L’indipendentismo è un progetto di destra o di sinistra? L’indipendentismo è un movimento di protesta o di proposta? L’aspirazione all’’indipendenza è un’ipotesi legittima? E’ realistica? E’ conveniente per i sardi? Come va adeguatamente pensato il futuro della Sardegna?


Gianni Marilotti interviene a Seneghe nel corso del convegno 'Faghimus s'istoria .... sa die de sa Sardigna 2011', il 3 giugno 2011

 

Bene fa la Fondazione Sardinia a suscitare discussioni nel mondo della cultura, della società sarda e della politica. Questo dibattito parte da una semplice e secca domanda: c’entriamo qualcosa con le celebrazioni dei 150 anni dell’unità d’Italia? Abbiamo qualcosa da dire in proposito visto, tra l’altro, che la classe dirigente sarda, così prodiga di finanziamenti per i 150 dell’Unità, ha colpevolmente snobbato la nostra festa nazionale? Perché la maggior parte degli uomini di cultura hanno taciuto al riguardo?

Da qui s’attòbiu, l’incontro di volontari appartenenti a diverse culture politiche per tentare risposte. Qualcuno si è lamentato per il fatto che l’incontro del 3 giugno abbia dedicato molta, forse troppa, attenzione al rilancio del comitato pò sa die de sa Sardigna. Ma come, non eravamo tutti d’accordo? Perché riunirci a Seneghe? Dice tra le altre cose Buluggiu, lamentandosi per il tempo sprecato che avremmo potuto utilizzare più efficacemente.

Intanto a Seneghe non si è parlato solo de sa die de sa Sardigna ma di rilancio della costituente sarda, intesa come assemblea sovrana; si è parlato di statualità sarda, di sovranità e, molto frequentata è stata la parola indipendenza. Ma anche il dibattito che è seguito a Seneghe procede sulla stessa falsariga, con accenti differenti, ma comunque con vigore. Anche i contributi linkati dal sito di Sardegna Democratica affrontano questi temi.

Riassumendo il dibattito assembleare, ma anche i successivi contributi interni ed esterni (penso in particolare a quello di Guido Melis) si possono estrapolare alcune domande ricorrenti e cruciali:

L’indipendentismo è un progetto di destra o di sinistra?

L’indipendentismo è un movimento di protesta o di proposta?

L’aspirazione all’’indipendenza è un’ipotesi legittima? E’ realistica? E’ conveniente per i sardi?

Come va adeguatamente pensato il futuro della Sardegna?

Il principio di autodeterminazione nella nostra  epoca storica coincide con il raggiungimento della sovranità assoluta?

E’ possibile pensare ad un passaggio storico ulteriore dall’attuale fase  di interdipendenza fra stati e sistemi politici ad una fase caratterizzata dalla inter-indipendenza?

E rispetto all’ Unione Europea: dobbiamo spostare il rivendicazionismo di stampo autonomista da Roma a Bruxelles?

Io non potrò adeguatamente rispondere a tutte queste domande, anche perché altri l’hanno fatto meglio prima di me in saggi usciti recentemente, penso ai lavori di Placido Cherchi, di Bachisio Bandinu, di Alberto Merler, di Salvatore Cubeddu, di Franciscu Sedda, di Gianfranco Pintore e del compianto Eliseo Spiga,  e di altri ai quali naturalmente rimando.

C’è chi sostiene che l’aspirazione alla libertà dei popoli, alla loro autodeterminazione sia storicamente bagaglio culturale della sinistra per cui anche l’indipendentismo sardo debba marcare questa caratteristica denotativa. C’è chi lo esplicita finanche nel nome del partito-movimento (A manca pro s’indipendentzia) , chi pur non esplicitandolo nel nome  la ritiene comunque un dato di fatto;  al contrario altri  ritengono che il nazionalismo abbia caratterizzato piuttosto movimenti di destra che di sinistra.  Non è il caso qui di approfondire la questione (che meriterebbe opportuni approfondimenti in altra sede), ma va detto che numerosi sono i casi che supportano la prima tesi (si pensi al processo di decolonizzazione, alla nascita del movimento dei paesi non allineati durante il periodo della divisione del pianeta nei due blocchi militari statunitense e sovietico) e altrettanti quelli che possono dare ragione alla seconda tesi (si pensi alla ex Jugoslavia o ai movimenti xenofobi e razzistici, da ultima la Lega in Italia). A proposito dell’Italia e del suo percorso di formazione, è possibile rinvenire nel Risorgimento movimenti di aspirazione all’unità e alla libertà di stampo più progressista o più moderato. Lo stesso può dirsi del Partito Sardo d’Azione che fu attraversato fin dalla sua nascita da culture diverse (di destra e di sinistra) che sfociarono (si pensi al sardofascismo o all’opposto all’antifascismo di Lussu ) o sfociano tuttora in comportamenti contrapposti politicamente.

