Gli indipendentisti catalani: “Questa volta sarà secessione”

La coalizione del “fronte del sì” sfida Madrid. Il 27 settembre le regionali. Quattro articoli provenienti da  LA STAMPA.

Gli indipendentisti catalani: “Questa volta sarà secessione”

08/09/2015

FRANCESCO OLIVO

BARCELLONA

Stavolta fanno sul serio. «Catalogna indipendente» per decenni è stato una specie di slogan buono per cortei e qualche esibizione identitaria, un miraggio senza data. Poi qualcosa è cambiato, e la Spagna adesso guarda a Barcellona con autentica paura. Mancano venti giorni alle elezioni locali, intese dal governo catalano come un plebiscito per la secessione e i sondaggi, pubblicati ieri dal El Mundo e domenica dal Periodico de Catalunya, parlano chiaro: i partiti che vogliono staccarsi dalla Spagna avrebbero la maggioranza dei seggi al Parlamento, 46% un numero «sufficiente affinché cominci la disconnessione unilaterale da Madrid» come ha ripetuto il presidente della Generalitat Artur Mas in una lunga intervista sul quotidiano La Vanguardia.

LA DETERMINAZIONE

Una scelta con conseguenze così profonde può essere portata avanti con il 46 per cento dei voti? Per molti rappresenterebbe una forzatura democratica e gli stessi secessionisti, uniti in un listone elettorale, se ne rendono conto: «Noi preferiamo un referendum come in Scozia – spiega alla Stampa il leader di Esquerra Republicana de Catalunya, Oriol Junqueras – sarebbe stato più chiaro, ma il 9 novembre dello scorso anno hanno dichiarato illegale la nostra consultazione e non ci resta altro che utilizzare la nostra legge elettorale per far decidere i catalani».

La road map è definita: se la coalizione «Junts pel Sí» (uniti per il sì) e gli alleati anticapitalisti della Cup dovessero vincere le regionali del 27 settembre, viene proclamata l’indipendenza unilaterale, partono i negoziati con Madrid e il parlamento di Barcellona si mette in moto per creare una legislazione autonoma. Alla fine del processo si vota la costituzione della nuova repubblica catalana. Durata del processo, massimo 18 mesi.

Nella capitale spagnola nessuno ha dubbi: Artur Mas e soci si stanno ponendo fuori dalla legge. Ma l’argomento degli avversari della secessione è un altro: la Catalogna oltre ad abbandonare la Spagna, uscirebbe anche dall’Unione europea e magari anche dalla moneta unica. Un salto nel buio che spaventa banche e imprese. «Sarebbe un disastro per l’economia» dice il ministro delle finanze spagnole Montoro. Mas nega lo scenario, Junqueras promette «la Catalogna continuerà a far parte dell’Ue». Un ottimismo non condiviso dagli ipotetici partner. Angela Merkel ha spiegato pochi giorni fa, accanto al premier spagnolo Rajoy, che «va salvaguardato il principio di integrità degli Stati». Ancora più esplicito il capo del governo britannico, David Cameron: «La Catalogna in Europa? Si dovrà mettere in coda».

LE PAURE DEL GOVERNO

Il governo Rajoy studia le contromosse, un articolo della costituzione consentirebbe di sospendere l’autonomia in caso di gravi violazioni, una misura estrema che potrebbe esacerbare gli animi. Nel frattempo il Partito Popolare ha proposto una riforma per sanzionare chi non dovesse obbedire alle sentenze del tribunale costituzionale. Destinatario esplicito: la Generalitat. Misura che ha fatto gridare al fascismo i «catalanisti» e che ha visto contrari anche tutti gli altri. La tensione, la previsione è facile, salirà nei prossimi giorni. Venerdì sulla via Meridiana di Barcellona va in scena la Diada, la grande celebrazione della Catalogna, storica prova di forza anti spagnola, che quest’anno coincide con l’apertura ufficiale della campagna elettorale (coincidenza del calendario, non certo del fato).

Sullo sfondo ci sono le elezioni politiche, fissate, ancora non ufficialmente, per il 20 dicembre. Secondo molti analisti, una situazione tesa in Catalogna favorisce la destra. Ma tra oggi e dicembre può davvero succedere di tutto, persino che el clasico del calcio Real Madrid-Barcellona si giochi soltanto in Champions League.

La bomba catalana sulla spagna

20/09/2015

ROBERTO TOSCANO

Per citare il titolo di un film di Almodóvar, la Spagna è sull’orlo di una crisi di nervi, e forse ci è già dentro. A pochi giorni dalla data delle elezioni regionali in Catalogna, 27 settembre, lo spettro – per alcuni il miraggio – di una secessione catalana è al centro di dibattiti aspri, di divisioni, di polemiche.

