La Sardegna con l’Italia nel mondo, per evitare l’ «esilio dalla storia». Bachisio Zizi, un umanista al comando d’una banca, di Gianfranco Murtas

Il Trattato di Maastricht, generatore della Unione Europea come evoluzione della Comunità [Economica] Europea, sarebbe stato firmato nel febbraio 1992 dai governi della “piccola Europa”. Stabiliva rigorosi parametri e regole tanto sul versante politico quanto su quello economico per eventuali, probabili, espansioni ulteriori (tanto più sul versante orientale dopo il disfacimento della cortina comunista). Nel giro di pochi anni l’U. E. ha più che raddoppiato il numero dei paesi aderenti.

Sul fronte nazionale le prospettive continentali impegnavano, con le grandi compagnie industriali, anche le istituzioni economiche e finanziarie, creditizie e monetarie a svecchiare e rimodellare profili giuridici ed operativi. Dopo la stagione (negli anni ’80) delle riorganizzazioni territoriali, con le cosiddette “macroaree” e i poteri delle direzioni generali decentrati in capo a staff di vertice regionale o pluriregionale, si affacciava per le banche pubbliche, a controllo mediato dello Stato, un rischioso (ma necessario) processo di privatizzazione, di trasformazione in società per azioni, di collocamento dei capitali sul mercato della domanda e dell’offerta di investitori, ed infine di aggregazione.

Sul numero 24 dell’ottobre 1989 di Sardegna Economica, il periodico della Camera di Commercio di Cagliari, Bachisio Zizi – al tempo capo area Italia centrale del Banco di Napoli (comprendente le regioni Lazio, Toscana, Umbria, Marche, Abruzzo e Molise ) – aveva risposto ad alcune domande circa le ricadute che le novità alle viste avrebbero avuto nella nostra Isola in manifesto ritardo su molti fronti economico-produttivi ma non priva, al contrario!, di talenti e potenzialità da sviluppare non chiudendosi ma aprendosi al mondo, meticciando le esperienze.

M’è capitato di ritracciare quel testo di oltre un quarto di secolo fa, datato per alcuni riferimenti ma pienamente illuminante, a mio avviso, della personalità di Zizi, intellettuale e scrittore fra i maggiori del nostro Novecento sardo e insieme bancario-banchiere, alto dirigente di un istituto che in Sardegna ha svolto dal 1890 al 2003 un ruolo centrale nell’assistenza creditizia a generazioni di contropartite grandi e piccole dei diversi territori e dei più vari comparti.

A un anno di distanza dalla sua dolorosa scomparsa, credo utile riproporre analisi e riflessioni (“Conto alla rovescia per le banche verso l’appuntamento europeo”) che evidenziano quanto a me, privilegiato e fortunatissimo, fu chiaro e palpabile nei lustri della diretta e quotidiana collaborazione con lui e poi ancora nel tempo della frequentazione extrabancaria. Le risposte alle mie domande non sono mai secche: vengono sempre introdotte in un contesto logico e marcano le relazioni fra il materiale e l’immateriale, fra il pensiero ed il fenomeno sociale…

 

Visto dai Suo osservatorio, quanto c’è di enfasi retorica e quanto di real­mente giustificato nelle attese del fatidi­co ’92?

In questa nostra epoca, caratterizzata dalla ridondanza e dal superfluo, la pa­rola non riesce più a dare nome alle co­se: da dimora dell’essere, come è stata definita, essa si è ridotta via via a luogo di confusioni, in cui rischia di smarrirsi ogni nostra capacità di intendere e co­noscere. «Il grido è tanto alto che non s’ode», verrebbe di ripetere, pensando a quest’eccesso di significazione, che sem­bra condannarci a muoverci per imita­zione o contagio, subendo gli eventi sen­za poterli pensare. Il troppo parlare del 1992, evento invocato e temuto allo stesso tempo, ha finito per determinare uno svuotamento di verità a vantaggio dei segni esteriori.