Se andiamo alle origini  dello Stato federale, vale a dire il principio della creazione programmatica di livelli di potere coordinati ed indipendenti (l’Unione federale e gli Stati membri appunto) possiamo notare che anche  negli Stati Uniti d’America si era evidenziato un dibattito che poi era approdato nella Costituzione Federale attraversato da posizioni più liberali centralistiche (Madison, Jey) o liberali progressiste (Hamilton) o democratiche più legate alla difesa del locale (Jefferson).

Insomma il problema non è di facile soluzione poiché dipende dal punto, dalla prospettiva, da cui la si guarda. Gli stessi concetti di destra e sinistra, pur mostrando alcune costanti rintracciabili, sono in certo qual senso relativi. Di quale sinistra e quale destra stiamo parlando? La destra storica? La sinistra storica? La sinistra della prima, seconda o terza internazionale? La destra imperialista di fine Ottocento o di quella delle dittature del Novecento? Sulle questioni della sovranità, dell’autodeterminazione, dell’indipendenza, della libertà dei popoli quelle sinistre e quelle destre hanno detto cose molto diverse.

Non sono questioni di lana caprina, perché toccano il cuore, i sentimenti, le convinzioni più intime di chi fa politica e crea reciproche diffidenze nell’aderire ad un progetto. Posso aderire ad un movimento indipendentista che faccia riferimento a valori, pratiche, simboli riferibili alle culture di destra o di sinistra se credo in valori differenti? In ciò io credo stiano alcune delle ragioni che hanno impedito finora al movimento indipendentista di diventare un movimento di popolo. Io credo che da queste ambiguità e da queste confusioni dobbiamo uscirne se vogliamo che l’indipendentismo diventi un progetto condiviso.

Vi è chi sostiene che è nel concetto di Nazione  e di popolo che vada ricercata la radice delle aspirazioni indipendentiste lasciando tra parentesi come problema non essenziale  l’adesione ad una ideologia di destra o di sinistra, proponendo  di andare oltre, nel senso di oltrepassare, le tradizionali culture di destra o di sinistra del secolo scorso per guardare in prima e unica istanza la Sardegna e gli interessi dei sardi. I nuovi indipendentisti (in particolare Irs e Progres) propongono con accenti diversi  tale oltrepassamento nei termini di un indipendentismo non nazionalista, non violento, non autonomistico-rivendicazionista; e aggiungono non separatista, inclusivista, che fa proprie le istanze eco pacifiste, le carte dei valori civili sottoscritte dai popoli riuniti nell’Onu o nella Unione Europea e dunque  un indipendentismo moderno. Va da sé che questa prospettiva guarda oltre l’esistente, ha una forte carica idealistico-utopistica, implica un forte e profondo ripensamento delle categorie della politica. La più consistente differenza tra Irs e Progres sta, oltre che nell’agire politico (più attento allo studio e al mondo della ricerca Progres, più vicino ai movimenti come quello contro Equitalia o quello dei pastori, Irs) nell’idea di Nazione sarda: un dato di fatto secondo Irs (ma anche Sardegna Nazione, Psd’Az e buona parte dell’autonomismo), un qualcosa da costruire a partire da una nuova soggettività di popolo secondo Progres.

Mi si scusi la semplificazione ma a me pare che la differenza stia tra un’idea di nazione su base etnico-linguistica  come elemento dato e quella di un’idea di nazione tutta da inventare (ma che ovviamente parte dalla nostra storia, la nostra lingua, le nostre tradizioni). E’ questo il senso più profondo della riflessione di Franciscu Sedda e il suo tradimento deliberato della tradizione sardista. Ci sono stati dei momenti in cui il popolo sardo unito avrebbe potuto diventare Nazione (Sa battalla di Sanluri, i moti angioiani,  la nascita del PSd’Az) ma per motivi diversi non è successo, in altri momenti la storia ci riproporrà e si tratterà di capire se saremo pronti. Non Nazione abortiva, dunque, ma nazione in fieri.

Accogliendo, nella sostanza, le tesi di Franciscu Sedda,  Bachisio Bandinu nel suo agile panphlet  “Pro s’indipendentzia” sposta però l’attenzione sui concetti di Nazione e popolo che, spogliati della carica romantica Ottocentesca o dai populismi Novecenteschi, possono a buon diritto essere ancora considerati i due pilastri di un progetto indipendentista, a patto di superare qualsiasi forma di nazionalismo che ha insito il germe della violenza.  Nazione sarda come gruppo sociale tenuto insieme dalla propria storia, dalla lingua e dai propri valori; popolo definito nei termini di depositario della sovranità e declinato nei termini di cittadinanza.

Bandinu tende, dunque, ad attenuare gli effetti più radicali di quell’idea di Nazione liquida che sottende l’analisi di Sedda per il quale la stessa questione linguistica non sarebbe, a rigore, essenziale per il raggiungimento dell’indipendenza, come dimostra ad esempio il caso dell’Irlanda.

