Gianni Bonanno, il rigore e la generosità di un gramsciano, di Gianfranco Murtas

Quarant’anni fa, nella tarda primavera  del 1975, perdeva la vita, tragicamente, Gianni Bonanno, esponente del Partito Comunista Italiano in Sardegna, già leader dei giovani comunisti della provincia di Cagliari. Un intellettuale, un giovane intellettuale che, per la prematura infausta conclusione della sua esistenza, non fece in tempo ad esprimere tutti i suoi talenti, se non quelli di una straordinaria sensibilità umana e di un rigore ideale che lo distingueva dai più. Sarebbe bello che, chi può, si aggiungesse – recando la propria testimonianza – a questo primo ricordo che ne ripassa alcuni degli scritti maggiori, rispettandone l’ispirazione ancorché questa sia stata assai lontana dalle idealità democratiche, mazziniane e lamalfiane, di Gianfranco Murtas.

Nella resistenza antifascista i tesori della ispirazione politica. Medaglia d’oro alla memoria. Un giovane sardo per la libertà della patria: quella patria italiana di cui la sua Isola era ed è parte necessaria per storia e destino, geografia e religione. Un ventenne comunista, gappista – militante dei gruppi di azione detta patriottica – nel 1944, nella capitale evocata da Lussu nelle pagine de “La difesa di Roma” (e penso oggi come su quel manoscritto ancora sul tavolo si sbrogliò il mio unico incontro, da giovanissimo, nel 1972, con Lussu nella sua casa di via Cugia). Un sardo, giovane e comunista, spesosi – cosa più della sua vita poteva spendere? – per i valori universali di libertà e democrazia, e tutto quanto a quelle categorie possa riconnettersi, dalla giustizia sociale alla compartecipazione popolare nelle decisioni collettive, a un sistema istituzionale fondato sulla repubblica e le autonomie territoriali… Le carte della storia lo ricordano quel giovane – il cagliaritano Silvio Serra, classe 1923 – e dicono che si era presentato agli esami universitari, nella capitale, senza la prescritta camicia nera (come avrebbe fatto, per la discussione della tesi, Ciccio Cocco Ortu, di fede liberale e anticonformista). Dicono che nella primavera 1943, sempre prima della caduta del duce, aveva diffuso volantini inneggianti agli scioperi operai svoltisi nel nord del paese. Dicono che era stato arrestato un anno dopo, nel tempo del governo Badoglio e nell’attesa degli alleati per liberare Roma, a poche settimane dall’attentato di via Rasella e dalla vendetta burgunda alle Fosse Ardeatine. Dicono che sarebbe caduto in combattimento al fronte dell’VIII armata britannica: sulla “linea gotica”, il 10 aprile 1945…

A trent’anni di distanza, nel 1975, uscì su “Rinascita Sarda”, periodico del PCI isolano, un articolo tutto dedicato a lui, a Silvio Serra. Un articolo bellissimo per l’ispirazione morale e ideale che l’aveva dettato, per l’impianto narrativo, per la scrittura impressionista, a flash poetici direi. E anche per la mesta prefigurazione che forse nascondeva, rivelatasi di lì a poco.

L’incipit: «Oggi avrebbe cinquant’anni, come tutti i ventenni della Resistenza. I compagni di quei giorni difficili ed eroici lo ricordano ancora, sempre. Lo ricordano in una calda mattina oltre il Reno, sul fronte d’Alfonsine. Sul fronte. Dopo essere stato per nove mesi “dietro il fronte”, anche Silvio Serra, studente sardo, volle indossare la divisa per dimostrare che i gappisti non erano bravi soltanto a tendere imboscate nelle strade di Roma occupata, ma sapevano combattere allo scoperto, faccia a faccia con il nemico.

«Molti compagni lo prendevano in giro. Gli dicevano: che ti metti le stellette? Adesso fai pure il soldato del Re? Quel che pensava Silvio di questi compagni non lo mandava a dire: glielo diceva di brutto con quel suo linguaggio pittoresco di sardo, imbastardito da un vago accento romanesco. E si arruolò volontario nel Regio Esercito minacciando l’ufficiale medico che lo voleva riformare per insufficienza toracica».

Così lo svolgimento: «Era il giorno di San Silvestro quando arrivò, con altri giovani comunisti e democratici, studenti e operai, al centro di addestramento di Cesena. Un San Silvestro carico di neve e, alle finestre dell’accantonamento, non c’era neanche un vetro. Nel suo cappottone zebrato grigio e nero che gi arrivava dalle caviglie fin sopra il ciuffo spettinato, Silvio tentava di soffocare una tosse cattiva, che lo tormentava dai giorni della tortura nella pensione Jaccarino. Le notti bianche passate sotto la sferza della banda fascista di Kock, la fame e gli orrori che lo assediavano avevano cominciato a scavargli dentro, sotto quel torace che un ufficiale medico di Sua Maestà aveva tentato di umiliare con un burocratico timbro: “riformato”.

