Don Tonio Pittau, indimenticato parroco della cattedrale, diecimila giorni dopo l’offesa di Caino, di Gianfranco Murtas
Sei anni fa – era il 14 settembre del 2009 – informai papa Benedetto della vicenda luttuosa (e delittuosa, nella mia convinzione) riguardante il compianto don Tonio Pittau, parroco di Santa Cecilia in capo alla cattedrale di Santa Maria di Cagliari, scomparso tre giorni prima del Natale 1988, precipitando in un dirupo orientato su un costone marino non lontano dal capoluogo. Lo informai rapidamente sugli aspetti fattuali ma di più, evidentemente, su quelli ecclesiali, data la rimozione quasi generalizzata che nel clero coprì l’evento e, penosamente, la memoria della vittima. Mi rispose, a nome del papa, l’arcivescovo (oggi cardinale) Bertello, al tempo nunzio apostolico presso la Repubblica italiana.
E’una vicenda, questa tragica con protagonista don Tonio Pittau, esponente di una famiglia religiosa di primissimo rango, per virtù praticata, del presbiterio diocesano, di cui mi sono occupato dal 2003, allorché da amici preti fui interessato a “far qualcosa” per smuovere l’insopportabile inerzia della magistratura cagliaritana incapace di procedere in alcun modo nella ricerca della verità.
Per soddisfare l’appello che, con affettuosità fraterna, mi era così indirizzato, non avendo alcuna veste per un approccio diretto ai magistrati incaricati del caso, mi indussi a scrivere un breve romanzo – appena una quarantina di cartelle – che fu pubblicato dall’editrice di Franco Madau, magnifico nostro artista etnicista che stampandolo volle onorare la memoria del libraio Gianfranco Cocco, suo valoroso e sfortunato amico scomparso tragicamente in quello stesso torno di tempo. Trattai la materia, inserendo nella trama narrativa tutto quanto potei raccogliere degli indizi in cumulo di massa critica, tanto da farne prova e prove di delitto e non di incidente (malamente simulato), incrociandola con una riflessione, alta almeno nelle mie intenzioni, sulla debolezza e contraddittorietà dell’episcopato materiale di don Ottorino Pietro Alberti, con il quale ebbi tre lunghi lustri di franche e severe interlocuzioni unite alla affettuosità e alla lealtà personale, di cui porto anche commoventi privatissime testimonianze. (Lo attorniai, per obbligo narrativo, da un pugno di personaggi di tutta fantasia, ma rispondenti ciascuno ad una specifica classe… tipologica che mi pareva di individuare nella platea clericale o paraclericale diocesana).
Il libro, anzi il libretto, titolato Lo specchio del vescovo, recensito da Emanuele Melis sulla rivista dei paolini Jesus, mi fu poi richiesto, da un produttore del continente, come soggetto-base per una sceneggiatura cinematografica che però mi vide contrario per la piega narrativa che si voleva dare ad essa e che non onorava, ma strumentalizzava, la virtù di don Tonio.
Presentarono il libro-libretto, nel settembre 2003, nell’aperto di Sant’Eulalia, Bachisio Zizi – specialmente interessato alla parte letteraria o drammaturgica –, Giancarlo Ghirra, per le ambientazioni cittadine, e Mario Cugusi per gli spazi di riflessione ecclesiologica. Il concorso di pubblico aveva fatto pensare a sbocchi che infine non ci sono stati, così come il replay a Sant’Ambrogio di Monserrato, cui intervenne con lucida testimonianza anche il dirigente dei vigili del fuoco che operarono, all’Arco dell’Angelo, il recupero della salma e poi della autovettura, la prima scelleratissima bara di un prete buono.
In più occasioni ripresi l’argomento, rilanciandolo sempre nella speranza di incrociare solidarietà autorevoli ed attive per smuovere la magistratura inducendola a fare quanto pare oggi per l’ennesima volta le si chiede (dopo tante insistenze anche della famiglia, che s’era detta perfino a sopportare i costi della operazione), vale a dire la esumazione della salma della vittima innocente.
Debbo al riguardo un’altra testimonianza: pochi giorni dal suo insediamento a Cagliari, da don Dino Pittau fu presentato all’arcivescovo Mani il testo di quella mia ricognizione degli indizi volti a farsi prova; lesse, don Giuseppe, quelle cartelle, concludendo di non essere interessato ad occuparsene. E infatti tutto quanto era accaduto sul nostro territorio prima del suo arrivo – addirittura il Concilio Plenario Sardo, che tanta fatica era costata agli arcivescovi Alberti e Tiddia – fu da lui considerato come vapore disperso nell’aere. Compreso il caso del presbitero cui il futuro cardinale Canestri, al tempo a capo della nostra archidiocesi, aveva commesso l’incarico difficile di servire la comunità di Castello (con la comunità diaconale ecc.).
Naturalmente anche l’arcivescovo Miglio, tristemente sempre impari al ruolo e inadempiente alle chiamate più allarmate a lui giunte (come i casi di pedofilia, i trasbordanti spettacoli lefebvriani e anche le fantasiose allocazioni di tanti parroci dimostrano), mai risulta si sia occupato di questa vicenda, coinvolgendo, da pastore diocesano, la comunità che ancora – lo voglio dire chiaramente – non ha diritto di dimenticare come e perché e da chi Abele sia stato colpito.
Vi sono stati, è la mia convinzione, anche dei depistaggi, all’indomani della morte di don Pittau e dell’avvio delle indagini giudiziarie. Fra essi, rimozioni dall’incarico o trasferimenti dei funzionari duramente impegnati a capirne qualcosa. So quanto mi è stato riferito dalle fonti più informate e moralmente più partecipanti al lutto mai sanato; non ho accesso altro che a tali fonti e, per il mio compito di modesto trasmettitore, non di inquirente, tutto questo basta.
Se sostanziali passi in avanti nelle indagini, ora che ci avviamo al trentesimo dall’avvenimento, potranno esserci tutto sarà per farci perdonare della colpa d’una diserzione collettiva dal dovere.
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Stralci da Lo specchio del vescovo. Il caso di Villamaura
Torna il silenzio nella scena, ed è ancora il vescovo a bucarlo, sempre tenendo fra le proprie le mani del cappuccino. «Comprendo questo suo turbamento, questa pena così intima e naturale, carissimo, carissimo padre Gemiliano, carissimo… e comprendo anche queste sue parole. Ma i sacerdoti di Dio nessuno, almeno da noi, li colpisce come purtroppo avviene in altre parti del mondo. Il caso di don Muntoni è stato un’orribile eccezione. Noi preti siamo criticati ed offesi tutti i giorni con le parole e le azioni di chi, per difetto di grazia, non capisce la nostra testimonianza, il senso pastorale del nostro parlare e del nostro agire, al servizio sempre del Signore e dei nostri fratelli nel Signore. Ne so qualcosa anche io, purtroppo. Però… bocche assassine sì, talvolta o spesso sì, ma mani assassine no…, no, da noi no… Siamo stati percossi, ricorderà padre Arcangelo del convento di Foxi, e don Silvio Feddau di Santa Lucia di Cerario, e anche recentemente a Genna Accili… l’aggressione a don Loriga, professore all’istituto dell’Ausiliatrice. L’abito religioso talvolta non ferma la violenza di menti oscurate. Ma qui… assassini no, da noi no». Fa pausa un attimo, e conclude: «E’ stato un incidente, certamente è stato un incidente. Si faranno tutti gli accertamenti di legge, avremo presto conferma di questo. E intanto preghiamo, preghiamo intensamente. Anche per aver la forza di rassegnarci».
«La mia opinione, eccellenza, anzi la mia certezza, è un’ipotesi di lavoro molto seria su cui stanno già lavorando, credo, le forze dell’ordine. Dico in primo luogo la scientifica. Io ero lì, stamane, quando è arrivata una pattuglia della mobile che ha raggiunto le due volanti dei carabinieri e la squadra dei pompieri che già erano sul posto. Stavano effettuando alcuni rilevamenti. Un ufficiale della polstrada, tecnico della scientifica – perché della scientifica sto dicendo –, già dopo i primissimi rilevamenti è stato chiaro, non si è perso dietro tanti giri di parole: “Non è possibile che l’auto sia caduta per una manovra sbagliata, quale che ne sia stata, nell’ipotesi, la causa…”. Così ha detto, ero presente, ho sentito. E poi ha parlato col magistrato, noi ci siamo allontanati da loro, per dovere di discrezione, anche se questo è stato veramente molto pesante, difficile…, perché naturalmente avremmo voluto sentire, sapere, noi della famiglia. Ed io stesso che ero da ieri sera tardi e fino a stamane, con due nostri cugini, su e giù per quella strada, tra Flumini Uri e Sarcapos e Balardi, mi sono fatto quest’idea precisa. Le osservazioni tecniche, direi anche di esperienza, di quell’ufficiale erano elementari, tanto sembrava lampante quello che era successo. Per uscire dalla carreggiata in quel punto preciso occorrerebbe compiere tante di quelle complicate manovre che, appunto, bisognerebbe mettersi proprio d’impegno, bisognerebbe volerlo fare… Non c’entra la fatalità, non c’entra proprio per nulla. Nel pomeriggio di ieri, non nel buio della sera, dico al massimo nel tardo pomeriggio, qualcuno ha spinto la macchina fuori strada, l’ha scaraventata nel precipizio. Cosa sia successo prima, perché è prima che è successo qualcosa, alle quattro o alle cinque, in quell’ora lì press’a poco, io non lo so…».
Allo sfogo del religioso, il vescovo mostra qualche difficoltà a rispondere, fatica ad opporre argomenti di teoria a quelle constatazioni di fatto. Però non tace. E’ necessità per lui riaffermare che «da noi» i preti non si ammazzano. «Ripeto: è troppa l’emozione di questo momento per poter conservare quel tanto di lucidità che è necessaria per affacciare ipotesi di questo tipo. Non posso credere ad un assassinio, i preti da noi…, oh! almeno la vita dei preti è rispettata. I casi di omicidio di sacerdoti sono stati, in Ordena, pochissimi, forse dieci in almeno due secoli… Il rettore Satta Musio di Orvine…, ma erano altri tempi e altri contesti anche ambientali…».