Dunque indipendentismo non nazionalista. Prospettiva affascinante, moderna e dinamica capace di catturare le simpatie in particolare di un mondo giovanile in fermento.

Ma può vivere un’idea di nazione senza un movimento nazionalista o nazionalitario che la producono? In altri termini, sarebbe per esempio nata l’idea di nazione italiana senza un movimento risorgimentale che la producesse? E lo stesso discorso vale per tutte le “nazioni” che nel corso dell’Otto-Novecento si sono costituite in Stati.  E’ un tema che merita qualche riflessione.

Secondo una consolidata storiografia (si pensi a ” Nazioni e Nazionalismo “ di Eric J. Hobsbawm)  ci sono due versioni del fenomeno nazionale: la prima che compare all’epoca delle rivoluzioni tra la fine del diciottesimo secolo e l’inizio del diciannovesimo con caratteristiche liberali e democratiche, la seconda che emerge in forma nuova alla fine del diciannovesimo secolo e si fonda su simboli etnolinguistici  reazionari e razzisti. Interpretazione che in qualche modo integra la tesi di “ L’idea del nazionalismo”  di Hans Kohn  secondo il quale vi sarebbe una netta dicotomia tra le due categorie principali dell’ideologia nazionalista: la prima del nazionalismo occidentale, fondamentalmente volontarista e inclusivista che si sviluppa dagli Stati Uniti fino alla Svizzera secondo la quale chiunque prenda cittadinanza in uno di questi paesi (Usa, Gran Bretagna, Francia, Italia, etc.) è considerato sul piano giuridico membro della nazione; la seconda è quella dell’identità nazionale organica ed esclusivista fondata sui legami di sangue o religiosi che dal Reno si è diffusa in Germania, Polonia, Russia e nei Balcani.

In sostanza vi sarebbero Nazioni che hanno conservato più a lungo miti etnocentrici per definirsi e altre che al contrario sono basate, per parafrasare Dahrendorf,  su un patriottismo costituzionale e democratico.

Per lungo tempo si è creduto che le nazioni fossero un fenomeno primordiale e antico. Secondo Marc Bloch  “gli uomini, per la disperazione degli storici, non hanno l’abitudine di mutare il vocabolario ogni volta che mutano abitudini” . E’ questo il motivo per cui termini come nazione, popolo, éthnos nati secoli fa sono tranquillamente usati dagli storici non solo in riferimento all’oggi ma anche al mondo antico. Dunque la nazione come fenomeno primordiale,  la novità sarebbe costituita dell’avvento del nazionalismo come successiva elaborazione (fine Settecento, primo Ottocento) o come sua degenerazione (fine Ottocento, Novecento). Ma, come hanno dimostrato Benedict Anderson  in    “Comunità immaginate” e, ancor meglio, Ernest Gellner in “Nazioni e Nazionalismo”,” è il nazionalismo che genera le nazioni non viceversa”. Senza una forte ideologia nazionalista non sarebbe mai sorta l’idea della nazione ebraica (si veda Shlomo Sand  “L’invenzione del popolo ebraico”) e ciò vale per il  passato come per l’oggi. Basta guardare le caratteristiche degli Stati sorti dopo il crollo della Jugoslavia e i loro incerti criteri di appartenenza per avere un’idea di quanto forte sia il legame tra definizione etnoreligiosa della identità nazionale ed esplosione della xenofobia. Queste entità hanno avuto bisogno di una religione ormai inesistente per definire un éthnos nazionale che non è mai esistito. E’ stato soltanto il ricorso ad antichi miti (totalmente infondati) che ha consentito di aizzare i croati “cattolici” contro i serbi “ortodossi” e questi contro i bosniaci e kosovari “musulmani”. Piccole differenze linguistiche sono diventate, anche in seguito alla fallimentare politica di assimilazione del regime comunista della ex Jugoslavia, barriere insormontabili. A proposito di miti mi pare illuminante quello che sta alla base del nazionalismo serbo. La battaglia di Kosovopolje del 28 giugno del 1389 che segnò la vittoria dei turchi Ottomani fu, fin dall’Ottocento, innalzata a spartiacque della storia slava. Il 28 giugno è da allora una sacra festività nazionale e il principe serbo Lazar un eroe nazionale. Così dopo la sconfitta dei turchi nel 1912 i serbi occuparono facilmente il Kosovo e iniziarono una campagna di pulizia etnica contro i kosovari albanesi e serbi “musulmani”. E l’attentato di Sarajevo contro l’Austria-Ungheria  (potenza che andava sostituendosi alla potenza Ottomana in antagonismo all’espansionismo serbo) avviene significativamente il 28 giugno del 1914. Ed è altrettanto significativo che Slobodan Milosevic abbia dato inizio alla violenta guerra che ha sconvolto i Balcani il 28 giugno del 1989.

