888 al 1907” – si concentra evidentemente sulle attività cagliaritane del futuro vescovo, preparatorie del ministero successivo ed integra la relazione presentata al convegno interregionale Sardegna -Abruzzi svoltosi a Quartucciu il 18-19 gennaio 1997, i cui Atti sono stati pubblicati nello stesso anno a cura della benemerita Associazione Amici di Monsignor Raffaele Piras.
L’altra stesura (“Raffaele Piras (1865-1911): un teologo sardo vescovo in terra d’Abruzzo“) riprende quanto espresso da Cabizzosu nella conferenza tenuta presso la parrocchia di San Pietro Pascasio in Quartucciu il 27 novembre 2005.
Richiamo, fra le molte altre fonti consultabili, in aggiunta a quelle rassegnate da Paola Cocco nel suo bel “Raffaele Piras. Storia di un vescovo” (Cagliari, 1999), altre tre lettere circolari, a firma di fra Pietro Balestra, le prime due – del 9 dicembre 1906 e 6 gennaio 1907 – rispettivamente per la elezione del canonico Piras alle diocesi unite di Penne ed Atri e per la sua consacrazione episcopale, la terza , del 21 settembre 1911, per l’avvenuto decesso, in “Pietro Balestra. Lettere Circolari (1901-1911), a cura di Francesco Atzeni e Tonino Cabizzosu, Cagliari, Zonza Editori, 2006, pp. 389-389, 390-391, 526-527 (esse compaiono anche sulla stampa cattolica, e segnatamente su “Il Corriere dell’Isola” e la terza anche su “Il Monitore Ufficiale dell’Episcopato Sardo” nel suo fascicolo del 30 settembre 1911).
Assolutamente meritoria appare, a mio avviso, l’iniziativa assunta dall’associazione intitolata al presule, utilmente spalleggiata dall’Amministrazione municipale, di ristampare alcune delle opere del vescovo celebrato o i testi di chi a qualcuna di quelle opere ha prestato una lettura attenta.
Al termine della cerimonia religiosa dello scorso 13 ottobre, sono stati distribuiti ai convenuti nel salone parrocchiale di San Giorgio diversi opuscoli e ristampe in anastatica: ricordo precisamente il numero unico, curato dai quartucciai in occasione del pontificale celebrato in paese il 3 febbraio 1907, con la testata “Un Fausto Avvenimento. La consacrazione episcopale di S.E. Mons. Raffaele Piras Vescovo di Penne ed Atri – 20 gennaio 1907, 3 Febbraio 1907“ (una prima volta riprodotto a cura dell’Associazione il 20 gennaio 1996); il foglione, pure promosso dall’Associazione il 13 ottobre 1995, con la testata “Monsignor Raffaele Piras, Centotrentanni dopo”, recante una introduzione dell’arcivescovo Ottorino Pietro Alberti, una lunga ricostruzione biografica e alcune testimonianze degli anziani di Quartucciu, nonché alcuni versi in sardo ed in italiano al Piras dedicati dal poeta Francesco Farci nel 1961, ed infine l’albero genealogico della famiglia Piras.
Ancora sono stati ristampati e distribuiti gli opuscoli con il reprint della “Prima Lettera Pastorale di Mons. Raffaele Piras al clero e al popolo delle diocesi unite di Penne ed Atri” – così il titolo – , stampata dalla cagliaritana Tipo-litografia commerciale nel 1907; ed i due distinti commenti curati dal compianto don Efisio Spettu alla stessa prima lettera pirasiana (così il 26 gennaio 2003) ed alla seconda (andato in stampa, ancora con il patrocinio del Comune di Quartucciu, nel 2004).
Opportuna e gradita è risultata anche la distribuzione del libretto contenente gli atti del convegno del gennaio 1997, con il titolo “monsignor Raffaele Piras prima e dopo la consacrazione episcopale”.
L’auspicio, come altra volta ho scritto, è che si continui con questa cura divulgativa dei documenti, magari cogliendo l’occasione per una presentazione, sempre critica mai agiografica, con inquadramenti larghi nella storia complessiva della Chiesa e della Chiesa sarda in particolare ed anche, quando utile, della storia civica e culturale dei territori serviti col ministero.