Squilla il telefono. Monsignore ascolta quel trillare, ma non risponde. Guarda in aria, nel vuoto, palesemente confuso, come imbambolato. Qualcuno prende la chiamata da un altro apparecchio, e pochi secondi dopo nuovamente si affaccia nello studio il capo zazzeruto del segretario che fa cenno al vescovo come per invitarlo ad uscire dalla stanza. La porta si richiude alle spalle di quest’ultimo che, dopo aver confabulato brevemente col suo giovane collaboratore, raggiunge il telefono derivato in un altro ambiente – è l’ufficio del moderatoris curiae et oeconomus –, dominato da due grandi quadri “laici” e, a tutta parete, da un armadio a vetri in cui fanno bella mostra numerosi oggetti liturgici che raccontano i secoli. Pochi libri in vista, un televisore a grande schermo con videoregistratore, il computer su un secondo tavolo chiaro con scatole intere di floppy disk, due poltrone per gli occasionali conversari… Uno studio-salotto gradevole, nonostante questo doppio fronte del sacro antico e del moderno tecnologico.
«Buona sera, dottore. Ho saputo dall’ispettore Pisano, pochi minuti fa, del ritrovamento di padre Gilio Manias, purtroppo morto. Un incidente stradale…», dice soltanto. Poi, quando l’altro prende la battuta, egli tace. «Gesù mio», sussurra di tanto in tanto, e non aggiunge altro fino a che non posa la cornetta.
All’altro capo del filo, in una stanza del lontano palazzo di Giustizia, è il sostituto procuratore Pilia, incaricato dell’indagine, appena rientrato dall’arco del Serafino con alcune idee abbastanza precise sulle circostanze che potrebbero essere state la causa di quella morte ancora misteriosa: causa che, però, dovrà essere confermata e certificata dal medico legale.
Carico di un fardello assolutamente ingrato che mai avrebbe immaginato di dover portare sulle sue spalle, monsignore rientra a passo lento, rosso in volto, nel suo studio. Desidera forse congedare i tre rimasti in sua attesa, o forse, al contrario, spera di non essere lasciato troppo presto solo. Come se avesse lui, adesso, necessità di compagnia, assistenza e conforto.
«Scusatemi», dice sospirando rivolto ai suoi ospiti, gli occhi sempre rivolti nel vuoto, come a non rischiare di incrociare lo sguardo inquieto di alcuno. Non fa quasi in tempo a riprendere il suo posto oltre la scrivania che qualcuno bussa nuovamente alla porta e, senza bisogno di aspettare risposta, entra. E’ il vicario, monsignor Falchi. Porta anche lui, viso mesto e voce tremula, il suo bagaglio di notizie provvisorie e, ancora, di male.
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«Uno spirito evangelico, puro, anche duro, ma schietto, uomo di preghiera e di consiglio, un apostolo moderno, con quel gusto un po’ anticonformista e, se si può dire di un prete che celebra messa tutti i giorni, …anticlericale, ma anche uno studioso serio di scienze bibliche, di storia antica e di storia patria –, eh, l’eclettico padre Gilio…, appassionato ed esperto cultore dell’arte nostra, dell’architettura ecclesiastica, vivace nella serietà, aggiornato su tutto, operatore ed organizzatore, bisogna dirlo, geniale, assolutamente geniale, della solidarietà, una trottola del fare, ci mancherà…», aggiunge di suo, quasi sottovoce ma torrentizio, capo sempre chino a terra, il vicario. E poi: «Ripensavo a lui, mai immaginando quel che gli sarebbe successo, quando l’altro giorno eravamo ad ascoltare la conferenza del vescovo di Partenia in seminario: “Io sono per la vita. La vita prima dei dogmi. I gesti prima delle parole. La spiritualità prima della morale. L’essere umano prima di tutto…”. Le parole erano queste, press’a poco. Un identikit ideale al quale io vorrei tanto somigliare, anche se le nostre formazioni e le nostre esperienze, sia umane che sacerdotali, sono state così diverse. Padre Gilio era così, con la sua severità o nonostante la sua severità. Dotto e umanissimo. Non era soave come il nostro conferenziere, che con la dolcezza ci ha dato una bella strigliata, però ogni sua azione rivelava l’animo, era carità tangibile, quella paolina, che diceva senza parlare… Davanti al bisogno, quale che fosse, spirituale o psicologico o materiale era pronto a dare, anzi a darsi e a darsi tutto, senza calcolo e senza risparmio… Anche se, in cambio, pretendeva qualcosa che forse è veramente la merce più rara che esista: la sincerità. La esigeva, senza fare sconti. Ma la lealtà la sanno dare soltanto gli innocenti e le persone buone. E quelli che avevano a che fare con lui quasi mai erano di quella specie… Lui lo sapeva e mi ha sempre incantato che, ogni volta, incontrando una persona nuova nel bisogno, non si ponesse nell’atteggiamento di chi è appena uscito da una ennesima delusione, ma animasse la scena, nel dialogo e nell’incontro con l’altro, come fosse la prima volta e non la millesima… Intuito il bisogno, tante volte preveniva la richiesta, si offriva aspettandosi il cuore sincero, poi… la delusione. Un’altra. Ma passava al successivo. Ripeteva: “Fai quel che devi, avvenga quel che potrà”».
Tutti ascoltano, forse sorpresi, le riflessioni a voce sommessa di monsignor Falchi, conosciuto come uomo disincantato e quasi incapace di emozioni. Ad interrompere la pausa di silenzio che segue alle parole del vicario è un improvviso «Restiamo in contatto», che il vescovo rivolge ai suoi ospiti, implicitamente congedandoli tutti.
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La conversazione è breve. L’ambiente particolarmente freddo non consiglia indugi. Fuori piove e tutto, anche il tempo atmosferico, annuncia un Natale triste. Intanto arrivano altre persone, fedeli del santuario domenicano, qualche compaesano amico della famiglia, raggiunto prima di altri dalla notizia che ha tolto ogni speranza. Faranno atto di presenza. A nessuno è, infatti, consentito di vedere il cadavere avvolto nel gran sudario prima dell’esame autoptico.
Ma l’autopsia non verrà compiuta. Il medico legale – si saprà la stessa sera – dopo una prima, e unica, sommaria ricognizione, crederà inutile procedere, in tutta la sua crudezza, alla formalità. Stenderà un verbale in cui, motivando la sua decisione, nessun elemento che possa riportare all’inquietante ipotesi dell’assassinio troverà accoglienza. Incidente.
Con l’autorizzazione del magistrato, intorno alle 16 la salma viene intanto trasferita e composta in un sala adiacente la grande sacrestia del santuario. Partecipano alla triste operazione il fratello cappuccino, alcuni stretti parenti e una ancor giovane, ma bene esperta, infermiera amica di casa, che da sempre ha offerto l’assistenza della sua professione alle varie necessità, fortunatamente mai gravi, della famiglia. E’ lei che, con più competenza degli altri, lava le parti maggiormente scoperte del corpo che, ormai irrigidito, sarà poi alquanto complicato rivestire degli abiti, anche se quelli liturgici prescritti per i sacerdoti hanno tagli larghi e, per la mesta bisogna, comodi.
«Oh, Signore!», fa ad un certo punto, quando passa la mano sotto la nuca. Tocca, insiste a palpare con le sue dita esperte quella zona del cranio che esternamente non rivela alcuna anomalia. Sente le dimensioni di una frattura che può esser stata la causa della morte di padre Gilio. Un sospetto, in lei che non ha ancora saputo nulla delle osservazioni dell’ufficiale della scientifica, va subito a confliggere con l’autorevolezza della firma che ha chiosato il verbale della mancata ricognizione autoptica.
Il corpo, oltre la scontata rigidezza cadaverica, dato anche il tempo ormai trascorso dalla morte, si presenta stranamente molliccio. A rilevarlo è uno dei parenti che ha partecipato anche lui alle ricerche ed ha raccolto la feroce battuta dell’uomo della scientifica. «Povero cugino, ti hanno colpito…, sì, ti hanno colpito fino a farti morire… Ti hanno colpito, io so che ti hanno colpito, ma, assassini vigliacchissimi, senza lasciare traccia… Un frustino, sì, avranno usato un frustino ripieno di sabbia, un manganello assassino, con quello ti hanno fatto fuori, perché con quello possono rompere tutto senza lasciare segni…». A figgere la sua disperazione nel silenzio che incombe su quel fare, rispettoso e servizievole, è il cugino Riccardo Dessì Manias. Egli rivela il suo timore. Ma occorrerà pure trovare il modo di portare al magistrato quel sospetto, associandolo alle congetture, tutte fondate, degli altri. Ma davvero: perché? quale il movente possibile?
Più d’uno, il giorno stesso del ritrovamento del corpo del buon rettore della Tavola di Celies, crede di dover onorarne la memoria e suffragarne l’anima aggiungendo una sua ulteriore ipotesi. Sembra che confidare un presentimento sia come completare la preghiera, un renderla più onesta e vera. Perché nessuno crede all’incidente. Ecco, torna la domanda: perché?
Ogni supposizione comincia ad entrare e sedimentarsi nella coscienza e nella riflessione comune. «Nelle ultime settimane», sostiene padre Alessio, uno dei religiosi del santuario che gli era particolarmente vicino, «sembrava preso da preoccupazioni di cui non ha parlato, credo, con nessuno. Si è detto di una certa attività segreta come emissario della famiglia di un sequestrato, si è detto anche che abbia individuato una pista importante per scoprire gli autori di certi traffici illegali, anzi criminali…».
Fra quelli che hanno partecipato alle ricerche, Lucetto Murtau, pescatore in quel di Sant’Igia ed amico d’infanzia di padre Gilio – da quando la sua famiglia s’era trasferita in quel di Sant’Avendrace –, osserva la stranezza di quegli occhiali trovati accanto al corpo, nel dirupo: essi erano sì del religioso, ma sostituiti nelle ultime settimane da un altro paio acquistato dopo il controllo periodico effettuato da un oculista della città, che ne aveva rivelato un certo peggioramento del visus. E’ credibile che egli portasse gli occhiali smessi invece dei nuovi? e se no, chi e perché potrebbe averli scambiati?
Un altro, Salvo Mattana, anche lui della cooperativa di pescatori dello stagno, racconta di una cartina stradale sporca di sangue, rinvenuta dentro la vettura, e aggiunge: «Strano modo di precipitare quello di una macchina che resta come appollaiata, muso in avanti, su uno sperone roccioso, senza rotolare giù più di tanto…».
