La fortuna di don Raffaele Piras, vescovo cattolico nel ponte Sardegna-Abruzzo, di Gianfranco Murtas
Domani sera a Quartucciu, presso la parrocchia di San Giorgio, si terranno cerimonie religiose e commemorative nel 150° della nascita (13 ottobre 1865) del vescovo Raffaele Piras, che del centro campidanese era originario. Ecco di seguito una riflessione sulla sua esperienza di vita e sulla sua testimonianza di uomo di Chiesa come si espresse in Sardegna, dove fu per lunghi anni canonico e vicario generale (a Cagliari), ed in Abruzzo, dove si trasferì nel 1906 quando papa Pio X lo promosse all’episcopato.
Il nome di don Raffaele Piras, quartucciaio vescovo di Atri e Penne nel Pescarese, dal 1906 al 1911, integra un fenomeno – bel fenomeno – di nostra gloria patria, di patria sarda. Dico fenomeno riferendomi evidentemente in primo luogo alla sua memoria – di generoso credente, di ecclesiastico dotto e attivo che ha lasciato molte e sicure tracce del suo passaggio –, ma anche per quanto si è saputo realizzare, attorno alla sua memoria, in Quartucciu, suo paese natale, con l’associazione che lo ha titolare, e con le iniziative che, con qualche frequenza suggerita dal calendario delle ricorrenze anniversarie o giubilari, ne onorano la testimonianza di vita e l’opera. Fra esse anche le monografie – in testa a tutte il libro-documento di Paola Cocco “Raffaele Piras storia di un vescovo”, uscito nel 1999, e già del 1970, autore il quasi centenario don Mario Piu, quartucciaio pure lui, “Mons. Raffaele Piras vescovo di Penne ed Atri : perché sempre vivo se ne conservi il ricordo” –, e anche i capitoli al presule riservati da Lucio Spiga nelle due edizioni de “Il mio paese” (1968, 1996). Ancora: i commenti rilasciati nel 2004 dal caro don Efisio Spettu, al tempo rettore del seminario maggiore regionale, sulle prime due (delle cinque complessive) lettere pastorali del suo grande compaesano e pubblicati in opuscolo, con il concorso del Municipio stesso di Quartucciu; nonché, andando in rapido regesto, l’articolo di Maria Bonaria Lai sull’Almanacco di Cagliari 2010 dal titolo “Intransigenza e tenerezza: un presule sardo tra Ottocento e Novecento”, che segue dopo molti anni la scheda ad nomen del can. Raimondo Bonu uscita nel secondo volume di “Scrittori sardi nati nel secolo XIX”.
Questo naturalmente si salda a quanto poi si è messo in campo, come il concorso letterario (poesia italiana e sarda) intitolato a Raffaele Piras, la cui prima edizione è stata quella, salvo errore, del 2000. E naturalmente tutt’attorno le manifestazioni convegnistiche (ad iniziare dal 1997, in modalità interregionale Sardegna-Abruzzo, con relazioni copiose e dotte, fra le quali segnalo quella del prof. Tonino Cabizzosu che nell’occasione ha lanciato l’idea felice di un centro studi intitolato al vescovo) o religiose, in Atri e Quartucciu, più direttamente legate al nome del presule, fino al trionfo del ritorno delle sue spoglie, l’11 ottobre 1998, per la tumulazione nella parrocchiale battesimale di San Giorgio.
Parentesi. Non so, al momento, se sia prevista, fra le benemerite iniziative dell’Associazione, la ristampa magari in anastatica – che riterrei molto opportuna, ma sempre con una introduzione di inquadramento storico e contenutistico – delle sue lettere pastorali e dei più significativi documenti del suo episcopato abruzzese come già dei precedenti uffici capitolari in Cagliari. Potrebbe essere una buona iniziativa, ad esempio, quella di riprodurre, un titolo ogni anno, i suoi lavori panegirici, o le lezioni scritturali, o come detto le pastorali, magari in abbinata quasi a delineare un percorso gemellare, preparatorio in Sardegna (il canonico), compiuto in Abruzzo (il vescovo).
E’ una fortuna meritata, questa dell’opera religiosa, teologica e pastorale, di don Raffaele Piras studiata e valorizzata da noi, nell’Isola, che ben si salda alla diligenza, ed ai meriti della diligenza, degli abruzzesi – storici, cultori della materia, compilatori ecclesiastici – che di tanto hanno anch’essi voluto fissare, negli archivi aperti (compresi quelli della rete), non nel buio dei musei inaccessibili, l’originalità. E s’intenda: l’originalità nella fedeltà anche culturale, potrebbe dirsi – ché si tratta di una personalità, quella del Piras, espressione del suo tempo –, quasi in logica di… format, cioè del modello ecclesiologico e di pedagogia religiosa, spirituale e devozionale, ancora poco mobile nei primi decenni del rivoluzionario (tecnologico e umanistico) Novecento.