Per un osservatore straniero prevale un senso di incredulità. Non perché esistano spinte indipendentiste in un Paese democratico e pluralista (dopo tutto, esistono anche in Scozia), ma perché il tono dell’indipendentismo catalano, e delle repliche del governo di Madrid, è molto più aspro, e rivela una scarsa disponibilità al compromesso che fa temere che, comunque vadano le elezioni, la situazione possa produrre tensioni istituzionali difficilmente risolvibili.

La prima peculiarità della situazione dipende dal fatto che la consultazione del 27 settembre non sarà un referendum, non permesso dalla vigente costituzione spagnola, ma un’elezione a livello di autonomia alla quale il Presidente regionale Artur Mas e i partiti che lo appoggiano hanno peraltro attribuito un valore quasi-plebiscitario nel dichiarare che se emergerà una maggioranza a favore dell’indipendenza, questo si dovrà interpretare come «un mandato legale e politico» per dare avvio al calendario che dovrà portare alla proclamazione di uno Stato indipendente. Va precisato che la maggioranza di cui parlano gli indipendentisti sarà misurata in termini di seggi nel parlamento regionale, e non di voto popolare. Un voto indipendentista che, secondo gli ultimi sondaggi, non dovrebbe andare oltre il 45 percento. Significherebbe dichiarare l’indipendenza sulla base del consenso di meno della metà della popolazione.

Ma da dove viene la spinta all’indipendenza? A differenza dalla Scozia, non siamo in presenza di una divergenza di orientamenti politici di fondo fra centro e periferia, dato che sia a Madrid che a Barcellona il governo è nelle mani di partiti di destra. Ragioni economiche, allora? Per noi italiani non risulta difficile capire, ma anche vederne limiti e pretestuosità, come possa nascere la polemica di una regione economicamente più avanzata nei confronti del resto del Paese, e soprattutto della capitale, di cui si denuncia un sostanziale parassitismo. Il «Madrid ci deruba» della polemica degli indipendentisti catalani corrisponde esattamente al «Roma ladrona».

E’ importante considerare la dimensione internazionale, a partire da quella europea. Le ripetute affermazioni dei dirigenti indipendentisti secondo cui la Catalogna indipendente resterebbe nell’Unione Europea sono state smentite non solo dal governo di Madrid, ma dalla stessa Commissione con una dichiarazione del 17 settembre che non permette equivoci: «Se una parte di uno Stato membro diventa indipendente, i Trattati smetterebbero di applicarsi ad essa, che si convertirebbe in uno Stato terzo che risulterebbe automaticamente fuori dall’Unione e dovrebbe chiedere l’adesione». E non può sfuggire che a quel punto la necessaria unanimità degli attuali membri a favore dell’ingresso nella Ue della Catalogna indipendente risulterebbe del tutto ipotetica. Va ricordato che la Spagna, proprio per le sue preoccupazioni anti-separatiste non riconosce nemmeno il Kosovo indipendente.

Ma allora? Se i vantaggi economici della secessione sono tutt’altro che chiari, e se sarebbe più che a rischio la possibilità di appartenenza all’Unione, che senso ha la prospettiva dell’indipendenza? Possibile che i catalani, famosi, oltre che per la loro laboriosità e la loro concretezza, per il loro essere attenti alla convenienza e all’utile (per capirci, in Spagna i catalani hanno una reputazione simile a quella che i genovesi hanno in Italia) si stiano imbarcando in un’avventura obiettivamente azzardata?

Certo, la spiegazione può essere ricercata tenendo presente che è un classico universale, per una classe politica in difficoltà, fare appello al nazionalismo. In concreto, la classe dirigente catalana è stata ultimamente coinvolta in vari casi di corruzione – in questo, senza molte differenze dalle vicende politico-giudiziarie che hanno interessato esponenti del potere centrale – e certo sventolare la bandiera può risultare un’utile diversione. Ma c’è qualcosa di più. C’è il fatto che, come disse una volta Raymond Aron, «se pensiamo che la gente non sia disposta a sacrificare i propri interessi alle proprie passioni, ci sbagliamo di grosso».