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Preannunciatosi due giorni avanti – giusto mentre monsignore vestiva, in sacrestia, i paramenti per la messa di esequie –, Sergio Dessì Manias così si presenta al vescovo diocesano. L’episcopio è divenuto ormai, in qualche modo, l’albergo delle confidenze, dei sospetti, dei propositi, degli umori e malumori di quanti sono stati coinvolti nell’evento di lutto improvviso che ha rattristato e sconcertato anche l’opinione pubblica. Anche i giornali iniziano adesso, infatti, ad affacciare qualche dubbio sull’ipotesi ufficiale dell’incidente.
Prosegue. «Scusi il lungo preambolo, ma ho creduto necessario portare a sua conoscenza questi elementi. Nessuno sarà obbligato a collaborare con me se non per una ragione esclusivamente morale, per onorare la memoria di un uomo e di un sacerdote ritengo di grande qualità spirituale e di merito sociale veramente speciale, da tutti riconosciuto in città, anche dai lontani dalla chiesa. Forse qualcuno lo ha odiato, altri l’avranno mal sopportato, ma egli è stato anche molto amato, soprattutto amato, e con ragione. “Padre manager”, lo chiamava qualcuno, scherzando ma anche per dire la propria ammirazione. Lo chiamava così per dargli atto della sua concretezza nell’esercizio della carità e della solidarietà, come uomo prima ancora che come cristiano, se qui la distinzione ha un senso. Era nato per fare il professore, era un pensatore, un filosofo diventato invece uomo d’azione. Realizzava nel suo intimo delle sintesi singolari fra le sue vocazioni all’apparenza inconciliabili… Nella sua formazione i contributi erano stati estremamente vari, lui non era facilmente incasellabile… Come pensiero civile era un ruvido repubblicano, suo nonno – mio prozio notaio ad Olaspri – era un mazziniano che aveva studiato a Pontario con Giovanni Battista Tuveri: diplomazia zero, un po’ anarchico, indipendente, con una coscienza di granito… C’erano stati, nel secolo scorso, anche da noi, dei preti democratici, repubblicani…, c’era stato il filone dei rivoluzionari angioini, e molti parroci erano lì… Eh sì, mio zio aveva l’impronta di quella educazione, e la fondeva però con un impegno sociale modernissimo. Dentro la chiesa, o con la chiesa, tramite la chiesa, perché aveva un fortissimo senso ecclesiale – talvolta mi sembrava addirittura un mistico… –, un lascito materno evidentissimo… Aveva il sentimento della città, proprio della cultura civica, dello spirito pubblico condiviso anche fra ceti diversi… Aveva una visione complessiva e matura della città e una conoscenza però anche delle mille pieghe della società, insomma una conoscenza diretta delle microsocietà. Così ha organizzato, diffuso a livello ben più che di quartiere, il primo servizio di assistenza domiciliare agli anziani a Caregli, con la splendida Vincenziana del santuario: almeno ottanta, cento volontari di cui la metà proprio ragazzi, sotto i vent’anni, a turni, ogni settimana visitano forse duecento famiglie, duecento case, anche di più. Me ne aveva parlato, una volta, spiegandomi come gli era venuta l’ispirazione… Si era fatto istruire da un certo suo amico medico romano, Michele Bartolo: l’ho conosciuto anch’io, gentilissimo, buonissimo, faceva volontariato alla comunità di Sant’Egidio, e però veniva qui a Caregli, lo ha fatto tre anni di seguito per dare gli esami per la specializzazione in angiologia. Era figlio di medico, angiologo lui stesso, e si occupava a Roma proprio di questo servizio di assistenza o compagnia ai vecchi, alle vecchie “Maria” che la speculazione voleva allontanare dalle loro case del centro per confinarle chissà dove… Così era cominciata, anche a Caregli, e dopo pure a Balardi, questa attività. Forse ormai è un decennio che continua e si sviluppa. Funziona meglio di quella messa su dal Comune… Gli anziani lo adoravano mio zio, lui in loro vedeva un po’ i suoi genitori morti neppure da molto tempo, e dei quali serbava una memoria tenerissima, che non si può raccontare perché la sublimava nella sua fede. Il fatto stesso che il santuario non fosse parrocchia gli aveva consentito questo raggio lungo, gli aveva facilitato questa operatività oltre il territorio, diciamo, di competenza… Com’è sempre stato, ed è ancora, per la chiesa di Sant’Antonio dei cappuccini, a Banlapà. Mio zio Gemiliano ne sa qualcosa anche lui… E’ lui, zio Gilio, che ha impostato una rete di presenze e di interventi per il recupero dei carcerati sia sul piano del lavoro che del nuovo inserimento sociale, e dunque s’è occupato delle necessità di base di tutti, della casa, della spesa quando mancavano i soldi…, ha seguito i figli nella scuola, li ha portati nelle società sportive giovanili, nelle palestre… Lo sa che oggi ben sette di questi ragazzi figli di ergastolani o di detenuti a pena lunga o lunghissima, seguiti da lui ormai da quando è venuto alla Tavola, sono all’università e già prossimi quasi tutti alla laurea? E che di quei bambini portati nelle polisportive ce ne sono diversi che, particolarmente dotati, giocano in campionati o tornei di categoria, in varie discipline della federazione? Lui è stato il punto di riferimento di un’infinità di sbandati. A tutti ha dato cure, anche dolcezza, ma anche un insegnamento di disciplina. Perché aveva troppo rispetto della fatica, dell’impegno che lui stesso ci metteva, insieme con moltissimi altri che ha avuto il merito di sensibilizzare e mobilitare, per togliere dal bisogno, e comunque sempre dall’emergenza, le persone, per cambiare il male in bene…, che non voleva mancasse mai questo messaggio chiaro: ti aiuto, ho il dovere di aiutarti, non mi risparmierò per te, ma sei tu che devi aiutarti per primo, perché devi conquistarti la vita, faticando anche tu come me, imparando ad essere spontanei e leali con me e con tutti. “La sincerità è la chiave che apre tutte le porte, a me poi mi… schiavizza. La menzogna ferisce l’amicizia”, diceva sempre, ed era esigente in questo… “Io voglio con te un rapporto paritario, ho odiato il paternalismo quando volevano che ci affogassi dentro, ma sono capace di amicizia. Nell’amicizia, però, si parla soltanto il linguaggio della sincerità”, sono sempre parole, concetti suoi. “Non sono qui per convertirti, per farti prediche o portarti alla messa… Sono qui per accompagnarti in un tratto della tua vita, se gradisci la mia compagnia. Io sono in fase di conversione, mi sto allenando alla coerenza del Vangelo, perciò anche io ho bisogno di te: mi do al rapporto nella mia umanità più schietta…”. Anche con i detenuti aveva iniziato in un modo un po’ strano, ma che rifletteva interamente la sua intelligenza e la sua sensibilità: aveva ottenuto dal magistrato di sorveglianza e dal direttore di fare una esperienza di un mese intero all’interno del carcere di Bellavista. Saranno state dieci, dodici ore al giorno per trenta giorni: trecento e passa ore di colloqui con altrettanti detenuti. Conoscendoli personalmente, uno ad uno, si era fatto una idea molto concreta di questo popolo, che non era né una categoria né una massa indistinta, e attraverso di esso aveva capito la realtà delle famiglie nel bisogno materiale, magari nella vergogna, comunque con un presente e un futuro di incertezza… Al santuario aveva impostato e coordinato, ovviamente spalleggiato dall’ordine dei predicatori – che poi non predicano ma fanno le cose, bisogna dire, predicano sempre più con i fatti che non con le parole – e aiutato concretamente dai suoi confratelli del convento che sono stati sempre una decina e per grazia di Dio tutti molto portati all’azione, ad iniziare da padre Alessio e da padre Emiliano, una larga serie di interventi sociali, coinvolgendo la comunità dei fedeli, e non soltanto sul piano finanziario… Sapeva organizzare le risorse, e di tutto dava conto, i bilanci erano pubblici fino alle lire. Aveva un sistema tutto suo per giustificare, a chi gli dava fiducia consegnandogli la busta, come li aveva spesi quei soldi, concretamente – con tanto di nome e cognome di persone beneficiate o di attività promosse –, senza che i nomi uscissero però mai, naturalmente, nel rendiconto, ma i numeri sì, tutti, i perché e i come… Praticava quella trasparenza che esigeva dagli altri come fatto di serietà… “Un mondo di trasparenza: noi uomini di chiesa lo dobbiamo realizzare con i fatti, non è che lo possiamo, lo dobbiamo!… La nostra credibilità è nella trasparenza, dobbiamo poter essere rovistati dentro da chiunque”, diceva spesso. Eh, quante famiglie, anche famiglie di massoni suoi amici, si proprio delle logge di Caregli e anche di Balardi, hanno preso con sé, la domenica, o per i doposcuola, i bambini e ragazzi che avevano il padre in carcere, quante famiglie si sono coinvolte nelle storie di altre famiglie sfortunate, sventurate, toccate dalla malattia, quante hanno stretto rapporti di autentica fraternità con chi restava ai margini o nell’abbandono, precario e solo…, le mogli, spesso i genitori talvolta anziani o molto anziani… Lo sa che sono stati, e sono tuttora, almeno settecento quelli che si sono iscritti alla “Tavola dell’io e tu”, come l’aveva chiamata padre Gilio la sua superassociazione di solidarietà? comprese famiglie intere, genitori e figli, fratelli e sorelle, tutti insieme dentro la stessa bella avventura…».