Dico questo perché le insidie di un nazionalismo su basi etniche sono sempre incombenti. Ma se per costruire un’idea di Nazione sarda è necessario, per seguire Gellner, un movimento nazionalista è bene chiarire che esso si deve ispirare ai valori autentici della nostra tradizione innervati dall’appartenenza  alla migliore tradizione della civiltà del diritto, ai principi e ai valori della libertà e della democrazia. Direi quindi non un indipendentismo non nazionalista, bensì un indipendentismo che rifiuta un nazionalismo violento, xenofobo ed esclusivista. Un nazionalismo costituzionale espressione della sovranità popolare.

Io credo, noi tutti crediamo,  che l’indipendentismo non deve essere un movimento di protesta, ma di proposta. Non è, come sembra credere Guido Melis, una ricetta consolatoria dei momenti di crisi, non è una fuga nel ribellismo e nel nulla. L’indipendentismo di cui stiamo parlando nasce da una concreta riflessione sulla nostra storia, da un’analisi del contesto internazionale  del quale facciamo parte, e dalla consapevolezza che un modello di sviluppo quale abbiamo conosciuto finora non solo non garantisce più i livelli di benessere (per un terzo dell’umanità) ma non  è più proponibile su scala planetaria.  L’indipendentismo di cui stiamo parlando è pienamente inserito nel dibattito mondiale sulla transizione da un sistema economico fondato sulle energie non rinnovabili ad un modello basato su quelle rinnovabili e pulite;  sulla transizione dalla dittatura dei mercati (particolarmente finanziari) e dell’economia sui bisogni dei popoli e delle comunità a una società internazionale che rimetta la politica e quindi i bisogni dei cittadini, la salvaguardia dell’ambiente, la qualità della vita intesa come produzione di socialità al centro del proprio agire; l’indipendentismo prende atto che pensare all’autosufficienza alimentare non è più un’eresia ma una concreta necessità; l’indipendentismo pensa che le ideologie dello sviluppo  ci porteranno al disastro planetario ampiamente annunciato e che invece siano concretamente praticabili le teorie sulla decrescita felice. L’indipendentismo pensa che su tutte queste questioni non possiamo assistere impotenti “perché sono cose più grandi di noi” ma che nel nostro piccolo possiamo fare qualcosa e che per fare questo qualcosa dobbiamo iniziare a introdurre quote di sovranità. L’indipendentismo non come fuga nell’utopia o nello sterile ribellismo, ma come concreto programma di operatività sui trasporti, sull’energia, sul paesaggio, sull’agricoltura, sulla istruzione, sulla ricerca.

Che l’aspirazione all’’indipendenza sia un’ipotesi legittima è dentro la tradizione democratica alla quale ci ispiriamo. Un popolo ha diritto alla sua libertà e se questa viene costantemente negata non rimane altra strada che la ridefinizione del patto costituente. Si dice che l’aspirazione all’indipendenza sia un retaggio del passato, che nell’era della globalizzazione  è fuorviante ed antistorico chiudersi nel proprio particolare. La storia ci dice il contrario. Ci dice che a partire dal 1948 sono sorti (e sono stati riconosciuti dagli organismi internazionali ) un numero considerevolmente maggiore di Stati rispetto al periodo storico della  nascita degli Stati nazionali. E non mi riferisco solo al processo di decolonizzazione dell’Africa o dell’Asia , ma  agli ultimi venticinque anni, nell’Europa dell’Est, nei Balcani, in Africa, per non parlare dei processi in corso (Belgio, Scozia, Spagna o il Saharawi e il Sud-Sudan). Dunque il nostro è pienamente il tempo in cui molti popoli stanno concretamente e democraticamente percorrendo la strada dell’autodeterminazione e della sovranità. Ma è conveniente per i sardi? Nessuno ha la bacchetta magica. Credo si possa rispondere ragionevolmente in modo affermativo tenendo conto che peggio di come stiamo messi ora non è possibile; e non è un ripiegarsi su sé stessi, visto che continueremo a fare parte di quelle istituzioni entro le quali ci troviamo ora, Unione Europea e istituzioni euro mediterranee in primis.

Dovrà essere una sovranità assoluta? Io credo di no. Credo che il principio di sovranità inteso in senso assoluto secondo la formula “superiorem non recognoscens” non sia più valido da lungo tempo, da quando gli Stati hanno rinunciato al proprio potere esclusivo cedendo quote della propria sovranità a vantaggio di istituzioni internazionali che meglio possono operare sulle grandi questioni del nostro tempo. Far parte dell’Unione Europea comporta vantaggi e limiti, opportunità e vincoli per Stati grandi e piccoli. La governance europea è un complesso, a volte farraginoso e sostanzialmente dirigistico, sistema entro il quale Stati, Regioni, Comuni, Università, organizzazioni sociali e di categoria sono chiamati a operare e sono tenuti a fare i conti. L’eurozona ha creato di fatto una situazione nella quale il potere dei singoli Stati si è di molto affievolito. La crisi economica della Grecia mostra che, a fronte degli aiuti finanziari necessari per evitare la bancarotta, la BCE sta imponendo a questo paese un regime di amministrazione controllata, praticamente quasi la rinuncia alla propria sovranità; e già si prospetta la stessa sorte per l’Irlanda, il Portogallo, la Spagna, qualcuno ci aggiunge l’Italia. Credo che in questo quadro rivendicare una sovranità assoluta non sia nell’ordine delle cose, ma la piena sovranità delle nostre scelte nel quadro delle politiche europee ed euro mediterranee sì. Per esercitare pienamente la nostra potestà non serve spostare da Roma a Bruxelles il nostro sterile rivendicazionismo ma servirebbe effettivamente, come ben dice Guido Melis, inserirsi in modo attivo nella rete di relazioni istituzionali ed interistituzionali esistente, a partire da quella euro mediterranea.