«Diventò ben presto il soldato-modello da non prendere mai ad esempio. E riuscì a saper imbracciare un fucile. Con una divisa messa assieme alla meno peggio e con un grosso fazzoletto rosso al collo, arrivò al deposito del Gruppo di combattimento “Cremona” fra gli urli dei tenenti e lo scandalo del signor maggiore. Ma non era solo: i partigiani fiorentini della “Potente” stavano già lì, a Ravenna, con tanto di stellette e fazzolettoni rossi, a fare i soldati del Regio Esercito per combattere fino all’ultimo nazi-fascista. Gli “anziani”, quelli che venivano dalla Corsica e dalla Sardegna dopo cinque anni di naja e due di difficili battaglie, non sapevano più riconoscere la loro vecchia Divisione “Cremona”. Ogni giorno che passava c’era qualche antica usanza che scompariva, una cosa nuova che nasceva. I sospetti con cui i richiamati circondano sempre i volontari caddero a poco a poco per lasciare il posto alla simpatia.

«Silvio era morto il primo giorno dell’ultima offensiva, il 10 aprile sul fronte di Alfonsine. In una calda mattina trasformata dagli scoppi dei grossi calibri italiani e britannici, i soldati avanzavano cauti lungo i canali e si appostavano dietro a ogni pianta, sotto ogni argine, fra i covoni delle case coloniche. Silvio era porta-munizioni. Con il suo torace da riformato, i muscoli a pezzi, trascinava 35-40 chili di acciaio sulle spalle. Il regolamento diceva che il porta-munizioni doveva marciare dietro all’armiere, ma Silvio correva sempre avanti, e costringeva l’altro a stargli dietro.

«Accadde all’improvviso. Con l’armiere si era attestato in un casolare. Il fronte era in movimento dappertutto. Alla destra, dalla spiaggia alle case, una striscia profonda almeno dieci metri, c’erano i partigiani di Bulow che se la prendevano da soli contro i brigatisti neri della “Lupo” e gli arditi della X Mas. Quelli di Boldrini non avevano smobilitato: erano rimasti con le loro divise e i loro comandanti, ed avevano continuato a tenersi una fetta di fronte tutta per loro. Alla sinistra c’era il “Cremona”: un fronte infelice, senza prospettiva di entrare in qualche grossa città.

«Guardavano i soldati nostri a Padova e a Venezia, ma a Padova ci arrivarono prima i canadesi e Venezia l’avrebbero raggiunta solo in pochi a bordo di quattro camionette, dopo aver rubato qualche fusto di benzina ai carristi della “Black cat”. Poi c’erano gli israeliani, i polacchi, i soldati di colore, e di nuovo gli italiani del “Friuli” e del “Legnano”, la V armata americana, e solo alla fine quelli del “Mantova”.

«Friuli e Legnano – diceva la radio – stavano facendo cose da pazzi per aprirsi un varco sugli Appennini. Ma quelli del “Cremona” andavano avanti a piedi, senza un carro armato che aprisse loro la strada. Di fronte, in compenso, avevano i Tigre, che, rimasti senza carburante, si facevano trascinare da buoi sin che potevano, e poi si fermavano per sparare a zero contro gli italiani.

«Il fischio di una 8 passò a quei ragazzi sulla testa poco dopo che si erano rimessi in marcia. Silvio stava accanto all’armiere, Pasquale Balsamo, che, senza guardarlo, gli tese la mano sinistra aspettando un caricatore. Aveva fatto qualche passo, ma la mano dell’armiere rimaneva vuota. Sempre guardando avanti disse una parolaccia. Per tutta risposta udì una voce flebile, lontana che invocava il nome dell’amico, del compagno comunista, del compagno di studi. Silvio era un grande “allegrone” cagliaritano ai suoi tempi e l’armiere pensò ad uno dei suoi soliti scherzi. “Questo vuole che me la faccia addosso dalla fifa”. Ma il caricatore continuava a non arrivare. iI soldato si voltò. Vide Silvio bocconi, ormai immobile, schiacciato dal peso delle cassettine d’acciaio. Corse indietro, prese Silvio per il mento. La mano gli rimase arrossata da un esile fiotto di sangue che usciva dalla bocca del compagno morente. Cominciò a sventolare il fazzoletto come un forsennato: il radio-telegrafista, che stava in coda al plotone, vide e chiamò l’ambulanza. Fu la prima volta che un automezzo arrivò di corsa nel pieno di una battaglia.

«I soldati della sanità si presero Silvio e scomparvero nelle retrovie. Ma Silvio non fece neanche in tempo ad arrivare all’ospedaletto da campo. Era morto così, come aveva lasciato l’amico sul fronte, senza un lamento, con un sorriso amaro sulle labbra insanguinate. “Bacia i miei”, fu il suo ultimo saluto. Di lì a poco sarebbe morto per l’Italia nuova, con le stellette sul bavero e il fazzoletto rosso attorno al collo».

«Per l’Italia nuova» muore Silvio ragazzo cagliaritano di 22 anni. Per l’Italia repubblicana, testimone di un’unica identità – sarda e italiana – per la più nobile delle cause universali di civiltà, la democrazia.

L’articolo uscì nel numero doppio 5/6 del 25 marzo 1975, a pagina 5, firmato da Gianni Bonanno.