«So di questo, forse non nei particolari, ma so abbastanza di tutto questo e anche d’altro, del centro d’ascolto e del dormitorio per alcoolisti e per tossicodipendenti, al Bosco Cappuccio, della casa-famiglia per le prostitute che vogliono smettere, al Montello, del consultorio familiare per le giovani coppie, nel corso d’Avendrace, dei doposcuola di rinforzo ai ragazzini, alla salita della Margherita ed a San Giuliano, dell’accoglienza degli extracomunitari anche con una piccola scuola di alfabetizzazione, alla Marina, dove per fortuna è possibile far affidamento anche su quella gran persona che è monsignor Siurgus, il mio miglior parroco, so della raccolta del sangue con le autoemoteche che ogni settimana, da anni, ha fatto venire nel piazzale del santuario…, so del volontariato che ha saputo metter su, motivandolo, istruendolo, accompagnandolo». Così risponde il vescovo, apparentemente intimidito da quella inaspettata valanga di parole, che non sa dove vogliano approdare, del giovane professore che gli ha chiesto udienza. Tornano alla sua mente altre parole, quelle dette dal confratello francese – il terribile monsignor soave –, rinverdite dal suo vicario alcuni giorni avanti: «Io sono per la vita. La vita prima dei dogmi. I gesti prima delle parole. La spiritualità prima della morale. L’essere umano prima di tutto…». Sì, il modello sacerdotale, quello che qualcuno chiamerebbe del “buon pastore” e che tanto inviso è ai prefetti e segretari ed ufficiali delle congregazioni vaticane adusi trattare con gli umani scambiandoli per birilli, dialogando con loro attraverso cartacce, ammonimenti e circolari …, ancora tutti perfino illusi che il Vangelo sia un libro invece di una persona. Né più né meno. Ma come realizzarlo? può la fede da sola cambiare il carattere, il temperamento delle persone? rendere ardito e pugnace un timido, disinvolto uno piuttosto inquadrato per educazione?…
Riprende il professore. «Lei ha detto bene prima, ha adoperato un verbo che era centrale nella vita spirituale e pratica di mio zio Gilio: lei ha detto che motivava ed istruiva i volontari, e poi che li “accompagnava”. E’ proprio questa la parola che lo spiega tutto, lo riassume tutto: “Il cristiano deve accompagnare, il sacerdote deve accompagnare il fratello nel bisogno, – il “fratello integrale” lo chiamava – offrendosi alla condivisione con lui della gioia e del dolore”. Quindi egli aveva superato la fase, non dico del paternalismo nel fare, perché il paternalismo era esattamente il contrario del suo modo di essere e di pensare; no, aveva superato anche la fase del servizio, perché il suo servizio era un condividere. A questo ha educato anche tanti suoi confratelli più giovani…».
«Si potrebbe fare un convegno su questo, ma ne scriveranno i libri di storia, domani. Intanto tutto è scritto nell’eterno presente di Dio, che registra ogni opera di misericordia corporale e spirituale…», chiosa, pensoso, il vescovo.
«Io chiederò, con discrezione e coprendo le fonti. E’ un impegno d’onore. Ho promesso di indagare per capire, non per spedire nessuno in galera. Questo è l’obiettivo anche della famiglia, senza eccezioni», riprende il giovane professore, recuperando il discorso appena affacciato all’inizio dell’incontro.
«La mia opinione – risponde monsignore – l’ho espressa l’altro ieri in occasione delle esequie. Ho scritto la mia omelia centellinando, diciamo così, le parole, proprio perché non volevo trasmettere, anche involontariamente, messaggi non fedeli al mio pensiero profondo. E non solo mio, sia ben inteso. Io sono convinto che non ci siano elementi per sostenere la tesi dell’omicidio, che lei fa sua. Io so che taluno, anche della famiglia, non solo lei, lo crede, ma io mi voglio, e mi debbo, riferire a tre dati di fatto: la perizia sul corpo, col referto del medico legale, il quale ha ritenuto, in tutta coscienza – e nessuno può contestare il valore dell’uomo, del professionista e, aggiungo io, del cristiano –, inutile procedere all’esame autoptico, proprio per l’evidenza della causa di morte riscontrata come plausibile addirittura da una superficiale ricognizione del corpo; secondo, la conoscenza che io personalmente avevo di padre Gilio, e la buona confidenza che ci univa, sicché se ci fosse stata, nella sua vita personale o nello svolgimento del suo ministero, una qualche ragione di speciale inquietudine, non dubito che egli me ne avrebbe parlato; il terzo elemento, diciamo così di carattere antropologico, è che nella nostra cultura regionale, ancora più in questa parte del nostro territorio, il valore della vita delle persone consacrate è tenuto sempre in particolare rispetto, e mancando dati di fatto che possano smentirlo, anche questo aspetto ha forza, proprio esso, di dato di fatto…».
Parla rapidamente, monsignore. Si accalora perché veramente egli è convinto della sua verità e vorrebbe che tutti la riconoscessero una volta per tutte, e dunque ad essa si volgessero rassegnati, evitando ogni dietrologia. «Si tratta di accettare, come evento anch’esso, per paradossale che sia sul piano umano, provvidenziale. Dal male nascerà il bene… Il nostro dolore non dovrà diventare rabbia… Ogni giorno muoiono sulle nostre strade centinaia di persone, spesse volte vittime innocenti delle circostanze. Ma è naturale che quando siamo colpiti direttamente noi non guardiamo alla statistica, perché la mente e il cuore si fermano a quell’affetto che si è spezzato… Siamo però uomini di fede, questo dico io… Intendiamoci, io apprezzo l’onestà del suo intento, professore, e delle intenzioni della famiglia, ma credo che, ad insistere sulla veridicità della pista delittuosa, si perderanno molte energie per niente, e l’animo e la mente resteranno costrette nell’amarezza, nell’inquietudine, non troveranno consolazione».
«Ieri, – ribatte l’altro – nell’ora stessa dei funerali, proprio mentre lei parlava al santuario, qualcuno ha gettato nel cortile della casa di paese di Settulai, che era stata dei genitori di mio zio Gilio, e che proprio lui, con il fratello e le sorelle e i cugini, aveva ristrutturato di recente, una catenina d’oro che gli era appartenuta. Un dono della madre a lui, al fratello e alle sorelle. Buttata da mani ignote…, come uno sfregio alla memoria della persona da parte di chissà chi. Ma bisognerebbe domandarsi, prima del chi, il perché? Ecco, monsignore: io mi sono impegnato a rispondere a questo perché, speravo di arrivare, tappa dopo tappa, agli altri perché, che sono sullo sfondo e magari sono quelli risolutivi. Le sarò grato se, nei modi che riterrà, vorrà anche lei collaborare…».
«Mi dica».
«In particolare, appellandomi alla sostanza spirituale ed apostolica della sua dignità, eccellenza, le chiedo di aiutarmi a decifrare alcuni elementi che da più parti, e già dalla mattina stessa del ritrovamento del cadavere, mi stanno pervenendo… Voci, idee e ipotesi, frammenti di cose apprese e messe insieme magari talvolta non correttamente, come in un mosaico che cerca un senso e non lo trova facilmente… Ma anche carte, documenti».
«Cioè, nel concreto?».
«Beh, per adesso vorrei limitarmi a dire delle testimonianze, perché per quanto riguarda le carte mi parrebbe serio procedere a una lettura più complessiva di quanto ho trovato, sono centinaia e centinaia di fogli che ho appena iniziato a leggere… Io ora sto raccogliendo e ordinando voci, direi anche i sussurri, direi che sto memorizzando perfino le intonazioni delle voci che parlano di questa storia, in un modo o nell’altro. Sembra poco, sembra niente, ma debbo partire di qui. A lei chiedo soltanto di collaborare, perché forse soprattutto lei, a cui non mancano certo le notizie […], può darmi conferme o smentite, può suggerire rettifiche, chiavi di lettura… E’ un appello che faccio, prima ancora che alla sua autorità, alla sua onestà intellettuale ed al rigore etico e spirituale non meno che alla sua sensibilità di sacerdote e di vescovo. Proprio la sua diffidenza rispetto alle ipotesi che io ho affacciato e che perseguo può favorire la mia ricerca della verità… Non le chiedo, cioè, di cambiare opinione, anzi, il contrario. Il contributo che lei può dare, proprio per le perplessità che ha manifestato verso l’ipotesi del delitto, può rivelarsi importante perché è filtrato all’origine… Ma questo risultato sarà positivo se il filtro non vorrà dire chiusura pregiudiziale, censura o autocensura, e così via».
«D’accordo, sono qui».
………….
“Arrestato il marito della donna sgozzata”. “Si proclama innocente”. “Le indagini dei carabinieri hanno finora accertato che l’uomo, un algerino di 35 anni con numerosi precedenti alle spalle, aveva minacciato la moglie che s’era sempre rifiutata di convertirsi all’islam – Collegamenti con la morte del rettore domenicano della Tavola?”. Così il titolo, l’occhiello ed il sommario dell’articolo che il quotidiano locale ha sparato su molte colonne nella pagina della cronaca cittadina proprio la vigilia di Natale. Ha letto e rilegge adesso il lungo articolo, il professor Dessì Manias e, utilizzando un righello, segna con una penna rossa alcuni passi che gli paiono particolarmente significativi per i nessi che adombrano con la tragica vicenda del proprio congiunto.
«Secondo indiscrezioni provenienti dagli ambienti inquirenti, Muhammad Talaat el-Ghunaimì, prima della cerimonia religiosa svoltasi l’altro sabato al santuario della Tavola, quando furono somministrati tredici battesimi ad altrettanti bambini (tutti sotto l’anno, con l’eccezione del piccolo Marco Alid, ormai quindicenne), si era incontrato col rettore in una delle aule utilizzate, alla Marina, per i corsi di alfabetizzazione degli extracomunitari, in prevalenza magrebini. Gli avrebbe ingiunto di non battezzare il figlio, che appena ventiquattro ore dopo il rito doveva essere addirittura cresimato. Il padre Manias – secondo quanto gli inquirenti avrebbero appreso da testimoni – avrebbe obiettato che la richiesta del sacramento veniva, oltre che dalla volontà stessa del ragazzo frequentante il catechismo, dalla madre di quest’ultimo, alla quale il marito, all’atto del matrimonio, assicurò la libertà di educazione cristiana della prole».
E più oltre: «Muhammad Talaat el-Ghunaimì è stato rinchiuso, in isolamento, nel carcere di Bellavista, a disposizione dell’autorità giudiziaria. Verrà sentito nei prossimi giorni dal magistrato che conduce l’inchiesta. Al momento dell’arresto egli si è comunque dichiarato estraneo completamente ai fatti». […].
La stessa mattina di martedì 27 – per due giorni i quotidiani non sono usciti – , il giornale di Libissonia, accanto ad un ampio trafiletto di aggiornamento che riporta, più in sintesi, le notizie già pubblicate dal concorrente, presenta una intervista a padre Eugenio Bruno, missionario comboniano che ha vissuto più di vent’anni nell’Africa nord-occidentale, a contatto con le popolazioni berbere di fede islamica. Da tempo coadiutore del maestro generale della sua congregazione, a Londra, egli si trova in questi giorni in Ordena per incontrare un gruppo di giovani che han chiesto di entrare nella famiglia missionaria e prepararne il percorso formativo.
