La nascita dell’idea autonomistica nel fango delle trincee, di Salvatore Cubeddu
Si tratta della relazione tenuta ieri al convegno Emilio Lussu e la bandiera dei Quattro Mori, Selargius, 16/17 ottobre 2015, h 9.00 – Aula consiliare.
n°4. documenti politici su SARDEGNA e … dintorni. Ogni sabato questo sito mette a disposizione documenti del presente e del passato utili per l’operosa attività politica dell’oggi.
Non so come si chiamasse, da quale città italiana del Nord venisse, so che siamo proprio all’inizio del XX° secolo. E so dove andava la prima automobile di cui si sa che ha attraversato per prima la Sardegna: verso Cagliari, da dove sarebbe stata imbarcata, dopo essere stata ammirata nei numerosi ‘corso Italia’ che la Carlo Felice attraversava nei paesi, dopo essere stata accolta da popolazioni curiose e, in Ponte Mannu ad Oristano, dalle file delle scolaresche che il grande evento aveva fatto uscire dalle aule.
Era il progresso che arrivava, meglio si annunciava, con il rombo del motore a scoppio. Veniva dal Nord, dove trent’anni di protezionismo economico ed investimenti nel triangolo industriale avevano portato un certo benessere. Quello che non c’era nel Mezzogiorno italiano e soprattutto in Sardegna, colpiti entrambi dalla penalizzazione che quel protezionismo aveva imposto alla produzione agricola proibendone le esportazioni.
Forse non potremmo parlare di miseria, ma il confronto con il Centro-Nord, così come veniva osservato dai nostri giovani di leva, risultava impressionante. La Sardegna era povera e coperta di disprezzo, come spesso succede ai poveri. Gli anni successivi alla fusione perfetta con il Piemonte e all’unità d’Italia erano stati densi di gravi eventi, soprattutto per i paesi (e la Sardegna era – è? – la terra dei 370 paesi!). Gli ademprivi e la legge delle chiudende avevano privato i contadini poveri della coltivazione nelle terre comuni, la filossera aveva distrutto le viti, banditismo e rivolta sociale (moti de su connottu e il 1906 cagliaritano, quando il governo Sonnino inviò a Cagliari 8000uomini di rinforzo – carabinieri, fanteria, bersaglieri e persino una squadra navale) avevano amareggiato lo spirito pubblico. La malaria continuava da secoli ad imperversare. Le commissioni parlamentari d’inchiesta avevano sì spinto una parte della classe dirigente nella direzione della legislazione speciale, ma con scarsi e lenti risultati, comunque accompagnandosi allo stigma della razza tarata per natura: i Sardi erano costituzionalmente tarati e delinquenti, basta misurarne il cranio …
Sì, allora non avevamo una nostra bandiera. Ancora la bandiera dei 4 mori non c’era. O, meglio, c’era come stemma, veniva riprodotto nei timbri e nei sigilli ufficiali di Stati che qui comandavano ma avevano sede altrove innalzando altre bandiere, anche se lo stavano scolpendo, con la benda sulle fronti invece che sugli occhi nei fregi del nuovo comune di Cagliari, inaugurato proprio nel 1911. Non c’era la bandiera sarda, se per bandiera intendiamo qualcosa che non un semplice tessuto colorato attaccato per estremità a una qualche pertica rigida. Se significa chi sei e cosa vuoi, per un popolo. Segno di rispetto e di un tuo posto non vergognoso nella storia, tu con gli altri popoli. Quando l’altro da te ti individua e ti riconosce – sì, sei tu! -, allora quel panno ha un senso ed esprime un significato: che stia faticando in una strada del Giro, che la issi in un grande happening, che la sventoli alla tv ogni volta che il mondo guarda. Quelli sono coloro la cui bandiera è dei quattro mori.
In uno straordinario parallelismo anche per i Sardi, il bisogno della bandiera ha a che vedere con la vita e con la morte. Così, La bandiera francese aveva sostituito i gigli del re nel fuoco della rivoluzione. Come per i giovani carbonari italiani, irredentisti, non compresi e perseguitati, che morivano nelle spiagge come Pisacane, si agitavano in patria o sopravvivevano esuli all’estero, pieni di illusioni, come Mazzini, o sciabolavano e sparavano come Garibaldi. Prima che noi innalzassimo una nostra bandiera i Sardi furono essenziali all’unità italiana grazie ai soldi delle loro miniere e ai durissimi prelievi fiscali, e soprattutto al sangue dei nostri giovani arruolati a partire dal 1855 nell’esercito sardo che iniziò il proprio massacro nelle tre guerre di indipendenza e arrivarono, come tutti, impreparati alla quarta: la prima guerra mondiale, partita in Italia con un anno di ritardo il 24 maggio 1915, quando l’ ‘esercito marciava per raggiunger la frontiera, per fare contro il nemico una barriera’.