Le passioni indipendentiste catalane vengono da lontano. Si basano soprattutto sulla lingua – una lingua dalle antiche radici e con una ricca produzione letteraria a partire dal Medio Evo che, sottoposta a repressione durante il franchismo e il suo tentativo di imporre il monopolio del castigliano è sopravvissuta nelle famiglie e, a differenza dal basco, è una realtà maggioritaria e radicata. Ebbene, gli indipendentisti catalani denunciano oggi una discriminazione del tutto inesistente, dato che anzi è la lingua spagnola ad essere discriminata nel sistema educativo catalano. In Catalogna esiste oggi un bilinguismo di fatto, ma una sistematica egemonia, promossa a livello ufficiale, della lingua catalana, fra l’altro con il crescente rischio della «provincializzazione» di una regione che finora era stata uno dei centri più vitali della cultura spagnola a livello mondiale: basti pensare alle attività editoriali, e al numero di intellettuali latino-americani che avevano scelto Barcellona per lunghi anni di esilio creativo.

Colpisce anche, e preoccupa per le sue conseguenze, la rivisitazione nazionalista della storia, con l’immagine di una Catalogna come proto-Stato fin dai tempi più antichi, e soprattutto sempre sfruttata, sempre martire. Viene in mente Benedict Anderson e il suo libro «Comunità immaginate» – immaginate e non immaginarie, nel senso che tutte le entità nazionali sono prodotti culturali e politici con un loro profilo e una loro legittimità, ma tendono ad essere rappresentate dal nazionalismo in termini storicamente insostenibili, schematici, semplificati, con il risultato di aumentare il potenziale conflittuale nei confronti dell’Altro e di accantonare il rispetto delle regole esistenti e la considerazione degli interessi altrui. Solo un’evoluzione federale potrebbe garantire il mantenimento di uno Stato spagnolo unito ma capace di dare spazio a tutte le realtà che lo compongono.

Purtroppo, il discorso federale è arrivato tardi, e oggi è troppo per i centralisti e troppo poco per gli indipendentisti.

Il pericolo è che il nazionalismo catalano, con la sua scomposta provocazione, possa ridare spazio a un nazionalismo spagnolo che la Spagna democratica del post-franchismo ha certamente esorcizzato, imbrigliato e rimosso dalla propria identità politico-culturale, ma che, per reazione, potrebbe tornare a mostrare il suo volto peggiore. Quello contro cui il nazionalismo catalano sta conducendo una battaglia anacronistica che potrebbe però rivelarsi una profezia auto-realizzata.

 

La Catalogna indipendentista mette in fuga banche e imprese

L’allarme nel mondo del business: pronti a trasferire i nostri affari

 

Oltre un milione di persone hanno manifestato l’11 settembre per le strade di Barcellona in occasione della festa nazionale catalana

 

20/09/2015

FRANCESCO OLIVO

BARCELLONA

Per concludere la manifestazione oceanica dell’11 settembre gli indipendentisti avevano scelto la Cittadella di Barcellona. Un luogo simbolico, ancora più in queste ore in cui la Catalogna «irredenta» si sente sotto assedio, cinta da un cordone sanitario posto contro il rischio di una secessione. L’ultima degli avvertimenti che arriva da Madrid è forse il più temuto: “Se vi staccate dalla Spagna il Barça non giocherà più nella Liga” dice il Consiglio superiore dello sport.

La comunità autonoma va al voto tra sette giorni, semplici elezioni regionali, trasformate di fatto in un plebiscito per l’indipendenza. Se la coalizione Junts pel Sí (Convergencia di Artur Mas, più Esquerra Republicana) dovesse ottenere la maggioranza dei seggi, si metterebbe in marcia il processo di indipendenza unilaterale, 18 mesi per costruire il nuovo Stato. Dopo mesi di sostanziale indifferenza verso la sfida catalana, Madrid si è mossa, «con l’artiglieria pesante» dice il governatore Mas. A far cambiare linea al governo Rajoy sono stati i sondaggi che assegnano ai secessionisti la maggioranza assoluta (l’ultimo è uscito ieri) e le immagini di Barcellona invasa da un milione di indipendentisti.

Le ultime a scendere in campo sono state le banche, comprese quelle catalane, come La Caixa e Banco Sabadell, spaventate da una possibile uscita dall’Ue e dall’euro. «Un situazione che crea gravi problemi – scrivono in un comunicato Aeb e Ceca, le due associazioni di categoria – obbligandoci a riconsiderare la nostra presenza in Catalogna» Messaggio chiaro: ce ne andiamo. Stessa linea, grosso modo, dell’associazione delle imprese che operano a Barcellona e dintorni, multinazionali comprese. Il presidente della Generalitat Mas si toglie i panni di politico moderato: «Catalani, il vostro voto vale di più dei poteri forti». E per cautelarsi chiama gli osservatori internazionali a vigilare sulle elezioni di domenica.