«L’ipotesi è attendibile – risponde, alla domanda del giornalista, il sacerdote –. La visione dell’ortodossia e dell’ortoprassi per un musulmano è difficilmente compatibile con la nostra. Il che, naturalmente, non significa che non si possa vivere fraternamente. Siamo tutti figli di Abramo. Nell’islam il sentimento religioso del legame con Allah che è signore assoluto del visibile e dell’invisibile, del giorno e della notte, e padrone anche della libertà umana e della coscienza individuale, è tale per cui la sequela può assumere, e talvolta assume, forme estreme e perciò violente. Si parla di fanatismo, ma questa è la logica conseguenza di alcune premesse di dottrina… Ora bisogna dire che l’islamismo è una galassia di sensibilità differenti, oltre che di scuole teologiche diverse. Non direi che il fanatismo, come lo definiamo noi occidentali, sulla base dei nostri codici di valore, sia la base comune dell’intero mondo musulmano, né nella spiritualità dei singoli né nella prassi individuale o di famiglia, di clan, insomma che determini o guidi la quotidianità delle relazioni umane. Ma quella componente estremista esiste, bisogna sapere che c’è. E può allignare negativamente nel vissuto profondo di taluno dei seguaci del Profeta, magari perché interagisce con personali esigenze che potrebbero anche non essere note, perché proprie della vita interiore, più intima».
Dagli inquirenti, negli stessi giorni, parrà venire, effettivamente, un interesse a verificare circostanze e coincidenze di tempi e modi che saldino il feroce decollamento coniugale al misterioso incidente d’auto all’arco del Serafino.
Da subito, invece, l’ipotesi lascia indifferente, e anzi incredulo l’investigatore di famiglia. Una penosa telefonata con lo zio Gemiliano, la sera stessa della vigilia di Natale, aggiungendogli inquietudini ha rafforzato infatti il suo sospetto, e forse il convincimento che i protagonisti negativi dell’affair siano del posto, forse di Villamaura, forse di Balardi, forse non ignoti neppure a qualcuno di quelli che, a Caregli, recitano attorno al vescovo.
«Sergio, qualcuno è entrato nella camera di Gilio e nel suo studio, al convento, lo scorsa notte, prima che lo ritrovassero. Senza forzare la porta, aveva le chiavi. Nessuno le aveva, neanche io. Il doppione ce l’ha padre Alessandro, ma quello è con tutti gli altri doppioni chiuso in uno stipetto protetto, che era chiuso ed è rimasto chiuso. E infatti mancano tutte le chiavi che Gilio aveva con sé, tutte, dello studio, della camera, della rimessa, le altre… Gliele hanno prese. Sono entrati di notte ed hanno portato via il suo computer, nuovissimo, non era neppure installato. E anche alcune scatole di dischetti.Un omicidio grande e un furto piccolo…, sono confuso, non capisco… ma c’è di peggio…
«Questa mattina, pensa un po’ – durante l’ora del funerale, un assurdo! –, due uomini sono andati al deposito di via Usellus, dove hanno portato la macchina dopo che l’avevano imbracata dal burrone, naturalmente sotto sequestro della magistratura. Sono andati a questo ricovero: uno vestito da cappuccino, si è presentato dicendo che ero io, il fratello, l’altro – piccolo e robusto, tutto calvo – come il cugino, tuo padre. Hanno chiesto di vedere la vettura, e il custode, credendoci, li ha portati lì… Chissà cosa hanno fatto… cosa hanno preso o cosa hanno messo, comunque cosa hanno controllato… Capisci? E meno di un’ora fa, verso le 19, mi ha chiamato il sovrintendente della giudiziaria: “Lei è stato in viale Usellus…?”, “Io? No!…!”. Capisci, Sergio? Prima quella perquisizione clandestina, di notte, al convento, poi quest’altra truffaldina, in pieno giorno, in viale Usellus…».
«Zio, tu che idea ti sei fatto? », ha domandato a questo punto il giovane professore.
«No, non chiedermelo. Non capisco, non so, non capisco nulla. Tutto è tragico ed è altrettanto confuso ed oscuro. Ho ripensato a quel che mi diceva ieri, appena ritrovata la macchina giù nel burrone, e Gilio morto, l’ufficiale della polstrada: con me non ha parlato dell’assurdità di quella manovra stradale, dell’incidente che è una messinscena – no, quello l’ho sentito mentre ne parlava al sopralluogo con i suoi colleghi della scientifica e dopo forse con il magistrato –, però ha fatto un’osservazione sul cuscino che hanno trovato sotto il capo di Gilio, nel dirupo, e su un telo della macchina che copriva quasi interamente il suo corpo… Come se lui si fosse voluto proteggere dal freddo, e stare con il capo sollevato, in attesa chissà di soccorsi… Credibile? Un’altra messinscena? Sì, sì, un’altra messinscena, ma questa la capisco meno ancora di tutto il resto. Con quel cranio distrutto dentro, come ha detto Grazia quando lo abbiamo lavato e vestito, al santuario – e l’ho toccato pure io nella nuca, intatta ma vuota dentro –, col cranio così sei già morto, come puoi pensare di prendere un cuscino, o di coprirti, come lo puoi fare?… Il cervello doveva essere tutto maciullato dentro, povero Gilio.
«Aggiungo, questo forse non te l’avevo detto. Un tipo, ieri, quando ero lì all’arco del Serafino, mi si è avvicinato dicendo che era di Sarcapos… “Lei è il fratello?… Sono stato fra i primi ad arrivare stamattina, sa, c’era della materia cerebrale proprio qui nel bordo della strada… l’ho raccolta e per rispetto l’ho coperta in un fossetto”… Oh, Sergio, quanto dolore e quanta confusione! Quanti dubbi su tutto e su tutti! Vedi, all’inizio ero convinto che la morte fosse avvenuta nel pomeriggio di giovedì, prima dell’imbrunire. Però, se così è stato, non riesco a spiegarmi come il corpo, quando è stato rinvenuto, sia stato non freddo del tutto, dovevano essere passate almeno dieci ore… E allora? L’avranno colpito la mattina? E la notte dove l’ha passata, come…? Oppure: può aver influito in quel fatto termico una certa proprietà del suo organismo, o una circostanza ambientale che ignoro? La temperatura invernale, della notte, avrà influito in un modo invece che in un altro?».
Dubbi, dubbi. Ma che il bandolo della matassa – la spiegazione del mostruoso delitto – si trovi nel mondaccio che parla la bella lingua e non nel fanatismo vendicativo di qualche straniero importato dalla miseria dell’Africa vicina, il professor Dessì Manias lo crede veramente, ogni giorno che passa, sempre di più. Ripensa a quei frammenti di testimonianza di suor Geggina e suor Elisa che quasi tutte le mattine, ormai da almeno un anno, dalla pur lontana chiesa della Purissima, si sono recate al santuario di Villamaura per organizzare e condurre con padre Gilio alcune delle attività della giornata.
Proprio durante il viaggio per Settulai, dopo il funerale celebrato e omeliato dal vescovo, esse gli hanno raccontato due episodi che s’incastrano bene fra loro, tessere certo non surrogabili, nel mosaico che viene lentamente definendosi.
Hanno viaggiato insieme, in macchina, i tre, da Caregli a Settulai, e nella confidenza del piccolo gruppo hanno rivelato i piccoli segreti. Suor Geggina ha riferito di una certa telefonata che, nella tarda mattinata di quel disgraziato giovedì, era arrivata al religioso. Lui s’era fatto passare la comunicazione in un’altra stanza, per parlare più liberamente. Ne era tornato sbiancato in volto, inquieto, turbato, preso da pensieri… pesanti ma taciuti. Aveva detto di dover partire, subito dopo pranzo, per Sarcapos, per incontrare un’anziana signora malata conosciuta in gioventù e sempre frequentata, ora inferma ed in incombente pericolo di vita. Una visita che doveva essere un dono di Natale. «Aveva aggiunto di voler fare questo salto rapido a Sarcapos per essere poi di ritorno a sera, per cantare la Novena… Non mi era parso convincente, ma questo lo dico soltanto oggi, davanti a disgrazia compiuta».
E suor Elisa, più discreta o timida, ma incoraggiata dalla testimonianza resa dalla consorella, s’era accodata: «Soltanto oggi ci spieghiamo le cose, alcuni fatti su cui non ci eravamo soffermate sul momento giusto. Proprio il giorno prima dell’episodio che ha riferito suor Geggina, e cioè io dico mercoledì 21, io ero nella stanza che precede lo studio dove lui stava ricevendo due persone. Il ricordo di quelle persone mi è rimasto– uno molto alto e uno abbastanza basso, grasso – ma non saprei riconoscerne i volti. Certamente erano persone che non avevo mai visto, sennò le avrei impresse nella memoria. Doveva esser stata una conversazione accesa, chissà su quale argomento… Sta di fatto che al termine, padre Gilio mi si era avvicinato, mi sembrava spaventato o comunque nervoso e aveva la voce bassa. Mi aveva detto: “Prega per me, mi raccomando: prega per me”. Poi si era preparato per la messa, e da allora è stato sempre in compagnia di altre persone, sicché non mi sono sentita di chiedergli spiegazioni. La mattina del 22 poi, io non sono scesa alla Tavola, perché avevo concordato così con padre Gilio: dovevo stare in comunità quel giorno, per un’assemblea delle suore con la Madre… Lui poi non l’ho più visto, anzi ora l’ho visto: morto».
…………
Giacciono, sul tavolo, già ordinati anche nelle piegature sulle pagine che trattano la vicenda, i giornali ormai di quattro giorni. Fra essi è un taccuino di formato grande, a righe larghe, già riempite per molti fogli. Una lettera, dentro la busta affrancata indirizzata, ora sono forse alcune settimane, al religioso morto, sbuca dal bloc notes. In esso il giovane professor Dessì Manias, che l’ha rinvenuta in un cassetto di casa, ha già trascritto lo sconcertante contenuto. Un foglione per poche battute. Di minaccia. «Frate, ricordati che la curiosità è un peccato. Pensa alle cose tue, non frugare nella vita di chi non ti cerca». In calce, a matita, padre Gilio aveva annotato: «At.Rm.Ia.Os. (+SL.DR.PS.?) – Parlato con isp. P. 18/12-5 ore 11.15».
Sul tavolo anche un elenco, scritto a mano, con scrittura minuta, di oggetti liturgici (arredi e parati) e/o d’ausilio alla visita del santuario. In capo, a mo’ di titolo, un inquietante «Scomparsi Sacrestia». Ecco la lista: «messale grande e lezionario, libro dei vespri in italiano – calice, patena, pisside e due candelabretti acquistati il 10.3.1948 (artigiano Spezzigai di Castelsardo) – serie di cartoline con gli incassi delle vendite dei mesi da marzo ad ottobre 1974 – tre volumi fotografici sulla storia, architettura, altari e cappelle, e tesoro – attrezzi da lavoro per manutenzione acquistati il 14 settembre 1974 – immagini della Santa Tavola – doppieri a sette fiamme in argento – calici (2), secchielli d’argento (2), piatti d’argento (2) donati dalla famiglia Pernisa – tovaglie e biancheria d’altare donate dai genitori del professo Solinas – tappeti (1 grande e 2 piccoli) a disegno religioso di tradizione locale donati da padre Abis nel suo cinquantesimo – camice in filet – casule bianca e verde (2)».