Nel 1914 la Sardegna contava 870.077 abitanti: i mobilitati dal 1915 al 1918 furono 98.142, 1’11,8%, cioè, della popolazione complessiva. I caduti e i dispersi furono più di 17.000, il 17% circa dei richiamati alle armi, il 2% della popolazione’. (GIROLAMO SOTGIU)
I molti che vennero chiamati e imbarcati non sapevano e non capivano dove si andasse e perché. I giovani diplomati e laureati, soprattutto cittadini, erano interventisti, per amore patrio: La Scuola proponeva – insieme al piccolo tamburino sardo e all’eroica stampella di Enrico Toti, l’irredentismo per Trento e Trieste, la rinuncia a Nizza e alla Corsica e.. forse alla Tunisia presa dalla Francia. Il nemico restava l’Austria. Ma dov’erano Trento e Trieste?
“Le fonti ufficiali assegnano alla Sardegna 13.602 caduti nella Grande Guerra, cioè 138,6 morti su ogni 1000 sardi chiamati alle anni, una cifra di gran lunga superiore alla media nazionale, 104,9. Le perdite della sola Brigata Sassari, invece, ammonterebbero a 140-150 ufficiali e 1.600-2.000 militari di truppa morti, cui vanno aggiunti 400 feriti, mutilati o dispersi tra i militari di truppa …
Quello che colpisce … è che, mentre solo un sardo su sei è, alla fine, caduto nelle file della “Sassari”, la Grande Guerra è – nella memoria dei sardi, la guerra della “Sassari”, e solo l’immagine degli “intrepidi sardi della Brigata Sassari” sembra condensare, nell’immaginazione collettiva isolana, l’eco, la furia, l’eroismo e le stragi di quella guerra Questa identificazione – che è dunque, sul piano statistico, frutto di una distorsione conoscitiva -, d’una emozione popolare, d’un “mito” regionale – nasce in realtà dalla ‘specificità’ della Brigata, e cioè dal fatto che, composta posta quasi esclusivamente di sardi, essa fu veramente un pezzo di Sardegna trasferito – uomini, lingua, codici e valori – sul Carso e sull’ Altipiano di Asiago, sul Piave e sui Sette Comuni, sicchè essa sola riassume emblematicamente, agli occhi dei sardi, l’esperienza della guerra?’. (MANLIO BRIGAGLIA)
I Sardi che si coprirono di valore furono tanti. Come sempre, la Sardegna ha prodotto soldati come si trattasse della Svizzera del Mediterraneo: furono truppe scelte fin dai tempi del faraone Ramses III nel XIII° secolo, collaborarono da mercenari con il battaglione sacro dei Fenici e dei Punici, con i Bizantini ed Papi prima del Mille, i 400 di Lepanto ci riempirono d’orgoglio ascoltando la poesia di D’Annunzio. Più di un’emozione ancora ce la fanno provare i Dimonios. Pare che qualche generale a Roma minacci ora di scioglierli se manifestassimo troppe pretese con i campi di Teulada, Capo Frasca o Perdasdegu. Sanno che siamo bravi soldati, per le guerre altrui, meno per le nostre.
Sono passati appena cinque mesi dall’arrivo in trincea e arriva dal Supremo Comando l’insolito e inaspettato riconoscimento:
Sul Carso è continuata ieri l’azione. Per tutto il giorno l’artiglieria nemica concentrò violento ed ininterrotto fuoco di pezzi di ogni calibro sul trinceramento delle Frasche, a fine di snidare le nostre fanterie. Gli intrepidi sardi della Brigata Sassari resistettero, però, saldamente sulle conquistate posizioni e con ammirevole slancio espugnarono altro vicino importante trinceramento detto dei Razzi. Fecero al nemico 278 prigionieri dei quali 11ufficiali. IL COMUNICATO DI CADORNA, «Bollettino di guerra» n. 173, 15 novembre 1915, ore 18.