Gianni (Gian Battista per l’anagrafe) aveva pubblicato altri articoli, invero non numerosi, sullo stesso periodico del suo partito, in quegli anni e, quest’ultimo, nel crepuscolo affrettato della sua vita, anche della sua vita. E nel sacrificio disperato, anche se diversamente disperato, echeggiante quello di Silvio Serra. Di quegli articoli ho rivisto la sequenza, in questi giorni, collazionando le serie di “Rinascita Sarda” presenti nella Biblioteca universitaria con quelle della mia emeroteca. Un’occasione anche per un ripasso generale della storia sociale e politica dell’Isola fra anni ’60 e anni ’90, una immersione critica (ma anche santamente nostalgica!) fra gli ideali e le intelligenze che muovevano un tempo i partiti chiamati a mediare fra il popolo sovrano e le istituzioni rappresentative…

Sulla riforma della scuola. Se non ne ho persi altri, il primo era stato del 1972, dentro un paginone tutto dedicato ai problemi della scuola. Il pezzo, che dettagliava la proposta di legge per la media superiore presentata alla Camera dai deputati comunisti, si titolava “Una legge che parte dalla lezione di Gramsci”: «Essa tende, in alcuni articoli programmatici, a ricomporre il rapporto istruzione-professione, attività manuale e intellettuale, impostando l’attività della futura scuola media superiore in maniera tale che l’uso dei seminari, le biblioteche, dei gabinetti scientifici e dei laboratori divenga momento privilegiato dello studio, sacrificato oggi alla ripetizione meccanica del manuale e delle nozioni mandate a memoria. Estensione dell’obbligo e della gratuità degli studi fondamentali comuni nell’unitarietà delle discipline opzionali lasciate a piena discrezione degli allievi; autonomia degli studenti nelle proposte di studio e di ricerca; loro partecipazione alla direzione della vita d’istituto nelle commissioni di coordinamento che sostituiranno la poliziesca figura del preside; nuove forme di valutazione dei risultati scolastici; nuova regolamentazione dell’esame di stato…». E naturalmente poi norme nuove ad hoc per gli studenti-lavoratori, cogestione delle Regioni su alcuni campi formativi e molto altro. Così sul n. 9 del 30 aprile di “Rinascita Sarda”.

Sulla formazione dei quadri politici. Nello stesso anno, sul n. 23 del 1° dicembre, in un paginone monografico sul partito (“L’educazione dei militanti. Coscienza di classe e coscienza teorica”), Gianni aveva dato sfogo a quella sorta di mistica del PCI, resistente ancora in quel tempo che chiudeva forse un’epoca, tutta tesa a riversare l’ideologia nella la trama sociale, a saldare pensiero e azione per l’avanzamento progressivo delle classi povere. Responsabile provinciale della Federazione Giovanile Comunista (FGCI) egli era giustamente interessato soprattutto a collocare il suo movimento nelle dinamiche della grande area comunista italiana e dentro quel pensiero e quell’azione. «Lo sviluppo dell’attività formativa all’interno delle scuole di partito – scrive fra l’altro – si presenta anche come terreno di crescita di giovani quadri operai, linfa vitale per un’organizzazione qual è la nostra ed elemento indispensabile perché il partito mantenga la sua genuina natura di classe: maturazione politica e ideologica, possibilità concreta di direzione dunque per i giovani operai perché l’egemonia della classe operaia diventa operante anche nella società».

E ancora e in ultimo: «Le dimensioni e il tipo dell’impegno dunque richiedono il possesso degli strumenti teorici e metodologici del marxismo-leninismo e del contributo originale e fondamentale, per noi comunisti italiani, di Gramsci e Togliatti: in questo modo è più agevole condurre la battaglia dentro l’Università e dentro la scuola per il rinnovamento degli studi e per una rifondazione del sapere in nome dl rinato impegno alla costruzione di una cultura italiana autenticamente marxista.

«Ma i giovani comunisti debbono misurarsi anche nei campi e nelle officine con le posizioni degli altri lavoratori, devono essere in grado di individuare le possibilità di conquista di quanti non hanno ancora coscienza di sé e del proprio ruolo nella società, le possibilità di costruzione di alleanze con quanti, socialisti e cattolici, conducono la lotta per la difesa dei propri diritti e per la conquista di una libertà superiore. Devono indicare nell’unità delle masse lavoratrici, continuamente messe in forse dalle pressioni e dai ricatti del grande capitale e dei suoi ministri, l’obiettivo principale per il rinnovamento del Paese: questo ruolo di guida può essere assunto a prezzo di una conquistata visione del mondo di cui il PCI, quale partito della classe operaia, è portatore. diffondere le nostre idee, spiegarle agli altri, sottraendole alla deformazione interessata dei mezzi d’informazione in mano ai padroni, essere parte trainante delle lotte indicandone gli obiettivi intermedi e le prospettive di fondo: questa la missione educativa dei comunisti italiani fra le masse, esercizio di quell’egemonia che deve saldare il blocco storico avanzante verso il Socialismo».