L’Unione europea è certamente la casa entro la quale ridefinire la nostra aspirazione alla libertà. Ma come sta agendo l’UE nel contesto mondiale? Sono adeguate le sue istituzioni? C’è una governance realmente condivisa? Credo che anche su queste questioni ci compete come sardi di esprimerci.

Sotto i nostri occhi stanno accadendo avvenimenti epocali dalle conseguenze imprevedibili. Siamo nel bel mezzo di una fase storica di transizione iniziata con il crollo dell’impero sovietico e la fine del bipolarismo. Si era pensato allora che il mondo fosse diventato unipolare e che la superpotenza americana fosse rimasto l’unico arbitro delle sorti del pianeta. A ventidue anni di distanza possiamo toccare con mano che così non è stato, ma ancor di più prevedere che così non sarà nell’immediato futuro.

Coll’eclissarsi del nemico storico, gli USA hanno potuto constatare la fragilità del sistema politico internazionale ed hanno dovuto affrontare praticamente da soli le emergenze internazionali in Asia come in Africa o in Europa: dal conflitto indo-pakistano a quello coreano; dal Medio Oriente alla crisi sudanese; dal perenne conflitto israelo-palestinese alla crisi dei Balcani.  Per giustificare sul piano interno gli ingenti finanziamenti al comparto militare necessari per  ragioni geopolitiche ed economiche gli USA hanno dovuto inventarsi un nuovo nemico: il terrorismo Islamico contro cui lanciare la strategia della guerra preventiva: gli Stati canaglia, l’Afghanistan, l’Iraq, l’Iran…

Nel far ciò hanno dovuto rafforzare il blocco dei paesi islamici moderati, foraggiandone regimi traballanti, incoraggiare il ruolo militare regionale di Israele, scoraggiare e boicottare i tentativi, per la verità timidi e privi di respiro, dell’UE di costruire un nuovo ordine economico- monetario (oggi fondato sul dollaro) tra un cartello di paesi produttori (in primis Iran, Venezuela, Messico, Russia) e paesi fruitori (UE e Cina su tutti).

E’ appena il caso di ricordare che per gli USA è vitale che le transazioni internazionali avvengano utilizzando il dollaro poiché questo sistema rappresenta la moderna forma di sfruttamento coloniale, essendo il governo di questa moneta interamente nelle mani della Federal Reserve. Non a caso qualcuno ha parlato di “inflazione totale” come ultima arma nelle mani del governo degli USA per evitare il declino economico e contrastare lo strapotere della Cina che detiene una grossa quantità del poderoso debito pubblico americano.

In questo scenario, nel quale nuovi colossi economici stanno conquistando le più redditizie fette di mercato (la Cina con i cinque dragoni asiatici, Brasile e Messico), l’Europa mostra tutta la sua fragilità. Ad eccezione della Germania, l’Europa è nel tunnel di una crisi strutturale di non breve corso. Anche qui si aprono scenari non previsti e non prevedibili. La solidarietà, la condivisione, la faticosa ricerca di un divenire comune potrebbero cedere il passo a favore di strategie di disunione: mai come oggi il progetto di Unione Europea è in crisi. Si tratta di una crisi di lungo corso che ha le sue radici nell’indecisione, nella mancanza di coraggio, nell’assenza di una politica estera condivisa, nell’affrettato allargamento della UE che ha accresciuto i problemi politici ed istituzionali ereditati dalla vecchia Unione. Quello che è stato definito “un gigante economico privo di una testa politica” rischia di diventare un pachiderma economico senza più anima.