I governi

Altre pressioni fortissime arrivano dall’estero. La Commissione europea avverte: «Se una regione cessa di far parte di uno Stato membro, i trattati non si applicheranno più su quel territorio», ha spiegato la portavoce Margaritas Schinas. Qualche ora prima, Barack Obama, ricevendo il Re di Spagna alla Casa Bianca, auspicava una «Spagna forte e unita», formula già usata per il Regno Unito alla vigilia del referendum scozzese. Una frase tradotta male dall’interprete e prontamente spiegata ai giornalisti, nella sua accezione anti catalana, dal ministro degli Esteri Margallo presente a Washington. «La Spagna aveva chiesto agli Usa qualcosa di più esplicito» sussurrano da Barcellona. Più netti contro l’indipendenza erano stati, qualche giorno fa, Merkel e Cameron. Secondo Mas c’è un’offensiva che Madrid sta portando avanti con i propri alleati, pretendendo dichiarazioni di sostegno in un momento diventato delicato. «Hanno già rinunciato a vincere le elezioni – dice il capo della comunicazione con l’estero del governo catalano, Jaume Clotet – e allora le tentano tutte. Dopo Obama gli resta solo da coinvolgere il Papa».

Le contromosse

Una strategia diplomatica la sta tentando, pur con altri mezzi, la coalizione indipendentista, che ha inviato alle ambasciate a Madrid un memorandum con i punti essenziali della sfida. Stessa funzione della quale sono incaricate le sedi catalane all’estero, delle ambasciate informali, aperte recentemente in molte capitali europee, Roma compresa.

 

 

La storia di Teresa, la suora spagnola che ha lasciato la clausura per la politica

Ha fondato un partito e, a 48 anni, vuole candidarsi come presidente della Catalogna

16/06/2015

Nella sorprendente politica del “nuovo” che agita la Spagna, a Barcellona spunta suor Teresa Forcades, una religiosa benedettina che ha chiesto, e ottenuto da oggi, di lasciare la clausura per lanciarsi nella lotta politica. Suor Teresa, 48 anni, intende essere candidata alla presidenza della Catalogna alle regionali del 27 settembre, alla guida di un fronte della sinistra nel quale vuole integrare anche i post-indignados di Podemos, partito che già governa Barcellona con il sindaco “anti-sfratti” Ada Colau.

Nonostante gli impegni, e in teoria gli obblighi, della vita contemplativa, la monaca imperversa già da settimane nei media catalani. Ha anche formato un suo partito Proces Costituent, che si è alleato con Podemos e con altre formazioni di sinistra alle comunali del mese scorso nella lista Barcelona en Comu’ guidata da Ada Colau.

Da oggi è ufficialmente dispensata dalla clausura per un anno, prorogabile fino a tre, per dedicarsi a tempo pieno alla battaglia politica. Appena lasciato questa mattina il monastero di Sant Benet a Monserrat, ha invitato Podemos, la Sinistra Repubblicana Catalana di Erc, gli indipendentisti di Cup e di Iniciativae Euia a tenere una riunione questa settimana per formare un’alleanza per il 27 settembre. Lei intende esserne la “numero uno”, e sfidare nelle urne il “governatore” uscente, il nazionalista di Ciu, Artur Mas, pure lui indipendentista, ma di centro.

Suor Teresa ha le idee chiare. Ha già fissato tre condizioni per un accodo elettorale con Podemos e gli altri: «Aprire un processo costituente catalano, con l’impegno di convocare un referendum sull’indipendenza, governare con politiche anticapitaliste e varare un piano d’urto in favore del 30% di abitanti della Catalogna in situazione di esclusione sociale». Suor Teresa si dichiara non solo indipendentista, ma anche femminista, di sinistra e sostenitrice dei diritti dei poveri e degli esclusi di tutto il mondo.

Alle comunali si è scontrata con la consorella Lucia Caram, pure monaca benedettina contemplativa, che sosteneva invece la lista del sindaco uscente nazionalista Xavier Trias, poi arrivata secondo dietro a Colau. “Sor Lucia”, che si dice “innamorata” del presidente catalano Artur Mas, è pure lei già una star mediatica in Catalogna. Ha perfino un suo programma di cucina in tv.

Visibilmente la clausura in terra catalana ha un significato particolare. Suor Teresa, lasciando il convento, ha spiegato ai cronisti che le mancheranno soprattutto i 5 momenti di preghiera quotidiani. Ha chiesto alla madre superiora di poter tornare una volta alla settimana, politica permettendo, per ritemprarsi spiritualmente. «Lo raccomando a tutti: fermarsi cinque volte al giorno per chiedersi, “perché sono qui” ». Per ora prevede di tornare alla clausura tra un paio d’anni, forse tre, dopo, spera, avere proclamato l’indipendenza.

 

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