Per un’alternativa ai democristiani. Due anni dopo, sul n. 14/15 del 10 agosto 1974, un altro lungo articolo che in parte mi coinvolse. All’indomani del risultato referendario sulla paventata abrogazione dell’istituto del divorzio, e all’indomani anche dei risultati elettorali per il rinnovo del Consiglio regionale della Sardegna, che aveva visto un buon successo delle sinistre e un arretramento democristiano, Michelangelo Pira aveva rilanciato, dalle posizioni indipendenti di un intellettuale progressista che molto aveva dato anche alla esperienza del sardismo italianista del secondo dopoguerra, la proposta di una alternativa politica alla DC anche nell’Isola. Ed io, al tempo militante della Federazione Giovanile Repubblicana – un modesto (ma ambizioso) collettivo dove tutti erano base e anche però dirigenza, un po’ com’era stato nell’inarrivabile Partito d’Azione della storia antifascista e costruttiva della Repubblica – avevo argomentato il “perché sì” in un articolo che, in quello stesso numero di “Rinascita Sarda”, era stato impaginato sotto il titolo di “La nuova linea”, incapsulando una simpatica vignetta di Altan.

Gianni aveva occupato la parte alta della pagina all’insegna del “Dibattito aperto”. Titolo: “Una crisi feconda” e così era il sommario: «Il dibattito sulle prospettive aperte ai partiti della sinistra dal voto del 16 giugno rispondono a Michelangelo Pira il segretario provinciale della FGCI ed un dirigente giovanile repubblicano. La DC del dopo-referendum e del dopo-elezioni non è la medesima DC del prima».

Gianni impostava la questione nel modo tradizionale del PCI degli anni ’70, in chiave cioè di “compromesso storico”, secondo l’indirizzo proposto da Enrico Berlinguer all’indomani del tragico golpe militare-fascista in Cile, indicando nell’alleanza delle masse di matrice social-comunista e di matrice cattolica l’originalità della svolta necessaria, e derubricando a fatto parlamentare, addirittura parlamentaristico, ogni altra ipotesi lanciata. Tanto più ogni ipotesi argomentata dalle minoritarie formazioni dette, ancora in quel tempo, laiche (ma io avrei preferito, e preferirei, chiamarle democratiche riformatrici: non riformiste, mai riformiste alla craxiana, ma riformatrici alla lamalfiana. E in verità – aggiungo – limitavo alla Regione la proposta di alternativa di maggioranza, impossibile rimanendo, nel 1974, ogni soluzione che avesse visto il PCI presente con ruoli ministeriali nell’esecutivo nazionale, dirimenti essendo le opzioni di politica estera: sarebbe stata infatti soltanto del 1976 la accettazione ufficiale della NATO da parte del PCI, che ancora lungo quel tormentato decennio continuava a considerare “partito fratello” il PCUS).

«Forze sociali e culturali diverse sono state messe dunque in movimento – ecco l’analisi di Gianni – dalle lotte per la rinascita e l’approvazione della legge 509, dal referendum,  dal sussulto antifascista dopo i fatti di Brescia, dalle stesse elezioni regionali: forze culturali e sociali ampie, rappresentative di molteplici componenti che pure intendono, tra mille difficoltà, percorrere la strada dell’unità, come dimostrano le stesse vicende sindacali. Questo processo di aggregazione di forze vecchie e nuove, eterogenee a volte fra loro, la ricerca di una collocazione che le strappi al ruolo subalterno cui sono state costrette dal sistema di potere, è l’espressione di un’esigenza sentita a tutti i livelli, in presenza di una generale caduta del ruolo di direzione delle vecchie classi dominanti, di una nuova egemonia che sia quella della classe operaia che guidi il profondo processo di trasformazione della Sardegna che noi chiamiamo rinascita. Questo disegno ha bisogno di uno sbocco politico; la volontà nuova che emerge dal voto del 16 giugno esprime innanzitutto la necessità di una nuova direzione della Regione che dovrà fondarsi sull’intesa delle forze politiche espressione delle molteplici componenti che hanno costruito e faranno crescere il movimento per la rinascita. Un movimento composto e articolato che ha bisogno di momenti unitari di confronto e di iniziativa a livello politico…».

La domanda se sia giocoforza dividere la DC, per poter individuare nella sua parte progressista un possibile partner da impegnare in un governo avanzato, è considerata pressoché illuminista e senza risposta possibile: «non si tratta di un’operazione alchimistica, né, al più, da laboratorio scientifico. Si tratta al contrario di una grande costruzione storica, di un processo unitario alla cui testa stiano la classe operaia e le sue organizzazioni nei confronti della quale è deprecabile e la mitizzazione astratta e il paternalismo, che rischiano di non valutare di questa classe operaia la forza e la maturità nel periodo dello scontro aperto e duro con i governi centristi e le grandi lotte condotte negli ultimi anni, a smentita di quei falsi profeti che ne prevedevano la integrazione nel sistema ad opera dello sviluppo neocapitalistico».