Su tutte le questioni internazionali l’Ue è stata assente e divisa, più esattamente assente perché divisa: Balcani, Afghanistan, guerra israelo-palestinese, Iraq. Spaventata dall’onda migratoria e dal pericolo terrorista, l’UE ha finito per svendere i principi e gli accordi sottoscritti con la Conferenza di Barcellona del 1995 per ripiegare su più flessibili e, si credeva, più funzionali accordi bilaterali. E’ questo il senso del passaggio dallo strumento della PEM (Politiche euro mediterranee) che prefiguravano una politica globale per l’area mediterranea fondata su accordi multilaterali condivisi, sulla sicurezza, il co-sviluppo e il partenariato, allo strumento della PEV ( Politica europea di vicinato) che prevede la creazione di una zona di sicurezza, stabilità, prosperità nell’area a ridosso dei confini dell’Unione Europea. Questo strumento, inizialmente (2003) rivolto a quei paesi dell’est europeo rimasti fuori dall’Unione (Ucraina, Bielorussia, Moldavia, Armenia, Azerbaigian, Georgia) è stato esteso nel 2007 ai paesi mediterranei  ( Algeria, Egitto, Giordania, Israele, Libano, Marocco, Palestina, Siria, Tunisia) con il varo dell’ENPI che avvia un processo transfrontaliero con programmazione pluriennale secondo i principi della responsabilità condivisa, della differenziazione e della condizionalità.

Al di là del burocratese l’UE è passata da una strategia globale, la PEM (Dichiarazione di Barcellona, Area di libero scambio, cooperazione multilaterale, definizione di Area Mediterranea come Regione con una governance condivisa) alla PEV che ha trasformato la cooperazione euro mediterranea in una relazione fondata su rapporti bilaterali non impegnativi rispetto ad un progetto comune. Come è noto la Sardegna è diventata con la Giunta Soru l’Autorità d’ambito per la gestione del programma europeo ENPI ma nessuna ricaduta positiva si è verificata né nella sponda sud del Mediterraneo né in Sardegna.

Ad accrescere la confusione il presidente francese Sarkozy, nel 2007 presidente di turno della UE, insoddisfatto per la stagnazione delle relazioni euromediterranee ha imposto con la dichiarazione di Parigi la nascita dell’UpM (Unione per il Mediterraneo) cui aderiscono 43 paesi: i paesi membri della UE e quelli che si affacciano sul Mediterraneo tranne la Libia. La sede dell’UpM è Barcellona. Varato nel 2009 non è ancora chiaro se l’UpM si propone di rilanciare la Dichiarazione di Barcellona (che non ha realizzato gli obiettivi che si era prefissa nel 1995) o se sia un’iniziativa estemporanea del presidente francese in crisi di consensi e alla ricerca di una visibilità internazionale. Per ora nulla è successo.

Anzi è successo il finimondo. Perché dall’Algeria alla Tunisia, dall’Egitto alla Libia, dal Bahrein al Libano e alla Siria assistiamo ad un ribollire di rivolte popolari sfociate in alcuni casi in autentiche rivoluzioni. Quei regimi traballanti ai quali gli USA non sono più in grado di garantire sostegno economico e ai quali la UE, mossa esclusivamente da problemi di sua sicurezza e da un approccio mercantilistico, non è stata in grado di fornire risposte progettuali sono implosi facendo emergere tutte le contraddizioni derivanti da una politica di dipendenza.

Ciò che questi popoli chiedono è una politica di indipendenza, quell’indipendenza che con il processo di decolonizzazione, avvenuto nel secondo dopoguerra, non sono riusciti ad ottenere nella sostanza. Ciò che da allora è mancato è un processo di stabilizzazione del Mediterraneo capace di disegnare nuovi scenari di un ordine politico ed economico fondati sul co-sviluppo, sulla reciproca sicurezza e sulla comune prosperità. Il Mediterraneo è stato invece terreno di scontro, prima della contesa tra le due superpotenze, poi della dissennata politica di divisione ed aggressione dell’amministrazione Bush su cui è andata ad infrangersi, impotente, la strategia della UE.

E’ chiaro che le politiche bilaterali tra UE e singoli paesi del Mediterraneo, gestite tra l’altro in terra africana da classi dirigenti corrotte e prive di consenso popolare, non bastano più. Nasce da qui la protesta, la rabbia ma anche la proposta di un nuovo corso che vede protagonisti i giovani dei paesi del Maghreb e del Mashrak, per ora manifestatesi solo in quegli Stati non governati da dinastie regnanti, ma che presto potrebbero estendersi anche in Marocco, Giordania e nella penisola arabica.

Quali siano gli sbocchi di queste rivolte non è prevedibile, che esse ci riguardano direttamente, non solo come Europa, ma come Sardegna appare invece chiaro. E’ chiaro che non possiamo continuare a stare al mondo così, senza un’analisi di ciò che sta accadendo attorno a noi, senza una strategia che non sia solo quella di rivendicare l’Indipendenza della Sardegna come potenziale Stato membro della UE. Vogliamo iniziare a parlare dei limiti delle politiche della UE? Della sua politica invasiva che toglie spazi di governo e democrazia alle comunità più piccole al suo interno? Del principio di sussidiarietà applicato secondo criteri politici, cioè a senso unico a favore delle Istituzioni centrali dell’Europa? Di una nuova governance euro mediterranea capace di esaltare i protagonismi e la forza democratica delle comunità?