Sono anche i tratti dello sfondo politico-culturale lato sensu che meriterebbe evidenziare, in primo luogo, esplorando o indagando il passaggio episcopale del monsignore quartucciaio: individuando intanto nella sua persona e nell’esercizio concreto della sua dignità ecclesiastica un vivido ponte di collegamento della Sardegna con l’Abruzzo, e dell’Abruzzo con la Sardegna, nella stagione in cui l’Italia millenaria, quella della lingua di Francesco d’Assisi e Dante e della condivisa religione pietosa, ancora faticava, in certi ambienti di Chiesa, ad essere accettata come ordinamento statuale e sistema di istituzioni liberali, nella separazione dei domini spirituale e temporale tradotti poi nella concretezza delle autonomie, da quella legislativa (magari in materia familiare/matrimoniale o scolastica) a quella amministrativa. Nel tempo contraddittorio ma certamente evolutivo di Giolitti presidente del Consiglio (tempo di conciliazione silenziosa, come fu chiamata, fra stop ad go, fino al Patto Gentiloni del 1913 pensato e speso in chiave antisocialista) e di Vittorio Emanuele III nei suoi primi anni di regno, dopo l’assassinio del padre. Nel tempo di papa Sarto, il papa prete sul soglio di Pietro, fermo nel rigore antimodernista e intransigente nello scontro dei princìpi, antilaicista – si ricordi la polemica del 1910 con Ernesto Nathan, sindaco della capitale e già gran maestro massonico, e si ricordi l’avversione dura alla legislazione religiosa (o irreligiosa) della Repubblica francese – ma anche pragmatico e paziente per quel tanto che gli parve interno all’opinabile, piegato egli sempre sui bisogni missionari nel mondo povero ed ignoto e quelli, nel più prossimo range, immediatamente catechetici del suo popolo.
Un ponte fra Sardegna e continente italiano. Quante volte s’è fatto riferimento alla presunta “colonizzazione” degli uffici ecclesiastici di vertice isolani da parte di figure provenienti da un establishment esterno ed estraneo… italiano! Nel giudizio liquidatorio un contributo importante, o un appiglio lo ha offerto la sequenza degli arcivescovi non sardi nella sede di Cagliari, dopo il mandato del Serci-Serra: da Balestra a Piovella, da Botto a Baggio, da Bonfiglioli a Canestri. Alberti arrivava, alla fine del 1987, dopo quasi novant’anni dalla morte, avvenuta nel 1900 – a ridosso di uno spinosissimo XX Settembre! –, del presule nuraminese. Ma s’è poi trattato davvero di “colonizzazione”?
Certo trovare motivi di smentita a quella tesi non significherebbe avallare passivamente le decisioni – tutte le decisioni – della Santa Sede a riguardo della/delle nostre comunità territoriali interne alla regione: decisioni peraltro non meritevoli di essere prese all’ingrosso, essendo ogni scelta bisognosa di una valutazione in proprio, così per l’archidiocesi leader di Cagliari come per le diocesi suffraganee (Iglesias, Nuoro, Ogliastra) o le altre province ecclesiastiche di Oristano-Ales e di Sassari-Alghero-Bosa-Ozieri-Tempio. E comunque resta da dire, e dimostrare, che a fronte di nomine, nelle apicali responsabilità diocesane, di personalità estranee alla socialità culturale isolana, non pochi sono stati i sardi inviati a guidare le Chiese locali del continente, in regioni povere come in regioni di più avanzati standard civili ed economici. Così lungo tutto il Novecento.
Non ho fatto ricerca mirata, ho fatto rapido riferimento soltanto alla memoria delle letture incidentalmente orientate alla materia. E ricorderei dei tempi più remoti, comunque del Novecento, i nomi del silanese Giorgio Maria Del Rio, vescovo di Locri-Gerace, in Calabria, dal 1907 al 1921, prima di essere trasferito rimpatriato nella metropolia di Oristano; dell’ozierese Salvatore Scanu, vescovo di San Marco Argentano e Bisignano, pure in Calabria, dal 1909 al 1932; del tresnuraghese Saturnino Peri, vescovo di Crotone dal 1909 al 1920 (prima di tornate in Sardegna, ad Iglesias); ricorderei i serdianesi Agostino Saba e Paolo Carta, vescovi rispettivamente di Nicotera e Tropea in Calabria e Foggia in Puglia, dal 1953 il primo e dal 1955 il secondo, prima di essere traslati in sequenza (1961, 1962) alla metropolia di Sassari; ricorderei ancora il bortigalese Antonio Angioni, ausiliare a Pisa (dal 1962) e padre conciliare, quindi vescovo di Pavia (dal 1968); il bonorvese Enea Selis, arcivescovo di Cosenza (dal 1971), dopo esser stato ausiliare e quindi amministratore apostolico ad Iglesias (dal 1964) assistente ecclesiastico generale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e vescovo ausiliare di Milano (1968-1969); o il marrubiese Giovanni Francesco Pala, vescovo di Cassano allo Ionio, in Calabria, dal 1984; o Carlo Urru, umbro di saldissime radici sarde, trasferito da Tempio Pausania (dov’era dal 1971) a Città di Castello (nel 1982); e Salvatore isgrò. sardo pure lui pur registrato in Sicilia, vescovo di Gravina Irsina in Lucania (dal 1975 al 1982, cioè fino al suo arrivo a Sassari, successore di don Carta). E dunque? Monsignor Raffaele Piras forse non è neppure l’apripista di questa santa missione dei “ponti“ relazionali che negano in radice, sul piano della pastorale religiosa, il nazionalitarismo, qualsiasi nazionalitarismo frazionista e politicamente reazionario, incapace di intercettare, sugli scenari della democrazia, ogni possibile appello dei valori universali.