Certamente il tempo avvenire avrebbe ampiamente, io ritengo, mortificato questa lettura, ancora tutta dentro gli schemi di dottrina, di Gianni. Ma certo essa vale a dar la prova e anche la misura di una tensione ideale e politica perfettamente rispondente all’identikit di quel giovane dirigente che presi anch’io a frequentare, nel quadro delle relazioni fra i movimenti giovanili dei partiti, nella prima parte degli anni ’70. Prima del governo della “non sfiducia”, prima del sequestro Moro e dell’intesa parlamentare fra le forze costituzionali, prima dei delitti del terrorismo rosso, prima delle formule fallite dell’eurocomunismo e della ricerca della terza via, prima del distacco berlingueriano dal terribile comunismo d’oltre cortina…

L’antologia de “Il Lavoratore”. Dello stesso 1974 è il meglio che Gianni ci abbia lasciato, riflesso dello studio attento cui aveva dedicato mesi e mesi per rispondere, davvero con un lavoro all’altezza, alla proposta che insieme aveva coinvolto l’Ufficio stampa della Regione Sarda, il comitato di coordinamento costituito da Manlio Brigaglia, Nino Carrus, Virgilio Lai e Graziella Sedda Delitala, e la Editrice Democratica Sarda, la quale da poco aveva iniziato a pubblicare le sue collane e che con questa specifica, articolatissima antologia della “Stampa periodica in Sardegna 1943-1949” aveva  offerto uno spaccato di estrema importanza dei passaggi del rilancio democratico, e anche della elaborazione autonomistica, nell’Isola dell’immediato secondo dopoguerra. A Gianni appunto era stato affidato il compito di spogliare “il Lavoratore”, settimanale comunista della Sardegna – diecimila le copie stampate e diffuse – , la cui direzione era stata coperta prima da Antonio Dore, quindi da Luigi Pirastu e Girolamo Sotgiu e infine, per qualche numero, da Ignazio Pirastu. Dal febbraio 1945 al marzo 1948, fino cioè alla vigilia delle prime elezioni parlamentari.

Quinto volume della serie di dodici, quello antologico de “Il Lavoratore” (comprensivo, mi sembra, di 96 articoli a firma di uomini come Renzo Laconi e Sebastiano Dessanay, Antonio Dore e Giovanni Lay, Giuseppe Borghero e Nadia Spano, Antonio Cassitta e Renato Mistroni, Luigi Polano e Umberto Cardia, Claudia Loddo e Armando Congiu ecc, oltreché della serie dei direttori in carica o in panchina) reca, come detto, l’introduzione – lunga e dotta – di Gianni Bonanno. Si tratta di una introduzione ottimamente assistita da rimandi bibliografici e anticipata da osservazioni circa le fonti e lo stato delle ricerche al tempo (1973-1974) che mi paiono meritevoli di essere riprese perché denotano la sensibilità del saggista, la sua cautela circa i materiali disponibili e insieme lo stimolo agli approfondimenti tutti da compiersi : «Va lasciato… a chi potrà disporre di documenti e fonti diverse e più complete, cimentarsi con questa prova non indifferente [ricostruire la vita del PCI in Sardegna negli anni 1945-1947, e con essa un momento non secondario della stessa storia della società sarda]; gli archivi infatti sono ancora in gran parte inaccessibili (in vista del loro atteso riordinamento) e altro genere di materiale documentario, relativo alla storia del PCI in Sardegna, è ancora disperso e rischia di andare irrimediabilmente perduto. Scarsa la produzione di saggi e di memorie dei protagonisti dell’epoca; una qualche ricerca e ordinamento degli atti, verbali di riunioni etc.,(nei limiti della povertà di documenti specie relativi al periodo clandestino), si è avviata negli ultimi tempi, parallelamente alla raccolta di interviste ad anziani dirigenti del partito e del movimento operaio dell’isola, ad opera di gruppi di studio e di singoli ricercatori legati a piani di lavoro di istituti delle Università di Cagliari e di Sassari e di studiosi e ricercatori indipendenti

«La necessità di una riflessione sulla propria storia e sulle esperienze di quegli anni da parte della classe operaia sarda, del movimento democratico e autonomistico, è dettata non soltanto dalla richiesta che proviene dalle giovani generazioni di soddisfare una curiosità storica attorno a vicende che esse non vissero, ma dalla reale necessità di guardare a quel passato per valutare, al di là delle condizioni obiettive, scelte soggettive che il movimento e le sue componenti hanno operato, perché del corretto giudizio su quelle scelte possa giovarsi oggi, nella difficoltà generale di un rilancio autenticamente autonomistico, l’intero schieramento democratico sardo.

«In particolare la necessità di sviluppare la ricerca sulla costruzione del PCI in Sardegna come partito nuovo e sulla formazione del suo gruppo dirigente, non nasce da velleità agiografiche: una storia complessiva della società sarda in quegli anni non può prescindere da quella di una sua componente essenziale, quale è il PCI che diviene proprio allora parte integrante del paese per il contributo ideale, culturale e politico  dato all’opera di ricostruzione, e di edificazione del nuovo Stato, di realizzazione dell’istituto autonomistico. Risalta dunque il ruolo non subalterno, ma “nazionale” di questa componente che si afferma come elemento fondamentale e indispensabile alla stessa opera di ricomposizione di quel quadro storico.

«Negli ultimi anni hanno preso vita iniziative e ricerche in questo senso; ma la debolezza delle strutture culturali, la carenza di punti di riferimento per l’ulteriore sviluppo dell’indagine e della ricerca, hanno impedito di dare risposta alla richiesta di sapere storico proveniente dalle giovani generazioni, spinte dalla necessità di prendere coscienza di sé e del proprio ruolo nella situazione che hanno ereditato. E’ dunque auspicabile l’aggregazione di forze culturali, sociali e politiche democratiche attorno a strutture, a centri di ricerca, Università, periodici e istituti concepiti fuori del mondo tradizionale della scuola e della ricerca scientifica, che siano in grado di rivitalizzarla e rilanciarla con il loro tributo».