Sulla sponda sud del Mediterraneo stanno emergendo nuovi soggetti politici, nuovi interlocutori ai quali non possiamo riproporre eternamente solo logiche mercantili, ma con i quali può nascere una riflessione comune nella ricerca di nuovi orizzonti di convivenza. I temi della decrescita,  di economie fondate sullo scambio e non solo sul danaro, sulla reciprocità, condivisione sono i temi dell’oggi. Se la Sardegna ha un progetto è ora che lo tiri fuori.

In tutta franchezza penso che la logica che ha sotteso finora le politiche euro mediterranee, quella basata sulla interdipendenza reciproca, abbia fatto il suo tempo. L’interdipendenza è un concetto che suppone una relazione tra pari, ma così non è mai stato e di ciò i nuovi protagonisti delle rivoluzioni in nord Africa iniziano a trarne delle conclusioni. Mi pare che non sia in gioco la sostituzione di un dittatore con un altro, magari più presentabile. L’UE cerca nuovi interlocutori politici affidabili con cui negoziare per attuare politiche mercantili e di contenimento dei flussi migratori. Ma ciò che sta emergendo da questi paesi è una forte richiesta di cooperazione tra pari che ponga al primo posto politiche di indipendenza economica e di redistribuzione della ricchezza mondiale. E’ una sfida che la Sardegna può raccogliere.

Nell’ambito della cooperazione decentralizzata già oggi parzialmente operante tra Organizzazioni Non Governative, Università, Città, Regioni, nazioni senza stato, è possibile sperimentare partnership nuove. La Sardegna può essere un laboratorio nel quale si pratichi una transizione da politiche di interdipendenza a politiche di inter-indipendenza.

Sarebbe l’inizio di una nuova stagione politica capace di dare prospettive e respiro internazionale alla nostra aspirazione alla libertà e al tempo stesso di fornire risposte alla domanda che emerge, forse ancora confusamente, dai movimenti di rivolta nella sponda sud e sud-est del Mediterraneo.

 

 

 

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    3 Comments to “L’indipendentismo è un progetto di destra o di sinistra? L’indipendentismo è un movimento di protesta o di proposta? L’aspirazione all’’indipendenza è un’ipotesi legittima? E’ realistica? E’ conveniente per i sardi? Come va adeguatamente pensato il futuro della Sardegna?”

    1. By Frantziscu, 3 luglio 2011 @ 08:05

      Ciao Gianni, è sempre un piacere leggerti. :)

    2. By Bomboi Adriano, 26 giugno 2011 @ 22:56

      Concordo sull’impianto dell’argomentazione fornita da Gianni Marilotti, chiunque del resto abbia una conoscenza politologica di terminologie come ad esempio quella del Nazionalismo, è ben conscio della natura polimorfe che essa assume nella realtà. Va da se l’automatica credibilità che contraddistingue la visione del Gellner quando sostiene che è il nazionalismo a edificare e sostenere il concetto di nazione e non l’opposto. Sia che esso si basi su elementi preesistenti o totalmente inventati.

      Ovviamente il non-nazionalismo non può esistere se non come mera etichetta propagandistica, ma bisogna capire che in Sardegna si tratta di un’etichetta nata in un preciso circuito politico e con motivazioni dettate da una critica al complesso dell’indipendentismo imperante tra il 2000 ed il 2005 (al periodo della scissione di SNI con la nascita di IRS). L’etichetta del non-nazionalismo fu sostenuta dalla nostra associazione attraverso un provocatorio prototipo di partito indipendentista presentato online oltre 6 anni fa: http://www.urn-indipendentzia.com/URN%20Area%20Progressisti.html Non vi era alla base alcun serio impianto concettuale, né politologico, tantomeno pratico. Ma c’era semplicemente l’esigenza di combattere l’etnonazionalismo fino ad allora imperante e che, assieme alla catastrofica dualizzazione dell’indipendentismo contro l’autonomismo, aveva consolidato per diversi anni un indipendentismo incapace di osservare un percorso strategico e graduale, che fosse inoltre libero dal settarismo ideologico che impediva ogni forma di collaborazione politica all’interno del nazionalismo Sardo (tra un indipendentismo tout court appunto, e l’autonomismo. Nella fattispecie il sardismo dell’ultimo decennio). E’ stata la IRS di Sedda e soci purtroppo in tale contesto a consolidare questa forma di settarismo, incrementando l’antisardismo e l’antiautonomismo già sedimentato nel ’900 e negli ex movimenti indipendentisti di matrice marxista (pensiamo infatti al PSIN che si evolverà in SNI).
      E’ contro questa dinamiche che nasce da un insieme di privati U.R.N. Sardinnya, con il semplice obiettivo di apportare a questa realtà il cosidetto nazionalismo civico, presente da tempo nel mondo anglossasone, detto anche liberal-nazionalismo. Non può essere pertanto un nazionalismo costituzionale, alla Dahrendorf e neppure alla Habermas, in quanto non si può creare un simile patto con una popolazione che nella sua maggioranza non ha ancora consolidati i concetti di popolo e soprattutto di nazione. Ciò nonostante è stata la critica a fornire al disordinato nazionalismo sardo un imprinting che oggi si sta evolvendo sempre più verso una più efficace formula sovranista (come da sempre era già stato sostenuto da vari intellettuali, tra cui Mario Carboni e Gianfranco Pintore). Negli ultimi 6 anni così, più che verso il sardismo, come U.R.N. Sardinnya ci siamo concentrati nella critica riformistica verso l’area di IRS e secondariamente di SNI, al fine di far passare concetti noti (ma non scontati in tale ambito fino a pochi anni fa) come l’europeismo; la necesità di una comunicazione agile e credibile, ma anche la convinta dissoluzione di alcuni paletti che in precedenza avevano impedito a diversi Sardi di avvicinarsi a tali movimenti (ad esempio noi siamo composti anche da militari Sardi, qualcosa che tutt’ora rimane impensabile tra i luoghi comuni dei movimenti indipendentisti post-marxisti tendenzialmente antisardisti).
      Fu con tali presupposti che purtroppo IRS prese a modello il non-nazionalismo: se da un lato si è aperta sempre più con convinzione ad una visione solidaristica e non etno-nazionalista della nazione, per contro, aveva inasprito il settarismo, generando una nuova forma di nazionalismo che è giunto persino a dividersi sulle bandiere (ad opera di Franciscu Sedda, ponendo l’albero giudicale in contrapposizione alla simbologia dei 4 Mori).
      Come naturale conseguenza a questa dinamica abbiamo dovuto orientare la nostra critica verso tale ambiente incrementandola e sostenendo apertamente una impostazione liberal-nazionalista, che oggi a quanto pare sembra interessare anche a quanti in passato non hanno esitato a ricoprirci di insulti per tali idee. Noi riteniamo che si siano persi oltre 10 anni sul nulla, perdendo di vista il vero obiettivo, che è il conseguimento di riforme istituzionali.