Dopo un breve spazio, una seconda e più corposa elencazione, che pare un vero e proprio catalogo d’antiquariato sacro. Così, con titoletto «Dal Tesoro»: «Un ostensorio in metallo dorato e 33 perle, con alzatina per il SS. Sacramento (fine sec. XIV, pezzo più antico ed importante, valore inest.) – una pisside in argento, senza croce (donata da monsignor Frezioli vescovo di Senafer, per grazia ricevuta, 1952) – due pissidi piccolissime per comunione malati in argento – tre teche grandi in metallo dorato – una pisside media in argento dorato e pietre (dono papa Gregorio XVI, 6 agosto 1839) – quattro pissidi in metallo (appartenenza cappella mons. De Vico) – una borsa porta eucarestia (sec. XV, dono mons. Baragues) – un calicetto in metallo (sec. XVIII) – un calice in argento liscio e copricalice (sec. XVI, dono mons. De Heredia) – una scatola contenente un calice, una coppa, una patena, due candelieri smaltati (sec. XVIII, forse 1792-93, artigianato provenzale) – un corporale (danneggiato, prezioso forse del 1540) – un vasetto olio infermi in metallo (sec. XVII, dono mons. De Vergara) – due teche piccole per comunione malati (sec. XVII, dono mons. Francesco De Sobrecasas) – due vasetti metallici per oli santi (idem) – coppia ampolline in argento (sec. XVIII, forse 1792-93, provenzali) – tre aspersori piccoli in metallo (forse non di grande valore, databili comunque intorno ai primi dell’ 800) – un secchiello in argento (sec. XVIII) – turibolo e navicella in argento (sec. XVIII, dono card. Cadello) – una croce in metallo con rilievi sotto campana – un crocifisso a muro, alto m. 1,68 – grande rosario in argento dorato (sec. XVI) – tre rosari piccoli in argento (dono papa Pio VII) – tre mitrie vescovili (preziosissimo dono del vescovo domenicano Pietro IV Pilares, anni 1506-1510) – tre camici con amitto senza pizzo né ornamenti (fine ’800, dono arciv. Berchialla) – due camici con pizzo (idem) – cinque cotte, tre in pizzo, una in filet, una semplice (confezione 1899, dono arciv. Serci) – una stola ricamata con effigie dei santi Domenico e Caterina (fine ’800) – un velo omerale (dono mons. Melano, domenicano) – due tovaglie altare maggiore con pizzo (dono maestro generale Lamberti, 1911) – una tovaglia altare SS. Sacramento (dono associazione del Rosario “pro soldati al fronte”, 1915) – una tovaglia altare Santa Caterina da Siena (idem) – tre pianete colorate (pasquali, idem) – tre stole (idem) – tre paia di manipoli (idem) – tre piviali (idem) – otto dalmate (idem) – scatola di conopei per altare San Domenico (dono famiglia Manca di Villahermosa, 1918) – trentadue asciugamani bianchi e breve ricamo artistico per battesimo, sedici purificatoi e sedici manutergi di fattura antica (dono famiglie Amat e Sanjust, 1918)».
Un patrimonio di valore forse inestimabile; parlare di un miliardo di lire, magari anche più – forse due, tre, o quattro perfino –, non sarebbe un azzardo. Ma chi può essersi appropriato di questi cento preziosi pezzi che raccontano tanto dell’arte e dell’artigianato religiosi, non soltanto locali, e della plurisecolare storia devozionale del popolo cristiano di Villamaura e degli altri quartieri e rioni di Caregli? E non solo: dei rapporti dell’antico e splendido santuario/cenobio domenicano con pontefici e vescovi passati sulla scena del mondo nell’arco di almeno sei secoli… Chi può essersi macchiato di tale deliberato sacrilegio, non peritandosi di ferire il sentimento di una comunità spirituale sempre viva e fervente? con quali complicità, o diserzioni di vigilanza, il misfatto è stato compiuto? e in quanto tempo? e attraverso quali modalità e strumenti e verso quali sbocchi?
Sergio Dessì Manias sapeva qualcosa, per averlo sentito accennare nei giorni dei mille incontri. Non conosceva l’entità della depredazione, ma ora essa gli spiega quel senso manifesto di inquietudine che più e più volte aveva colto parlando con lo zio, soprattutto negli ultimi mesi. Il ritrovamento dell’appunto scritto di pugno dal rettore gli offre ora le dimensioni del misfatto. Di quello compiuto per un interesse venale ma anche, e prima di tutto – tale lo avverte –, di quello che ha violato la sacralità del luogo che ne è stato il passivo teatro.
C’è un altro appunto. Tornano le sigle, ancora non decifrabili, trovate sul foglio di minaccia […].
«Oggetto: Ricerca argenteria ed oggetti liturgici e vari appartenenti al Tesoro del santuario della Tavola di Celies.
«Indirizzo la presente, scusandomi signor Comandante, del tono colloquiale, ma nonostante i molti tentativi non mi è riuscito di scrivere in… burocratese. Sono e rimango un predicatore, al più un vignaiolo.
«In data 31 agosto u.s. alle ore 10, unitamente al mio vicario conventuale padre Alessandro, al sacrista maggiore fra Davide, al segretario (in quanto delegato personale) del vescovo diocesano don Patrizio Sollai, del moderatore di curia ed economo monsignor Armetto Gioffré, nonché della professoressa Rosetta Vaudi Demontis, docente di storia dell’arte presso la facoltà di lettere della università cittadina e consulente di questo venerato santuario della Tavola in Villamaura, mi sono recato nei locali del museo siti sopra le aule dell’antica congregazione del Rosario domenicano e cateriniano, al fine ricercare gli oggetti e parati d’uso liturgico di proprietà della comunità conventuale che, da una precedente visita da me stesso compiuta in compagnia del solo fra Davide, mi parevano scomparsi, dati i vuoti visibili nelle vetrine orizzontali e verticali della sala maggiore.
«Mi ha colpito intanto, ma non tanto, la disposizione delle dette vetrine sia orizzontali che verticali, ma soprattutto il numero di esse che sono risultate in numero inferiore a quello registrato: io stesso, in gioventù, sono stato sacrista maggiore per ben cinque anni con responsabilità del museo ed avevo ed ho memoria che esse erano in numero almeno doppio di quello attuale, e certamente erano assai più piene di quanto non appaiano oggi.
«Monsignor Armetto Gioffré, che in virtù della sua specifica competenza ha collaborato con noi e in qualche modo diretto per svariato tempo la gestione dell’area museale, istruendo e guidando lo stesso nostro sacrista maggiore, ha fornito, nell’occasione dell’accesso, diverse spiegazioni sugli spostamenti dei pezzi custoditi, ma debbo con grande dolore rilevare che la spunta degli elenchi che ho potuto ricostruire non essendovene uno certo, storicamente databile ed aggiornato progressivamente, non ha consentito, al dunque, che il recupero, fra questi ultimi, di non più di quattro oggetti (tre d’arredo e un parato), a fronte di circa cento, tutti preziosi, che sono risultati introvabili. Qui appresso li elenco….
«Stranamente ho trovato sbarrate, chiuse con chiavi diverse da quelle in mio possesso, alcune stanze – piccoli vani – che sono in collegamento, sul lato lungo dell’andito di accesso, con l’aula più grande delle tre che costituiscono il museo conventuale, fra loro comunicanti da fornici aperti. Per di più, ho verificato che su ciascuna porta le serrature (potrei immaginare recenti) erano più di una: due in un caso, addirittura tre nell’altro. Interrogato sulla circostanza, monsignor Armetto, che era parso informato, ha risposto, minimizzando, che la cosa, giustificata dai guasti dei vecchi chiavistelli, fu realizzata nell’estate dello scorso anno (otto o nove mesi fa), quando il rettore – cioè io – era assente per un periodo di riposo trascorso in Toscana. E che, probabilmente, il sacrestano signor Marinia, che personalmente si era occupato della cosa, anche su suo consiglio, si era dimenticato di riferirmelo al mio ritorno. (Faccio presente al riguardo che neppure il sacrista maggiore fra Davide ne sapeva niente).
«Ma cosa contengono oggi quelle stanze? Un tempo – e in attesa di più appropriate sistemazioni – in esse erano ospitate delle vetrine a piano per l’esposizione, in una, degli oggetti liturgici propri della santa messa, con i paramenti relativi collocati in speciali mobili a vista protetti da semplici vetri (donazione Manca), e nell’altra – disposta in forma di L – di arredi e paramenti – donati dai nobili Serra – riguardanti la celebrazione di altri sacramenti (battesimo, unzione degli infermi, ecc.). Quest’ultima accoglieva altresì il più antico piano d’organo della regione, risalente ai primi del ’600, la cui custodia era stata personalmente affidata, fino a pochi mesi fa, al signor Rosario De Vitulussu, per ben cinquant’anni stretto collaboratore del santuario, dove aveva prestato apprezzato servizio come direttore di musica. La mia mente non può evitare di pensare al peggio… Osservo, per inciso, che tale vano ha delle aperture (finestra e porta-finestra) che in linea teorica potrebbero consentire un pur non agevole (cioè con ponti) ingresso clandestino dalla parte di un fossato, profondo una decina di metri e largo almeno quattro, che segue in lunghezza il corpo dell’edificio. Ignoro lo stato di quegli infissi, per la difficoltà di osservazione da parte dell’esterno.
«Mi riprometto senz’altro di procedere alla ispezione materiale, previo abbattimento delle porte, di tutte quelle pertinenze, per il che chiedo a lei signor Comandante di fornirmi l’assistenza, anche come testimoni, di alcuni uomini affidati alla sua stazione.