Dalla polvere all’altare! L’orgoglio si estende. Tra i soldati in trincea e in licenza, sui giornali. Dai soldati al popolo, alla Sardegna. La Brigata Sassari, eroica, quale falange irresistibile. Si chiamano i sardi dagli altri reggimenti. È un onore esserne parte, si fa domanda per entrarci.
“Mai risparmiata, decimata e sempre ricostituita, i bollettini di guerra continuarono a celebrarne le vittoriose azioni: Monte Fior, Monte Castelgomberto, Casera Zebio, Bainsizza, Col del Rosso, Col d’Echele, Piave; sempre ‘intrepidi’, ‘valorosi’, incrollabili’, ecc. Fu un’epopea di eroismo e di sangue, rievocata dalla motivazione finale per le quattro medaglie d’oro ai due reggimenti: “Espressione purissima delle forti virtù della intrepida gente di Sardegna diedero il più largo contributo di eroismo alla gloria dell’esercito ed alla causa della patria, dovunque vi furono sacrifici da compiere e sangue da versare” (RAIMONDO CARTA RASPI, Storia della Sardegna, pagg. 903-904).
Amore e riconoscenza dell’Italia per i Sardi e la Sardegna, dunque. Elogi e promesse ininterrotti nel corso della guerra. Una gloria che non sfamava la nostra gente, come non li nutrivano le medaglie e le innumerevoli croci di guerra. Ma faceva comunque piacere. Faceva sperare, nutriva attese di un nuovo approccio alla questione sarda.
Le trincee fecero scoprire i Sardi a se stessi, oltre le differenti provenienze, gli accenti dialettali distinti, i conflitti tra zone e paesi, le diversità di mestieri e di opinioni. Mirabile fu il rapporto che si instaurò tra gli ufficiali di complemento e la truppa. Comprensione, stima, solidarietà.
Apprezzamenti che costruirono ciò che più è difficile per un popolo oppresso, il riconoscersi in una classe dirigente stimabile e degna di fiducia. Tra i tanti, quei soldati sperimentarono un capo, il capitano Lussu.
Il primo giorno della guerra lo ha trovato alla frontiera, l’ultimo in prima linea dopo sessanta fatti d’arme sanguinosi, più vecchio di spirito, dolorante di tragiche esperienze, ma con la stessa calma; con la stessa virile risoluzione del primo giorno.
La sua storia è la storia della Brigata.
Non è mancato a un solo fatto d’armi, è balzato dalle trincee ogni volta che i soldati hanno dovuto valicare le trincee. Ferito dolorosamente non ha voluto godere di un sol giorno di licenza per compiere tutto intero il suo dovere. La morte non l ‘ha voluto per un capriccio del caso. Quest’uomo che con ciglio asciutto ha visto cadere d’intorno i compagni più cari, non è un sanguinario. Ha sofferto in silenzio tutto lo strazio di migliaia di uomini della sua razza che sono caduti per il tricolore e lo stendardo crociato. La sua anima gentile di giovane colto si manifestava nei brevi intervalli di calma in cui i superstiti ancora trasognati si riconoscevano e celebravano la loro amicizia cementata nel folle giuoco della guerra. Allora Emilio Lussu faceva conoscere la sua levatura spirituale, la sua visione profonda e qualche volta ironica della vita, la vastità e serietà della cultura.
Ma il suo criterio, l’equilibrio della facoltà intellettuali, il coraggio nell’assumere responsabilità non gli venivano mai meno, neanche nelle ore tragiche della battaglia e della morte imminente. Quest’uomo sapeva dire la sua parola ferma e risoluta ai superiori quando eseguire letteralmente un ordine poteva significare uno spaventoso inutile massacro; quest’uomo sapeva far eseguire un terribile ordine all’amico suo più caro quando l’obbedire poteva significare il raggiungimento del compito prefisso. La morte non l’ha voluto! Ad essa egli si era votato, pur comprendendo interamente il valore della gioia della vita; ma questo giovane pieno di baldanza e di fiducia nel fatale trionfo dei suoi ideali, è uscito da quattro anni di guerra un uomo maturo, dalla ferrea volontà, degno di guidare un intiero popolo. Chi lo ha visto nella penultima battaglia del Piave, racconta le sue gesta come quelle di un eroe da mito.