Classe 1865, prete (dopo gli studi teologici al seminario maggiore di Genova) dal 1888, professore di storia ecclesiastica già appena 23enne, e di diritto canonico dal 1893, al Tridentino di Cagliari, è dottore in teologia dal 1889: un anno capitale, il 1889, per la Chiesa di Cagliari affidata all’arcivescovo Vincenzo Gregorio Berchialla – piemontese successore del piemontese Giovanni Antonio Balma e già del sassarese-bessudese Emanuele Marongiu Nurra –, che presiede un sinodo diocesano e combatte lo spirito bruniano in diffusione tanto più proprio a Cagliari, e per la città capoluogo stessa perché per questa significa l’esordio del cocchiano “L’Unione Sarda” nonché della trentennale sindacatura di Ottone Bacaredda. Direttore spirituale di vari gruppi di apostolato laicale(dalla Conferenza vincenziana all’Opera dell’adorazione perpetua e delle chiese povere) ed incaricato di importanti uffici clericali (come quello di esaminatore prosinodale ed assessore curiale), ottiene per concorso, nel 1896, il canonicato teologale del Capitolo metropolitano. Sono ormai gli anni, questi, dell’episcopato cagliaritano del Serci-Serra, un nuraminese che ha maturato le sue esperienze di presbitero per lungo tempo come presidente della prestigiosa collegiata di Sant’Eulalia, e poi di vescovo dapprima in Ogliastra (fra Tortolì e Lanusei) quindi nella metropolia di Oristano.
Un bel libro biografico sulla figura del Piras curato alcuni anni fa dalla menzionata Paola Cocco, con bello spoglio delle carte d’archivio e dell’emeroteca cattolica del tempo, dettaglia anche l’attività canonicale del sacerdote, prefigurando in essa – in quanto somma di esperienze di studio e di lavoro – la solidissima base della svolta episcopale del 1906. In testa a tutto le sue lezioni bibliche domenicali, impartite dal pergamo della cattedrale di Santa Maria. Tali lezioni saranno poi raccolte in volume, sotto il titolo “La Bibbia”, dedicato a monsignor Raimondo Ingheo, vescovo di Iglesias, e già docente di sacre scritture al collegio teologico in capo al Tridentino di Castello. Merita rilevare qui il suo indugio sul principio creazionista, e dunque avverso alla teoria evoluzionista comunque declinata, in linea con i suoi predecessori, fra i quali parte documentalmente rilevante aveva avuto, per vis predicatoria, soprattutto il Miglior: quel Francesco Miglior (che terribile sorte avrebbe avuto negli avvenire, folle in un manicomio campano), divenuto anche perito al Concilio Vaticano I in quanto consulente del vescovo di Brindisi, ed avversario del Barrago, pronunciatosi ripetutamente dalla cattedra universitaria nel 1869, proprio in materia di origine della vita.
A differenza del Miglior, peraltro, va rilevato che il Piras s’appella, nel sostegno della teoria creazionista contro quella darwiniana, non soltanto alle pagine bibliche ma anche alle posizioni di fior di scienziati i quali partecipano, tanto più negli ultimi decenni del secolo XIX, al dibattito complesso e contraddittorio che chiama in causa l’origine della umanità e la natura stessa degli umani. Non sono infatti passati invano tre decenni, quei diecimila giorni che dividono la predicazione del primo (tutta dottrinaria) da quella del secondo, mentre sono saliti di tono tutti gli argomenti polemici della composita area razionalista o positivista, irreligiosa e laicista che connota il nuovo tempo.