«Restando alle risultanze della mia visita, ancor più grave di tutto è, però, la manomissione dell’impianto di allarme. Esso fu allestito nel lontano 1962 e successivamente revisionato ed integrato, cioè perfezionato, in occasione di diversi lavori di ristrutturazione dei locali museali, negli anni 1973-ottobre e 1974-maggio. Non essendomene mai occupato personalmente – ma faccio ammenda, perché avrei dovuto farmene carico –, soltanto oggi ho rilevato il danneggiamento dei circuiti elettrici, la cui vigilanza avevo delegato, al fine di sgravarne il sacrista maggiore fra Davide in un periodo in cui egli era impedito da malattia, al sacrestano del santuario, signor Giacomo Marinia fu Antonio Angelo, che a motivo di gravi e ripetute scorrettezze ho provveduto, d’intesa con la famiglia conventuale, a licenziare nello scorso mese di febbraio.
«Aggiungo, a tale ultimo riguardo, che il sullodato era stato assunto alle dipendenze del santuario circa quattro anni fa, dopo aver per svariato tempo (non meno di due anni) collaborato, gratis, col precedente sacrestano, suo padrino, il quale, andando in pensione, ci aveva giustamente raccomandato il giovane verso il quale aveva mostrato speciale legame d’affetto. (Nello scorso giugno egli, settantenne, è purtroppo deceduto, a causa d’un tumore ai polmoni per il quale negli anni aveva dubito diverse operazioni). A voler rivedere, col senno di poi, il tenore del servizio prestato dal signor Marinia nel santuario (chiesa e pertinenze), non posso tacere che soltanto per il primo anno egli è stato veramente esemplare per efficienza e disciplina, e anzi direi dedizione. Per svariato tempo, poi, ancorché nulla gli fosse specificamente addebitabile, egli mostrò qualche frequente cedimento nella solerzia di cui aveva dato prova in precedenza. Richiamato, giustificò un certo pressapochismo nel rispetto degli orari di presa mattutina del lavoro e nel disbrigo delle sue ordinarie incombenze, con malesseri che genericamente descrisse per comunicarmi di essere entrato in cura con dei medici specialisti. Il casuale e sgraditissimo incontro del sullodato in situazioni scabrose e, direi, sconce e scandalose all’interno stesso della chiesa (pertinenti aule catechistiche), in orari nei quali egli avrebbe dovuto essere assente (ore 23 circa), e perfino con presenze estranee e non desiderabili, mi indusse a proporre alla famiglia conventuale il suo immediato licenziamento. Nel corso della discussione con i confratelli emerse però una prevalente volontà di misericordia e non gli fu tolto il lavoro, da cui egli attingeva le risorse per il personale sostentamento e per quello degli anziani genitori con lui conviventi. Il ripetersi, in circostanze diverse ma non meno gravi ed inquietanti (ed anzi più gravi ed inquietanti, tali che ho potuto rivelarle soltanto a sua eccellenza il vescovo), della precedente esperienza, mi portò senz’altro a riproporre alla famiglia conventuale il provvedimento punitivo e indusse quella ad accogliere formalmente la mia proposta».
Rilegge, per l’ennesima volta, questo rapporto-sfogo minutato dallo zio rettore, il giovane professore deciso a fare quanto, forse, non sapranno fare né carabinieri né polizia di Stato. Crede che in esso possano trovarsi alcuni degli elementi chiave capaci di spiegare quanto è successo. Il perché del delitto cioè, se delitto effettivamente è stato.
C’ è, in una stanza collegata alla camera privata del rettore, nella parte alloggiativa del convento, un intero armadio, anzi un doppio armadio, alto e largo, colmo di documenti, di corrispondenza, di note. I padri del santuario sanno trattarsi di carte “personali” ed hanno quindi consentito al nipote (consenzienti gli altri familiari, per i quali si è espresso padre Gemiliano) di metterci mano. Ma se ben poteva intuirsi la ricchezza e anche la complessità delle relazioni sociali, ecclesiali in particolare, dello zio, certo il professore non sarebbe forse mai arrivato ad immaginarne né la mole né, interamente, la sostanza, insieme con i criteri, degni di un archivista professionale, di classificazione e custodia delle carte che di quelle relazioni erano la fotografia… Così da giorni ormai (esattamente dal pomeriggio di Natale) egli trascorre molte ore rinchiuso anche in questo studio, tutto intento a compulsare i vari settori di un archivio impostato per filoni tematici e con cartelle titolate e sottocartelle tutte minuziosamente ordinate per cronologia.
Ad emergerne sono aspetti assolutamente sconosciuti della personalità e della vita del religioso, con la dimostrazione di quanto egli fosse impegnato nelle attività sociali, di «servizio e condivisione» (come aveva lui stesso titolato uno dei tanti fascicoli), ma anche teso alla ricerca spasmodica di una spiritualità pura ed estrema (ecco tracce di «dialoghi con La Pira», «con Balducci», «con Turoldo», «con don Tonino Bello», «con Jacques Gaillot»). E di più: quanto fosse difficile, per certi aspetti, trattare con lui, scorbutico e santo. In una cartella recante, nella coperta, il titolo rapido di «Episcopato no» è contenuta una lettera del segretario della congregazione vaticana dei vescovi che gli comunica il proposito di promuoverlo alla dignità episcopale. E copia della sua risposta: «Ringrazio, suo tramite, codesta congregazione apostolica per la benevola considerazione della mia opera nella vigna del Signore. La missione episcopale che mi viene offerta esige però un carisma che, intimamente, non posseggo: essere “uomo di unità”, ancorché guida coraggiosa, fra tante sensibilità diverse all’interno di una chiesa locale. Domineddio creatore mi ha invece fatto carattere senza virtù di diplomazia. Rinunzio per quanto sopra, e nel solo interesse della vigna del Signore, alla promozione ecclesiale».
…………
Il primo nome dell’agenda è quello del vecchio organista. Ormai ritiratosi a vita tranquilla, il maestro Rosario De Vitulussu (ma il suo nome completo – in onore del santuario nel quale è stato battezzato nel giorno di Sant’Angela Merici del 1899, e dove ha tentato, all’indomani della grande guerra, un noviziato rimasto senza sbocchi – comprende anche un Domenico ed una Caterina) abita in una bellissima casa panoramica quasi a livello del vertice del Monte Leccis, uno dei polmoni verdi della città. Vivono con lui le quattro sorelle, tutte più anziane di lui ma tutte perfettamente sane ed in marcia verso il compimento del secolo.
Forse poco soltanto in apparenza di quanto è entrato nella sua esperienza di rispettato maestro di musica (diplomato a Reggio) e “maggiordomo” della Tavola di Celies è presente nella sua vita d’oggi. Egli è stato l’autentico filo rosso con cui i decenni hanno cucito fra loro reverendi padri ed illustri monsignori, seminaristi in boccio ed untuosi democristiani (mai amati dall’ultimo rettore), teneri chierichetti ed esperti cantori, devoti terziari ed umili (ma spesso anche intraprendenti) suore che hanno animato messe, assemblee ed attività ora formative ora ludiche nel recinto del chiostro e fuori. E’ ricco, non lo era di famiglia, lo è diventato. In molti, soprattutto fra i fedeli più agiati, lungo il mezzo secolo di servizio fra tasti e canne, gli hanno voluto mostrare apprezzamento per la sua proverbiale disponibilità, compensandolo in qualche modo e con generosità. Celibe per scoperto imperio di natura, il suo forte senso della famiglia egli lo ha dimostrato, vistosamente, intestando a ciascuno degli otto nipoti (eredi del nome perché figli dell’unico fratello maschio ed il solo, in casa, ad essersi sposato: il minore della nidiata ma il primo anche ad essersi involato) un appartamento in un palazzo, non lontano dal suo attico, che ha comprato in blocco, in un’asta fallimentare dove ha trionfato alla grande con appena seicentocinquantanove milioni versati tutti in contanti.
Oggi trascorre il tempo ricevendo come un dandy del passato, sì senza studi e senza pensiero ma con stile ed eleganza, gli amici, e frequentando le loro case. Non ha mai fatto questione di condizione sociale: gli sono stati e gli sono ancora assidui i giovani che vorrebbero entrare, suo tramite, nella conoscenza e magari nelle grazie di qualche potente della chiesa (ma non solo), e quelli più avanti nell’età, che già hanno raggiunto le loro piccole mete, delle quali amano conversare, con un bicchiere in mano, come fosse meritevole argomento da salotto buono.
Il salotto c’è, rosso vivo alle pareti e viola cupo nella volta (colori forti rubati ad un arcobaleno riverniciato per il carnevale), a dispetto del resto della casa che veste tinte e tonalità assai più consone alle altre anziane abitatrici. Nel singolare fuoco di quella stanza, tutti i giorni egli accoglie ed intrattiene, fra poltrone e divani di gran comodità, svariati ospiti sia laici che ecclesiastici. La dottrina non c’entra mai, il pettegolezzo sempre. Ma cinguettato con modo, quello stesso delle dame di livello cadetto che affollavano le grandi corti inutili del tempo che fu, in qualche parte d’Europa. Qui si danno convegno, ormai da diversi anni, uomini che hanno interesse ad incontrarsi per trascorrere, appunto, il tempo insieme, ed allungare lo sguardo, suggerendosi reciprocamente le zoommate, sul piccolo mondo del quale sono stati o sono ancora parte, naturalmente ignorando che sia veramente un “piccolo mondo”.
«Stia comodo, ospite gradito. Io ho molto stimato suo zio, compianto zio buonanima […]».
La conversazione scorre rapida, ma – è palese – reticente.
«Lei aveva un buon rapporto?».
«Io ho collaborato sempre con tutti i rettori. Otto ne sono passati sotto di me. Naturalmente, quando lui è arrivato, io c’ero già quaranta… sì, quarantatre anni, e quindi avevo una mia autonomia, proprio per l’esperienza, conquistata sul campo dico. C’era un calendario fisso per le mie prestazioni, messe solenni, liturgie di santi, funerali importanti, matrimoni importanti…, ma io ero presente tutti i giorni come un impiegato. Sapevo…, so tutto del santuario… Non è che stessi a chiedere sempre gli ordini, conoscevo il mio lavoro, il mio dovere… Alla Tavola mi prestavo, oltre che come direttore di musica, anche come una guida per i pellegrini e per i turisti, dunque uno deve sapersi muovere…».
«E questa autonomia magari avrà creato, qualche volta, imbarazzi o problemi… o no?».
«Cose normali. Lui aveva il suo temperamento, io il mio, mi sono sempre fatto rispettare, e mi hanno sempre rispettato. E anche io naturalmente rispettavo tutti. C’era spazio per tutti e due, e anche per gli altri, alla Tavola domenicana».
«Posso farle delle domande precise, dico su questioni specifiche?».