In piedi, dopo sette notti di veglia, egli lanciò il grido per il contrattacco finale. Procedeva tra le raffiche delle mitragliatrici avversarie, battendo a terra un’alta mazza, la tracolla carica di bombe, intonando una canzone alla nostra maniera. Tutta la brigata entusiasta lo seguiva, gli artiglieri, riprendendo i loro pezzi gridavano: “Viva la Sardegna”!
I biondi straccioni terrorizzati prendevano in disordine la via della fuga.” (CAMILLO BELLIENI, Emilio Lussu, ed. Il Nuraghe, 1924)
Il dopo guerra sardo fu diverso da quello italiano e più vicino all’europeo.
Lo diciamo en passant. L’insieme della storia sarda non coincide con l’italiana, solo la interseca, più o meno, nei diversi periodi. Conseguenza: o la studiamo e la scriviamo noi, o nessuno la fa al nostro posto. Questo per la historia in quanto res gestae. Nel senso di historia rerum gestarum in Sardegna c’è, ancora e sempre lo spazio per costruire una grande vicenda collettiva. Es. Alitalia dimentica di inserire l’isola nella sua carta geografica italiana, una settimana fa; sabato scorso, il Corriere dimentica la Regione sarda elencando quelle italiane.
Il dopoguerra sardo conobbe solo un debole riflesso delle ripercussioni createsi nel Continente (organizzazione dei combattenti, tensioni sociali, scioperi, occupazione delle fabbriche, nascita del partito comunista e del partito fascista … ), e queste assunsero caratteristiche proprie e differenti sviluppi. Analogo discorso per gli sconvolgimenti sociali, le agitazioni ed i disordini e le reazioni. La Sardegna aveva sofferto più di ogni altra regione le peggiori conseguenze della guerra, si pensi all’assenza degli uomini dal lavoro dei campi e dall’allevamento per più di quattro anni e al contingentamento dei prodotti dell’allevamento e dell’agricoltura. Era anzi prostrata, mentre le regioni del nord avevano tratto immensi profitti dall’economia di guerra (industria militare ….).
L’organizzazione dei reduci, iniziata da Sassari e Nuoro in funzione assistenziale per i mutilati e invalidi e di pensioni alle famiglie, si sposta ai temi della cooperazione per i giovani senza terra.
…… lo scrivente, comprendendo il significato storico del movimento politico che s’era iniziato nell’Isola, con tutte le sue forze, a Cagliari e a Sassari, si battè perché alla testa dei combattenti sardi fossero dei capi degni, degli uomini di sicura fede, dei sardisti che non avrebbero sfruttato i loro commilitoni, e fosse dato il bando alle vecchie e nuove maschere della democrazia e delliberalismo. Bisogna che ritorni Emilio Lussu in Sardegna. È questo l’uomo di ferro a noi necessario. Ripetevo ciò nel dicembre 1918 ad amici ex-combattenti cagliaritani, esitanti ad organizzare un movimento politico contro le vecchie cricche, preoccupati di perdere la generale simpatia che allora i reduci ispiravano.
Camillo Bellieni scrive di Emilio Lussu nel 1924, quando il fascismo è già operante.
Il programma si fa più generale e si muove verso gli interessi della Sardegna, denunciando le storiche ingiustizie e il malgoverno subito nel tempo. Umberto Cao, avvocato e professore di diritto aveva pubblicato già nel maggio 1918 l’opuscolo Per l’autonomia. Egidio Pilia, l’anno appresso, scrive l’Autonomia: basi, limiti e forme. In breve si pensa e si attua quanto fino a poco tempo addietro non si osava: il diritto della Sardegna ad autodeterminarsi. Il concetto di auto-nome, auto – decisione, determinazione, si estende e si allarga, si concentra e si definisce. Il segmento di significato parte dal minimo (decentramento amministrativo, come già accettato anche dal Partito Popolare di don Sturzo agli inizi del scolo) al più esteso federalismo da applicare all’Italia attraverso l’attivizzazione di partiti regionali ad egemonia combattentistica. L’autonomia veniva auspicata come base essenziale ai provvedimenti d’attuare, ch’erano: «sviluppo agricolo, cooperative agrarie e casearie, estensione delle reti ferroviarie, riscatto delle secondarie, aumento di nodi stradali e trasporti marittimi, costruzione di acquedotti e sistemazione dei porti, costruzione di bacini montani, lavori di bonifica, disciplinamento della emigrazione e sua limitazione grazie a concessioni di terreni demaniali ex ademprivili e latifondi, istituzione di banche popolari per distruggere le funeste conseguenze dell’usura, aumento delle scuole a carattere
professionistico ». L’elaborazione autonomistica matura nel collegarsi agli eventi passati, alle proteste contro la ‘perfetta fusione’ che stimolarono la riflessione di Giovanni Battista Tuveri sul federalismo in positivo rapporto con i contemporanei lombardi Cattaneo e Ferrari, agli eventi del triennio rivoluzionario settecentesco (1793 – 6) e alla vicenda angiojana, e via via, passando per i Giudicati fino alla civiltà nuragica.