Potrebbe dirsi, riferendosi proprio a queste istanze ed a questi anni, che le cattedre di storia moderna e contemporanea della università di Cagliari, segnatamente quelle delle facoltà di Lettere e Filosofia e di Magistero hanno goduto della titolarità o degli incarichi affidati a docenti di gran nome e certamente non estranei all’area culturale comunista (viene immediato, a non dire di Girolamo Sotgiu, il nome di Paolo Spriano o quello di Giampaolo Pisu). Ma quel che più conta, nella soddisfazione per quanto poi è davvero venuto dalle ricerche a tutto campo, e accademico e indipendente, anche sulla storia del PCI sardo (ad iniziare da quella di Piero Sanna e dall’ ambiente creato dal prezioso “Archivio Storico del movimento operaio e contadino sardo” promosso giusto nei primi anni ’70 dal professor Sotgiu e dallo stesso Spriano e da giovani docenti come la Pisano, la Proccacci, la Trudu, o come Tore, o il mio carissimo Giuseppe Serri, ecc.), sono il perché e il come Gianni tratti la storia, lui che è un militante: la lezione della storia, sia quando offre modelli,  sia quando denuncia insufficienze od errori, deve essere “mangiata” nell’oggi, deve costituire una presenza comunque di orientamento per la lotta politica in corso, nella costruzione delle migliori condizioni di vita possibili delle classi subalterne e marginali.

La sessantina di pagine della introduzione offerta da Gianni alla antologia de “Il Lavoratore” ricostruiscono bene i termini e i tempi della ricostruzione delle identità e delle relazioni politiche nell’Italia e nella Sardegna che tornavano statuti di libertà, oltre il liberalismo degli anni ’20, degli anni precedenti alla dittatura: quel liberalismo che, meritorio per mille ragioni, che era però intimamente legato all’idea e all’istituto monarchico (come ancora negli anni ’40 postbellici in verità). E invece, appunto oltre il liberalismo, finalmente in democrazia, che è nozione di dottrina che si lega intimamente a quella di repubblica.

Come sempre nei suoi scritti, la trama politica ricostruita da Gianni s’intreccia con quella sociale, con i quadri di sofferenza dei ceti popolari per la penuria dei generi di prima necessità, l’inflazione e il carovita, il disagio occupativo (così per esempio nel comparto minerario, luogo di agitazioni contro il cottimo, per gli aumenti di paga o delle giornate di ferie). Entrano nella sua esposizione le evidenze nazionali e quelle regionali messe a raffronto e in relazione, entrano le attività specifiche – ora organizzative e congressuali ora anche elettorali, fra amministrazioni locali e Costituente – delle formazioni politiche dapprincipio collegate nei comitati antifascisti, tanto locali quanto provinciali. Il Partito Comunista Italiano, superata la marginale concorrenza del PCS (sognatore di una Repubblica Autonoma Sarda aderente alla fantastica Repubblica Socialista Federativa!),  è rappresentato nella sua vita interna, nelle sue strutture, nelle occasioni di incontro e dibattito, nella dimensione e dislocazione della sua militanza, nella composizione dei suoi organi dirigenti.

Nel novero delle analisi assai suggestive, forse non pienamente condivisibili ma certamente positive e stimolanti, si collocano quelle riguardanti il sardismo, visto nella forbice divaricante fra i lussiani e i moderati in specie del Nuorese, fra l’anima classista e quella padronale o proprietaria nelle campagne. (Va da sé che parte relativamente ampia è riservata al rapporto anche con il mondo cattolico, con la Democrazia Cristiana – considerata nell’Isola refrattaria a quello spirito unitario presente là dove ci si è battuti nella guerra partigiana, e qui espressione di una tarda borghesia agraria, commerciale, industriale tesa alla difesa dei propri privilegi  – e la stessa Chiesa interventista anche oltre il consentito dalla normativa luogotenenziale e praticante un greve “terrorismo religioso”: la frattura nell’impegno sociale si salda così a quella ideologica).

Ovviamente entrano nelle descrizioni e riflessioni critiche dell’autore le iniziative politico-amministrative dell’Alto Commissario Pinna, le discussioni interne alla Consulta regionale impegnata a stendere un progetto di statuto autonomistico da passare al giudizio conclusivo della Assemblea Costituente, ed entrano ovviamente i temi dialettici fra i partiti a Montecitorio, nella stagione che, politicamente più vivace, segue quella risurretiva della Consulta nazionale.

Il lungo elaborato cerca di meglio articolarsi per ambiti temporali, scandendo la sequenza cronologica – 1945, 1946, 1947 – e lo fa, ovviamente, recuperando per il grosso quanto la stessa antologia degli articoli de “Il Lavoratore”  concede. Ne deriva una trattazione ampia per soggetti, per territori come per istituzioni, per protagonisti come per numeri.