      La grande sfida del presente non è quella pertanto di sapere se sia possibile o meno l’indipendenza, né quale sia la forma più idonea di sovranità perseguibile, ma quello di capire che qualsiasi proposta istituzionale venga fatta, questa potrà necessariamente concretizzarsi solo a seguito di radicali riforme presso l’indipendentismo sardo, la cui arretratezza ideologica e la sua frantumazione non consentono l’avvio di un percorso sovranista che non deve necessariamente concludersi in più fasi con l’indipendenza (sebbene come indipendentisti si aspiri a quello), perché sarà solo un referendum popolare a stabilirlo, ma solo a seguito di riforme istituzionali e sociali (fisco, scuola, ecc) che oggi non siamo in grado di effettuare con tali movimenti. Da quì la necessità di sostenere sempre più l’idea sempreverde di un Partito Nazionale Sardo, che a differenza del nazionalismo civico anglosassone tuttavia non dimentichi lo start-up che in Sardegna ha consentito la nascita di un fermento politico autonomista e indipendentista: la lingua ma anche la cultura sarda. E’ questo l’unico work in progress che ci deve interessare, perché ormai che un territorio per emergere debba superare l’intermediazione di uno Stato-nazione è ovvio, tanto quanto è ovvio che una maggiore sovranità vada ad intersecarsi con le sovrastrutture della comunità internazionale (BCE, ONU, ecc).
      Naturalmente la Fondazione Sardinia ha da sempre avuto il merito di porre in relazione le varie componenti dell’indipendentismo Sardo ma anche l’analisi dei fenomeni che hanno portato alla nascita di questi fenomeni. E finalmente è arrivata nel posto che ha consentito alla nuova generazione indipendentista di informarsi e far crescere in tempo reale la propria proposta politica nell’ultimo decennio: internet.
      Si tratta di un lavoro importante il vostro che mi auguro venga sempre portato avanti, perché se oggi si cresce, non lo si deve al silenzio od al noto leaderismo, ma al confronto ed allo scambio di idee, anche sul piano virtuale. Si tratta di una impostazione evidentemente liberale ma che in Sardegna abbiamo spesso colpevolmente messo in ombra.
      Grazie.

      http://www.sanatzione.eu

      • By Gianni Marilotti, 28 giugno 2011 @ 13:50

        Caro Adriano Bomboi, mi pare che nel tuo commento ci sia una condivisione e un arricchimento degli argomenti da me presentati. Concordo pienamente con te sull’esigenza di una più generale unità e condivisione del mondo dell’indipendentismo entro il quale il dibattito non è così arretrato come dici; anzi nel panorama sardo, e non solo, è uno dei più vivaci. Tuttavia, hai ragione nel dire che ancora non basta data l’urgenza dei tempi. E’ vero che nel mio intervento dico anche cose ovvie, ma precisare l’ovvio a volte è utile, e comonque l’ho fatto soprattutto per fare chiarezza in me stesso senza alcun’altra pretesa. Grazie, infine, per il tuo prezioso commento.