Monsignor Antonio Tedde. A mo’ di rapida appendice a questo mio scritto, vorrei sottolineare una certa parentela che collega il presule di Penne ed Atri al vescovo, a me carissimo, di Ales chiamato al ministero apostolico nel 1948. I due erano legati, a voler indagare e scoprire qualche intrigante dato di calendario, dalla circostanza che monsignor Tedde nacque, a Sorso, proprio nell’anno in cui il Piras riceveva la nomina papale, vale a dire il 1906. Ma di più, a definire una certa parentela anche ideale fra le due figure è il motto episcopale scelto dall’uno e dall’altro, in esso scorgendo il programma del proprio servizio: «Misit me Dominus» quello di monsignor Piras (chiaro anche il riferimento al patrono arcangelo Raffaele nell’incontro con Tobia), “Evangelizare pauperibus misit me” quello del vescovo di Ales, Terralba, Villacidro, Marmilla e medio Campidano (dal vangelo di Luca 4,18, con rimando al profeta Isaia).
Don Cambatzu. Seconda appendice. Quando accoglie l’invito del nuovo vescovo, di seguirlo come segretario cioè nella missione abruzzese, don Silvio Cambatzu ha soltanto 26 anni. Cagliaritano, è prete da appena due anni con l’incarico di vice parroco in duomo. Ha detto la sua prima messa al Conservatorio della Provvidenza, è noto per la modestia e lo spirito contemplativo. Donatosi in piena generosità a collaborare, nei cinque anni del suo episcopato, con don Piras – offrendo a lui il conforto della sardità condivisa nel quotidiano domestico –, alla morte del presule resta in continente entrando nella congregazione dei sacerdoti adoratori del Ven. P. Eymard, ma a causa della salute cagionevole deve abbandonare quei propositi e quella residenza lontana per tornare a Cagliari. Qui è incaricato dall’arcivescovo Rossi (che guida l’archidiocesi dopo monsignor Balestra e prima di monsignor Piovella) della cappellania del manicomio a Is Stelladas, ma regge poco ed è trasferito quale aiuto del parroco di Guasila. Aggravandosi la malattia ottiene ospitalità nel seminario che lo ha visto studente e dove espleta le funzioni di prefetto dei chierici. Dopo un anno circa, il 15 settembre 1914, poche settimane dopo la scomparsa di papa Sarto cioè, muore. Mi è sembrato giusto rendere onore anche a questa memoria dimenticata, forse mai salutata. (Le notizie biografiche sono riportate nel MUES, settembre 1914).
Quartucciu. Infine una curiosità. Nella Quartucciu di monsignor Piras passò un altro eminente ecclesiastico sardo destinato anche lui all’episcopato. Fu don Diego Capece, tempiese ordinato prete nel 1798 nel seminario di Cagliari, e per qualche anno appunto rettore di Quartucciu e quindi canonico della Metropolitana. Venne quindi elevato all’episcopato per… volontà di re Carlo Alberto, ancora a Cagliari – essendo arcivescovo monsignor Nicolò Navoni –, nel 1833, anno santo straordinario. La destinazione fu la sua terra gallurese associata all’Anglona, la quale aveva avuto, sul piano religioso, Castelsardo come storica sede vescovile. Don Nanni Columbano ne ha scritto nel suo “Preti di Gallura”, lodandone l’attività protrattasi per quasi vent’anni a capo di quella Chiesa locale. (E verrebbe da aggiungere – e confido qui le mie preferenze liberali, o cattolico-liberali – che dopo la sua morte la diocesi di Ampurias-Tempio restò sede vacante, a causa del conflitto fra il regno di Sardegna, o Sardo-Piemontese, e successivamente d’Italia, e l’autorità papale. Fu vicario capitolare, per lunghi anni, allora, una delle figure più interessanti di tutto l’Ottocento sardo, quel canonico Tommaso Muzzetto che inutilmente, ma coraggiosamente, evangelicamente, invocò da papa Pio IX la rinuncia volontaria al potere temporale, quasi dieci anni prima che i bersaglieri di Cadorna varcassero Porta Pia, perdendo in quel po’ di battaglia proprio un giovane soldato tempiese – Andrea Leoni – cui i massoni di Gallura avrebbero intitolato nel 1905 la loro nuova loggia… Tutto si tiene nella storia!).