In quella data di calendario non si compirà nessun rivolgimento. Il proces­so del mercato unico europeo, da tempo avviato, certamente entrerà nella fase delle realizzazioni, ma si tratterà di espandere, sviluppare e consolidare idee, credenze e attese sedimentatesi nel­le nostre coscienze sotto la spinta delle cose, prima che intervenisse il legisla­tore. La rivoluzione tecnologica e il nuovo modo di concepire il tempo e lo spazio hanno portato via via alla mondializza­zione dei problemi, per cui il mercato unico europeo è soltanto un momento, un passaggio delle integrazioni a livello planetario cui sembra approdare questa fase della nostra storia. La caduta delle ideologie, il dialogo tra Est e Ovest, il declino dell’eurocentrismo e il grande disagio ecologico aprono scenari finora sconosciuti, nel cui sfondo c’è l’incon­tro-scontro tra Nord e Sud, problema epocale dell’imminente duemila.

 

Come si è preparata o si sta preparan­do l’Italia in vista del ’92?

Il viaggio di avvicinamento a questo mitico traguardo, nel nostro paese, si è iniziato fin dagli anni ’70, da quando è stato avviato il faticoso processo di ammodernamento delle nostre imprese che, con la loro totale dipendenza dal capitale di prestito e la rigidità dei loro costi di struttura, sembravano condan­nate a un irreversibile degrado.

Questa rivoluzione silenziosa ha inve­stito l’impresa in tutte le sue componen­ti, restituendole la centralità perduta. Tutto ciò è accaduto sotto la spinta de­gli altri contesti con cui abbiamo dovuto confrontarci nei mercati del mondo. La filosofia della «deregulation» che è an­data affermandosi come bisogno incon­tenibile dell’economia reale, ha esaltato il ruolo dei nostri imprenditori, chia­mati a cimentarsi in scenari sempre più ampi. Sono stati anni di trapasso e di creati­vità, con l’impresa che è divenuta il cen­tro di irradiazione di tutto ciò che di vi­tale e di duraturo si progetta e realizza nel nostro paese.

 

Quali mutamenti ha subito l’impresa durante questo processo?


Non a caso ho parlato di recupero della centralità perduta. Per poter eser­citare la propria egemonia, l’impresa ha dovuto mutare se stessa e il suo rappor­to col mondo. Le trasformazioni interne hanno ri­guardato: la struttura giuridica, orienta­ta verso la spersonalizzazione dei conte­sti aziendali, col prevalere del manager imprenditore rispetto al padrone im­prenditore; le innovazioni tecnologiche, mirate a introdurre nuove dinamiche nelle curve dei costi di struttura; la ri­qualificazione delle maestranze, privile­giando il momento qualitativo rispetto al momento quantitativo. Nei rapporti con l’esterno i mutamenti hanno porta­to a una maggiore attenzione verso il mercato, divenuto il vero suggeritore e regolatore di ogni scelta operativa. In questo senso, a parte l’aspetto conosci­tivo, è stata posta una cura particolare nello sviluppo delle reti di distribuzione, istituendo rapporti più appropriati con gli ambiti territoriali prescelti.

Mi pare di poter dire che il nostro mondo imprenditoriale giunge all’ap­puntamento del 1992 con una piena consapevolezza dei compiti che l’atten­dono, e comunque preparato a difen­dersi all’interno e all’esterno.

Questo giudizio riguarda la generalità delle imprese?

Il nostro mondo imprenditoriale è frastagliato, come è frastagliato il siste­ma economico di riferimento. Vi è una disparità di posizioni e di condizioni, che mutano da settore a settore e anche da regione a regione. L’attesa del 1992 è vissuta con particolare apprensione so­prattutto da parte delle piccole e medie imprese. Si ritiene, a torto, che nell’ago­ne europeo abbia possibilità di vita solo l’infinitamente grande. Non è così. Un Dio economico esiste anche per l’infini­tamente piccolo, che costituirà ancora il tessuto connettivo di ogni sistema d’im­presa.

 

E nel mondo bancario cos’è accaduto e cosa sta accadendo?

Il nostro sistema bancario non sem­bra pronto per il ’92. Il ritardo non è da imputare all’imprevidenza degli uomini, bensì ai condizionamenti e ai vincoli che storicamente hanno reso le nostre ban­che simili a giganti impediti. Alcuni vincoli sono di ordine istitu­zionale e riguardano il peso della com­ponente pubblica, che in molti casi ha finito per trasformare il «sistema» in un’arena di giochi politici e clientelari. Altri vincoli riguardano la polveriz­zazione delle aziende bancarie, l’im­propria distribuzione della rete sportelli e i molti divieti derivanti dalla riforma del ’36.

 

Si può parlare di ritardo dovuto alla immobilità?