Autonomia è per noi sardi, ed analogamente vogliamo per tutti gli italiani, rivendicazione della nostra individualità, continuazione di una tradizione di secoli, ricerca di una norma comune per l’azione futura di tutti i nati in Sardegna. Consapevolezza di noi stessi per inserirei consapevolmente nell’azione italiana. È quindi lavoro costante di organizzazione e di programma che non ha mai termine, risoluzione di problemi concreti, che imposta continuamente nuovi problemi concreti.
Autonomia nel senso etimologico e filosofico dell’accezione.
Dialettica dello spirito italiano e dello spirito umano. Quella che parve ristretta riforma di carattere amministrativo è invece problema morale nella sua integrale impostazione idealistica.
A chi chiede che Cosa intendiamo noi per autonomia della Sardegna noi risponderemo: autonomia è per noi completo trionfo dello spirito in Sardegna. È uccisione della mentalità provinciale, scopiazzatrice di modi e di forme d’oltre mare, è fiducia nella originalità del nostro operare, è conquista del nostro volere creativo. Completo possesso della nostra anima che da secoli ci sfugge e che di lontano ci appare come un oscuro simbolo egizio (relazione di CAMILLO BELLIENI AL 2° CONGRESSO DEL PSd’A, 30 gennaio 1922, primo direttore regionale dei combattenti e primo direttore-segretario del Partito sardo d’Azione nell’aprile del 1921). I,
Con la costituzione da parte degli ex-combattenti del proprio partito ‘nazionale’ abbiamo in Sardegna lo stesso fenomeno che si verifica in tutte le nazioni europee.
Senza queste premesse, non si comprende il movimento dei combattenti sardi nel dopo-guerra, che dette subito vita al Partito Sardo d’ Azione.
Non fu propriamente un movimento di reduci, come fu quello dei combattenti in tutta Italia. Fin dal primo momento, fu un generale movimento popolare, sociale e politico, oltre la cerchia dei combattenti. Fu il movimento dei contadini e dei pastori sardi. Perciò, in una xilografia di Mario Delitala, i quattro mori della bandiera dei combattenti, che fu poi la stessa del P.S,D’A. e che si ispirava all ‘emblema della Sardegna, erano sostituiti da quattro lavoratori: un pastore, un contadino, un pescatore e un minatore. Fu nell’Isola, un movimento universale, che cominciò col conquistare subito anche tutta quella gioventù che non aveva fatto a tempo a partecipare alla guerra, e creò la lotta politica, in tutti i centri, non escluso neppure il più piccolo, neppure i più sperduti stazzi della Gallura, e entrò anche nelle città LUSSU, La Brigata Sassari e il Partito Sardo d’Azione, Il Ponte 1951).
Il dopo guerra sardo si accosta in maniera singolare al fenomeno europeo dei popoli senza stato. I primi deputati eletti dl neonato partito sardo furono chiamati, nel 1921, ‘irlandisti’, poi ‘sardisti’ nel/dai colleghi nel parlamento italiano. L’Irlanda cattolica si ribellava all’Inghilterra anglicana, scontro istituzionale-sociale-religioso si unificavano. L’esercito inglese sparava nelle strade, i patrioti irlandesi morivano. L’indipendenza irlandese era parallela alla nostra richiesta di autonomia, di autonormazione. I dirigenti sardisti scrivevano il loro “Saluto ai fratelli della Catalogna”. La guerra nazionale dei Sardi giudicali contro i Catalano – Aragonesi era durata quasi 150 anni. Ma ora ognuno aveva da fare i conti con uno Stato che non consentiva l’esplicazione dei loro diritti. La fratellanza tra i due popoli iniziò allora e dura tuttora. E pure il problema. Quello che c’è interno/nell’avere una bandiera.