«Sono qui. Se posso esserle utile… E poi, per la buonanima, morto in quell’incidente assurdo… Troppo presto, troppo giovane… Ora qualcuno sta chiacchierando, e sparlando, di lui, di questa morte sospetta, stanno addirittura… eh, gente cattiva, si dice di una relazione segreta a Flumini Uri… Certo era ancora giovane… Conosco il dritto e il rovescio di ogni cosa del santuario, modestamente dico, perché è la verità. Ci ho speso una vita, adesso tutto sta rotolando… prima quei conflitti senza fine, adesso questa morte improvvisa… Eh, padre Gilio si è portato nella tomba i suoi segreti».
«Segreti perché?».
«No, dico così… Ogni sacerdote è più d’un notaio, depositario dei segreti di una infinità di persone, basti pensare alla confessione… Anche se padre Gilio non è che fosse un grande confessore per la verità… Era portato ad altre attività. Le cose sue, poi, non degli altri, anche quelle se le è portate nella tomba. Soltanto il suo confessore, oltre a lui, sa le cose».
«Vorrei chiederle della conduzione del tesoro del convento. Chi ne era incaricato? Come erano distribuite le responsabilità?».
«Perché mi chiede del tesoro?».
«Beh, so che il tesoro del convento è un’autentica preziosa miniera di beni storici ed artistici, e che sul piano venale vale più di… una banca. Conoscendo mio zio, oltretutto, sia per la sua sensibilità alle cose culturali, sia per il suo rigore nell’amministrazione, ritengo che egli abbia posto una speciale cura nella gestione di questo patrimonio al quale la Tavola di Celies in Villamaura deve molto del suo prestigio, anche oltre la regione…».
«Verissimo. E infatti tutti quanti, noi personale del santuario, che non eravamo […] soltanto dipendenti ma anzi in primo luogo devoti all’ordine domenicano, cioè cristiani cattolici romani con un culto speciale per il rosario e i santi dell’ordine… Santa Caterina da Siena, la nostra preferita…».
«Scusi la brutalità: si è parlato di furti, anzi di un’autentica spoliazione del tesoro…».
«Chi ne ha parlato?».
«Ci sono dei documenti che ho potuto vedere che testimoniano questo».
«Non credo proprio. Quando c’ero io, per quanto era nella mia responsabilità, ogni cosa è andata per il suo verso giusto… Ma io non avevo responsabilità particolari sul tesoro, se non su un organo di più di trecento anni fa, bellissimo ma non più funzionante… lo si doveva rimettere a posto, o vendere, c’era una richiesta… Quindi quello che so l’ho soltanto sentito qua e là…».
«Dunque avrà sentito parlare di questa spoliazione…».
«No, che spoliazione! Esagerato! Qualcosa potrà essere andata perduta, succede in tutti i musei. Magari in occasione delle varie sistemazioni dei locali, una volta per gli intonaci, un’altra per la corrente, un’altra per l’impianto di allarme… Eh, allora entravano ed uscivano un sacco di persone, gli operai delle imprese, i tecnici che dirigevano i lavori… Noi vigilavamo, è naturale, ma magari in quelle occasioni… L’occasione fa l’uomo ladro… Ma il tesoro è, grosso modo, intatto. Stia tranquillo».
«Va bene. Ma come erano ripartiti i compiti fra i religiosi ed il personale di servizio?».
«Erano loro, quando c’ero io, i padri, ad occuparsi del tesoro. Il personale, quel poco personale che c’era, ubbidiva. Si doveva fare una convenzione con il ministero della Difesa per avere l’assegnazione di giovani del servizio civile, degli obiettori insomma, specializzati come guide… Ma poi non si è concluso nulla, forse è meglio così, troppe presenze estranee di gente che ha studiato ma non conosce le cose… Io che, per età e anche per anzianità di servizio, ero un po’ speciale, ripeto: avevo la vigilanza dell’organo, di grandissimo valore, però non funzionante da prima della guerra, la grande guerra… Lo sentivo suonare quando ero bambino, io non l’ho mai suonato… Non avevo responsabilità dirette sulla custodia del tesoro… I padri, ecco, loro avevano le chiavi… il rettore, il vicario, il sacrista maggiore che è un altro frate, fra Davide…».
«E il sacrestano signor Marinia?».
«Ah, l’hanno licenziato, Giacomino. Hanno fatto male, malissimo. Se la sono presa con un debole. Hanno fatto male, anzi malissimo. Lui era innocente. Un gran lavoratore, onesto, generoso, devoto, rispettoso, ubbidiente, aveva lavorato gratis per molti anni con il padrino buonanima, rinunciando al tempo libero dopo le sue otto ore al giardinaggio del Comune, poi aveva preso il suo posto perché se lo meritava, era portato a questo lavoro, era cresciuto al santuario da piccolo… Ma, scusi, perché mi chiede di lui?».
«Beh, si parlava delle persone che avevano avuto qualche responsabilità nella custodia del tesoro…».
«No, ma lui non c’entra nulla, così come io. Gliel’ho già detto: erano i padri che gestivano tutto. Quando c’erano visite di turisti, di pellegrini, di scolaresche, di gruppi parrocchiali ecc., io mi occupavo della guida nel santuario, solo del santuario – chiesa e sacrestie grande e piccola – poi passavo la cosa a fra Davide per la visita al tesoro… Si occupavano dell’allarme, e di tutto quanto».
«E monsignor Gioffré? Lo vedo anche qui, in fotografia. Non è lui? Ha un volto simpatico…, sembra un moschettiere di Mazzarino».
«Lui è un grande esperto d’arte, però non fa parte della comunità dei padri. I padri gli avevano chiesto, all’inizio, di consigliare la migliore sistemazione delle vetrinette e di tutto quanto poteva dare risalto al patrimonio d’arte del santuario. Ha fatto tutto gratis, con molta dedizione. Perché è un esperto e una persona per bene. E’ l’uomo di fiducia del vescovo, ma a lui si affidano anche i vescovi di Olaspri, Norbio, Pontario e altri ancora…, di Cuadu e Balanotti anche, perché se ne intende di finanza e di bilanci, non per niente è l’amministratore della diocesi. Viene da una famiglia molto nota a Balardi, ha origini cavalleresche in Sicilia, una zia ha sposato un ambasciatore ed un altro parente stretto è monsignore in Vaticano. Ha studiato economia, poi è entrato in seminario ed ha bruciato le tappe perché era il migliore del suo corso, è molto valido sotto tutti i punti di vista, finirà vescovo vedrà… E’ stato ordinato nel 1970, alla vigilia dell’arrivo del papa, dal cardinale Cabbas, oggi è anche priore dell’Ordine di Santa Brigida e confessore di diversi collegi religiosi. Ha un suo fascino, spirituale dico, non comune…».
«Ma non ha avuto parte nella gestione del tesoro in questi anni?».
«Ma perché queste domande, non capisco cosa c’entri tutto questo con gli onori alla memoria di padre Gilio… Lei, come nipote, non è di questo che si doveva occupare? […]. Comunque, la gestione del tesoro del santuario era la migliore possibile, trasparente e corretta, per quanto ne so».
«Ma sono mancati almeno cento oggetti di valore storico enorme! Sono stati sottratti nel tempo, forse già da quando c’era ancora lei!».
«Lei torna al discorso di prima, che è del tutto campato in aria. Lo vorrei vedere questo elenco delle cose scomparse! Ma poi, io che c’entro? E comunque basta così, mi dispiace che non l’abbia capito. Adesso, comunque, ho un impegno, aspetto persone, e perciò la debbo salutare, signore».
Lettera a papa Benedetto XVI, 14 settembre 2009
Santità,
nella notte fra il 22 e il 23 dicembre 1988 il cadavere di don Tonio Pittau, parroco della cattedrale di Cagliari, fu portato in un burrone di campagna simulando un incidente stradale. In realtà egli venne assassinato. Questa fu anche l’opinione espressa, fin dall’inizio, dagli agenti della Polizia scientifica che indagarono, accertando che sul punto la vettura non poteva essere precipitata se non a seguito di numerose manovre intenzionalmente effettuate. E peraltro il corpo del sacerdote fu trovato adagiato a terra, con il capo su un cuscino e protetto da un grande telo. Aveva la nuca assolutamente priva dell’osso, perché, di fatto, era stato picchiato a morte e dunque certamente non avrebbe potuto lui coricarsi e coprirsi per proteggersi dal freddo!
Per due volte la magistratura ha aperto una inchiesta, senza però risultato. Attualmente l’inchiesta è “in sonno”, in attesa di auspicabili nuove rivelazioni.
Il caso è complicato e in questa sede non La trattengo sui dettagli. Aggiungo però che è accertato che egli era stato più volte minacciato, e che non gli fu fatta, a suo tempo, l’autopsia. Se questa fosse stata effettuata, avrebbe facilmente rilevato che non poteva trattarsi di incidente d’automobile ma di morte causata da efferata violenza. Preciso inoltre che attualmente la richiesta di autopsia avanzata al magistrato dal fratello del sacerdote deceduto – anch’egli sacerdote e anch’egli divenuto una decina d’anni fa parroco della cattedrale, don Aldo Pittau, convintissimo della morte violenta del congiunto – non è stata accolta dal giudice.
Ma al di là del caso nei suoi aspetti giudiziari, desidero far presente a Lei la totale mancanza di fraternità sacerdotale nella diocesi di Cagliari, ad iniziare dal suo algido arcivescovo Mani, il quale fu informato, al suo arrivo in città, proprio da mons. Aldo Pittau, del delitto dell’antivigilia del Natale 1988. Per tutta risposta egli osservò di non essere interessato, trattandosi di evento precedente al suo arrivo in diocesi.
Io sono convinto che se i sacerdoti della diocesi fossero impegnati a dire ciascuno quel poco che sa, tanto più dell’ambiente squallido che caratterizzava la cattedrale alla fine degli anni’80 e anche dopo e che il compianto parroco cercava di risanare, se ne potrebbero ricavare notizie utili alla indagine. E invece tutti tacciono, e la fraternità sacerdotale è un altro mito vuoto di contenuto ed espressione di ipocrisia della Chiesa ministeriale di Cagliari priva di guida autorevole per le improvvide determinazioni assunte dalla Santa Sede nel 2003.
Tanto sentivo il dovere di comunicarLe, per le Sue decisioni.
Allego alla presente copia di un articolo che in occasione del 20° anniversario di quella morte tragica pubblicai sulla “Nuova Sardegna”, nel quale feci appello proprio ad una fraternità sacerdotale dimostratasi, anche dopo quella pubblicazione, penosamente inesistente.
Con viva cordialità