La riflessione storico-politica. Concludendo l’esame degli avvenimenti occorsi nel triennio circa di uscita del periodico, e giunto al punto di dar conto della approvazione, da parte della Costituente, del titolo V della costituzione che vale come strada realizzativa dell’autonomia speciale isolana, Gianni proietta lo sguardo al dopo, al ’48 e all’oltre ancora. Sembra interessante riprendere almeno qualche riga di questa conclusione che riassume il suo giudizio che è insieme storico e politico:

«Il 1948 riserverà una dura sconfitta ai partiti di sinistra (uniti nel Fronte Democratico Popolare) in occasione delle elezioni dell’aprile; il rafforzarsi del monopolio democristiano del potere drammatizzerà e renderà più acuto lo scontro politico nel paese, spaccato verticalmente e profondamente, essendo ormai frantumata quell’unità realizzata nella lotta contro il fascismo. Si apre un periodo travagliato nella lunga lotta di redenzione del Mezzogiorno e della nostra isola: nuove lotte attendono negli anni successivi i contadini, i pastori, gli operai, gli intellettuali sardi per dare contenuto all’Autonomia; la mobilitazione dei lavoratori e il movimento delle masse è il terreno principe scelto in quella fase del PCI come strumento per andare avanti, nell’unità di tutte le forze autonomistiche, sulla strada della democratizzazione del progresso dell’isola».

Egli cita, a questo punto, Velio Spano – assurto quasi a caposaldo di dottrina e giudizio –, che nell’articolo “Contro il cretinismo paternalistico”, uscito su “Il Lavoratore “ del 7 febbraio 1948, alla vigilia quindi della cessazione delle pubblicazioni della testata, ha scritto: «quel che vi è di nuovo in Sardegna non è venuto tanto dalle Commissioni parlamentari, quanto dal movimento delle masse operaie e contadine. Gli operai in lotta per i Consigli di Gestione, i contadini in lotta per la terra, i piccoli e medi proprietari in lotta per l’autonomia della Sardegna molto più e molto meglio dei professori di diritto costituzionale, intenti a distillare formule statutarie. E‘ dunque questa la via che bisogna seguire. Spingere avanti il movimento, dare strumenti concreti ai Consigli di gestione e ai Comitati per la terra, dare ai sardi chiara coscienza dei loro compiti e delle loro rivendicazioni, di fronte a se stessi e di fronte alle forze estranee ed ostili del capitalismo continentale e dello statalismo italiano».

L’ultima stagione di un intellettuale organico. Già segretario provinciale della FGCI, Gianni nel 1975  era membro del Comitato federale e della segreteria federale del partito. Il PCI nel 1975, ancora in quel tempo che pure registrava l’avvio di una certa sua trasformazione anche ideale o ideologica, certamente politica (alla fine dell’anno successivo, data anche una più larga pratica amministrativa nei comuni e nelle province, esso avrebbe sottoscritto i patti della cosiddetta “unità autonomistica” e l’on. Raggio sarebbe stato eletto alla presidenza del Consiglio regionale), chiamava le sue sezioni cagliaritane e quelle della provincia o della Sardegna intera con i nomi dei tanti dirigenti che ne avevano maggiormente guidato le sorti, a livello nazionale o locale, nelle stagioni prossime o remote, ma non mancava neppure di onorare i dottori della fede: c’erano quindi Marx e Togliatti, Gramsci e Laconi, Spano e, magari, i fratelli Cervi… L’orgoglio di tutta una storia, di quella certa storia del comunismo italiano e sardo era certamente un orgoglio vissuto, goduto direi, ma come una responsabilità non come un orpello d’eleganza – l’eleganza del mito –, da Gianni. E quell’orgoglio fu come la migliore corona di fiori nel camposanto, a consolare la sua memoria e i tanti colpiti dalla sua sventura.

Egli s’era avvicinato al Partito Comunista Italiano nei lunghi mesi che avevano accompagnato la contestazione giovanile del ’68 alla rottura, interna al partito, con il gruppo de “Il Manifesto” radiato – questo il verbo adoperato, che sapeva anche di settarismo – dalla organizzazione. Si professava marxista-leninista, poi meglio gramsciano, e nella sofferta serietà del grande pensatore cofondatore del PCd’I si specchiava definendo e forse anche traendo il profilo di una missione etico-politica che era insieme nazionale e internazionale e puntava alla redenzione delle classi subalterne, ad iniziare da quelle dei territori meglio conosciuti e praticati. Ma nello svolgimento degli incarichi che via via aveva assunto avvertiva, anche con pena, una certa permanenza di gap, anzi uno stallo critico nello scostamento fra il partito ideale – appunto quello santo e missionario votato alla causa – e quello propenso, nella condotta dei singoli (anche e soprattutto dirigenti), agli adattamenti per convenienza, per pigrizia, forse anche per furbizia, in quella o in quell’altra certa circostanza.

La morte repentina, incredibile, oltre che dolorosa, di Gianni Bonanno, all’inizio della settimana che si sarebbe conclusa con le elezioni per il rinnovo dei consigli comunali e provinciali, e che avrebbero visto, anche in Sardegna come nel resto d’Italia, una forte crescita dei voti e delle rappresentanze del PCI – così pure la capitale, come Napoli, come Torino ecc., passò a un sindaco espresso dai comunisti – venne pianta da molti con lacrime sincere. Non da tutti, va detto, perché Gianni era anche rigoroso e tranchant, come un sacerdote votato alla trasparenza della causa, alla dedizione totale di quella cosa preziosa che era, nella sua coscienza, il comunismo. (Ne dà spunti, sul piano dell’aneddotica, anche il bellissimo recente libro di Walter Piludu “Il cugino comunista”).