Divenuto preside del Collegio teologico al Tridentino di Cagliari e di questo poi (dal 1899) prorettore, ufficiale plurimansionario del Capitolo e omileta/ panegirista disputato dalle parrocchie urbane e foranee dell’archidiocesi, e anche di altre diocesi , pubblica, il Piras, nel 1900, un volumetto su “Il sacerdozio cattolico dall’aspetto religioso, morale, civile”. Si tratta di un testo che deve inserirsi nelle manifestazioni d’omaggio all’arcivescovo Paolo Maria Serci-Serra, stavolta per l’imminente cinquantesimo della sua ordinazione sacerdotale (circostanza così anche nella introduzione), dopo aver partecipato con altra pubblicazione, fra dottrina ed omaggio, alle iniziative per il XXV della consacrazione episcopale dello stesso presule (1872-1897). Allora dà alle stampe, infatti, il saggio “Il vescovo cattolico”.
Altre pubblicazioni si succedono in un breve volgere di tempo nel passaggio di decennio e di secolo (tanto sulla “Rivista mariana” quanto su “La Sardegna Cattolica” a direzione Sanjust ed in opuscolo, come i panegirici “Il laicato cattolico o le virtù del martire San Saturnino” o “Un serafino in terra o Santa Teresa di Gesù”, o ancora i testi delle sue lezioni scritturali della domenica rifluiti in “L’antropologia biblica o lezioni apologetiche su l’uomo”.
La promozione episcopale alla sede di Galtellì-Nuoro del vicario generale e canonico dottorale del capitolo cagliaritano Luca Canepa – fratello di quel don Silvio che con lui aveva studiato a Genova negli anni giovanili – gli propizia il passaggio a quel maggior canonicato. Intanto, scomparso monsignor Serci-Serra, ha assunto la guida dell’archidiocesi,d al 1901, il francescano conventuale fra Pietro Balestra. E di Balestra egli diventa vicario generale dal maggio 1903 (appunto in sostituzione del Canepa).
Attivissimo, onnipresente in funzioni religiose (per ricorrenze patronali o consacrazioni di nuove chiese) e in occasioni convegnistiche (fra l’altro al primo congresso mariano sardo della fine del 1904 o al congresso eucaristico romano dell’anno seguente), direttore della scuola di religione lanciata nel 1905 dall’arcivescovo Balestra con il fine di raggiungere gli studenti cui la scuola pubblica non assicura alcun insegnamento di fede), marca una instancabile dedizione agli interessi dei diocesani. Certamente segnalato per tanto merito, viene convocato, nella tarda estate del 1906 – pochi mesi dopo che a Cagliari ha assistito agli imponenti disordini sociali contro il carovita ed i carenti assetti dei servizi pubblici cittadini – a Roma per un colloquio, come scriverà egli stesso, con un collegio di teologi incaricati da Papa Sarto di… misurarne il profilo in vista di una prossima promozione episcopale alla doppia sede di Penne ed Atri.
Comincia così la fase più alta della sua vita, intensa e faticosa, che si esaurirà in appena un lustro. Ad appena 46 anni, proprio quando per lui si prospetta un trasferimento alla sede episcopale di L’Aquila, «dopo breve e violenta malattia», cederà le armi offrendosi al giudizio di Dio e della storia.
Non tratto qui – rinviando ai documenti ora abbondanti e reperibili (ad esempio le cennate lettere pastorali (quella di presentazione, quelle quaresimali su “Gesù Cristo e la sua dottrina”, “La Santissima Eucarestia”, “Il papato e la Chiesa”, “La grazia santificante”)– del breve ministero abruzzese, segnato da una perfino commovente mobilità fisica fra le comunità religiose e laicali della doppia (antichissima per radici) diocesi di Penne ed Atri. Consacrato nel duomo di Santa Maria, a Castello, dall’arcivescovo Balestra e dai suffraganei Ingheo di Nuoro e Canepa di Nuoro, con tutt’attorno i colleghi capitolari ed il clero numeroso dell’archidiocesi ma soprattutto – come riferiscono le cronache – dal popolo, e in esso da ben cinquecento quartucciai, ed omaggiato poi, secondo tradizione, da una speciale accademia in quel seminario in cui aveva celebrato la prima messa, don Piras saluta e lega per sempre la sua Sardegna alla nuova terra italiana d’elezione, l’Abruzzo – l’Abruzzo di Gabriele d’Annunzio! – , dove giunge nel giugno 1907.
Nella logica che usa dirsi sempre più spesso dei “ponti”, cioè delle relazioni, degli scambi e dei mutui arricchimenti ideali, culturali e materiali fra territori diversi e perfino lontani si spende un episcopato di servizio, datato storicamente, privo forse di lampi anticipatori, ma all’altezza anche di questa missione tutta umana o civile che mi piace ancora evidenziare: solidarietà partecipative e gemellaggi, contro gli isolazionismi e l’autoreferenzialità senza respiro.