Al Comitato federale (provinciale cioè) di Cagliari, poche settimane dopo la sua tragica fine, Gianni fu commemorato da Alberto Palmas. Il testo del suo intervento è pubblicato a tutta pagina da “Rinascita Sarda” n. 11/13 del 10 luglio 1975, sotto il titolo “Una intensa stagione” e l’occhiello “Riflessioni sulla vita di Gianni Bonanno, giovane intellettuale comunista scomparso tragicamente”. «In lui – disse Palmas – morale e politica coincidevano a tal punto da indurlo spesso a proiettare un’immagine del dirigente di partito impregnata di moralismo, spesso astratta, in qualche caso utopica; in lui vivissimo e contraddittorio fu il nesso tra milizia rivoluzionaria e concezione generale del mondo e scelta di vita. Tanto vivo e contraddittorio da coinvolgere, sino ad annullarsi a vantaggio del lavoro politico, interessi familiari e privati, interessi culturali persino, che erano stati il suo fondamentale campo di attività, il suo centro fondamentale di interesse».

Infine: «Di questa tragica, dolorosa vicenda; delle poche stagioni che il compagno Gianni spese nell’intessere la fitta rete del partito, deve restare una lezione ed un monito: deve restare, e dobbiamo rendercene noi eredi, la passione, il disinteresse, la freschezza di idee e di sentimenti, la rigida onestà intellettuale che ne hanno segnato il cammino tra noi. Di questa vicenda e del suo tragico epilogo dobbiamo far tesoro per essere miglior in noi stessi, nel nostro lavoro, per poter guardare con occhi limpidi ai giovani, agli intellettuali, ai compagni che verranno con noi e dopo di noi a condividere la lotta, la passione politica, il duro mestiere».

In un riquadrato di accompagno, anonimo ma che mi sentirei di attribuire a Giuseppe Podda, si legge fra l’altro: «Gianni Bonanno non aveva ancora 27 anni; era un intellettuale che aveva scelto di combattere la sua battaglia con il movimento operaio, rifiutando anche suggestioni di tipo diverso, e, apparentemente, più prestigiose funzioni nel mondo accademico di Cagliari e di Bologna. In lui vi era la tensione morale e ideale, la passione politica che caratterizza molti giovani di oggi: rifiuto della società attuale, ed impegno duro per costruire una realtà diversa. Il compito che si pone a chi voglia cambiare è certamente di estrema difficoltà. La dimensione dello sfruttamento può talora indurre nella convinzione che la battaglia sia impossibile, ma l’unità delle grandi masse, la lotta organizzata, gli strumenti potenti che i lavoratori si sono costruiti, debbono costituire la risposta ad una realtà alienante. La città non come dormitorio o come occasione di svago-fuga, non come luogo della incomunicabilità, ma come centro di vita sociale e come momento di aggregazione per dominare la natura in funzione dell’uomo: questo è l’impegno che bisogna assumere. Nessuna trincea può essere trascurata, e ognuno deve trovare un suo posto, proprio per non sentirsi strumento inconsapevole, ma parte operante di un disegno di rinnovamento».

Concludo questo articolo composto per il più di stralci e citazioni da testi di utile lettura confessando qualche sentimento, il primo a latere forse della politica, perché qui è la vicenda umana che s’impone e che, pur nella drammaticità dell’epilogo, pare comunque coerente al rigore di una formazione morale e intellettuale e di un approdo nel servizio del bene comune, per i programmi della giustizia sociale.

Gli incontri avvenuti nelle diverse sedi politiche, quarant’anni fa, fra noi rappresentanti dei movimenti giovanili dei partiti democratici sardi, mi misero più volte a contatto con questo che per me, in quanto a ragioni anagrafiche, poteva essere un fratello maggiore e mostrava, al tavolo, fra i nostri fogli scritti o da riempire di parole per un comunicato da diffondere poi e consegnare magari anche alla stampa (ora sul bisogno di pace in Vietnam, ora in vista della conferenza delle Regioni del Mezzogiorno, ecc.), una autorevolezza che veniva sì dagli anni, pur pochi, in sovrappiù rispetto ai nostri o ai miei, ma palesemente anche da una preparazione che si mostrava soda, abile nell’argomentare, gentile nel porgere.

Penso alle consolazioni riservateci nel non tempo che segue l’evento di morte e penso e spero che Gianni si sia ritrovato con Silvio Serra a discutere ancora e sempre di democrazia e libertà e repubblica, assi di comunione fra i migliori.

Sotto tutt’altro aspetto mi viene spontaneo guardare al Partito Democratico di oggi, composto e/o sostenuto in parte da quelli della generazione di Gianni e anche mia, in parte dai nuovi cresciuti nell’età della barbarie ideale, dello strame istituzionale e morale del peggior ricco d’Italia e della sua claque di anonimi inutili, dei molti voltagabbana passati con lui dimenticando – qualcuno c’è stato – perfino Giorgio Amendola o Ugo La Malfa. Quei nuovi che hanno introdotto nuovi conformismi, nuove pugne muscolari perfino in materia costituzionale, o al nuovo costume si sono allineati, senza spirito critico, senza passione patriottica.

 

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