Il nostro «sistema», che ha vissuto e prosperato in un regime di accentuato protezionismo, ha mirato prevalente­mente ad amministrare l’esistente, capitalizzando la propria rendita di posi­zione. Le spinte all’innovazione sono venute dal dinamico mondo imprenditoriale che, una volta recuperata la propria autonomia, si è fatto portatore di nuovi bisogni, travolgendo i tradizionali schemi operativi delle banche. Ci sono state anche le sollecitazioni dei contesti bancari più evoluti, dai quali, insieme a un nuovo linguaggio, è stato mutuato un diverso modo di affrontare la domanda che sale dall’economia reale. Al nostro «sistema», insomma, è mancata una elaborazione originale nel dare risposte al mondo imprenditoriale, costretto spesso a rivolgere le proprie istanze direttamente alle banche estere.

 

Il  fattore dimensionale, riferito ai soggetti economici, assume un’evidente centralità nello scenario post ’92. In quale misura questo fenomeno interessa o interesserà anche il mondo bancario?

Il problema si pone anche per la ban­ca, visto però non solo in termini quan­titativi. Nel settore bancario il misurato­re delle dimensioni è dato dalla massa intermediata e dalla rete degli sportelli. La combinazione di questi due elementi genera stime di qualità (per esempio i giusti rapporti che devono sussistere tra la produttività dei singoli sportelli e il volume complessivo degli affari). Attraverso le dimensioni si cerca anche di superare la separazione tra aziende bancarie e istituti di credito speciali, con la tendenza a realizzare una sorta di banca universale.

Le iniziative convulsamente speri­mentate dal nostro «sistema» tendono a razionalizzare la rete sportelli, attraver­so il sistema delle fusioni o incorpora­zioni, ad ammodernare le procedure e soprattutto a riqualificare le poste dell’attivo e del passivo dei bilanci, per compensare la tendenziale caduta del margine d’intermediazione, destinata ad accentuarsi con la calata delle banche estere. Intanto, acquista sempre mag­giore peso la componente servizi nell’at­tività delle banche, che non sono più santuari per una cerchia ristretta di clienti, ma chiese aperte a tutto il popo­lo di Dio.

 

Pensa che trovi riscontro nelle effetti ve esigenze del Meridione il progetto che ogni tanto si affaccia di una grande ban­ca a medio termine, che veda coinvolti in un processo d’integrazione istituti co­me il CIS e l‘ISVEIMER?

Il nostro paese, a distanza di oltre un secolo dall’impresa di Garibaldi e dalla Breccia di Porta Pia, non ha ancora rag­giunto una sua unità economica. Il siste­ma economico italiano è rimasto duali­stico, con un Nord dinamico e in forte espansione e un Sud che è sempre al limite del sottosviluppo. Per giunta, al suo interno, il Sud presenta una realtà composita, con centri e periferie cui cor­rispondono altri dualismi, con un moltiplicatore senza fine. Il Sud, comunque, è portatore di una sua specificità che pone problemi quali­tativamente nuovi all’imprenditoria in generale e al sistema bancario in parti­colare. Non appena cadranno gli incen­tivi che determinano il cosiddetto credi­to agevolato, il Sud, per sopravvivere e crescere», avrà bisogno di un sistema bancario propositivo e trainante, capace comunque di portare il mondo imprenditoriale a trovare una propria via autonomia allo sviluppo.

A parte le altre urgenze, alle banche operanti al Sud si pone la necessità di essere anche banche d’affari, dotate di strutture e di risorse all’altezza dei nuovi compiti.

Non so se l’integrazione degli Istituti citati possa costituire una risposta esau­riente ai bisogni sopra delineati. Certo occorre uscire dall’attuale frantumazio­ne, ma attraverso la costituzione di gruppi o complessi aziendali che abbia­no contenuti ben più vasti di quelli che possono ottenersi dalla somma di entità che hanno pur sempre respiro limitato. Le alternative che si prospettano vanno in altra direzione, a cominciare dal preannunciato incontro Banco di Napoli-IMI. Preliminare a ogni discorso di concentrazione è la trasformazione degli Istituti a carattere pubblico in SpA.

Portiamoci nel concreto ambito isola­no. Secondo quanto Le risulta, le im­prese sarde sono davvero consapevoli dell’urgenza di un loro adeguamento al­la nuova realtà?

Vista da lontano, la Sardegna appare sempre più sola e più vulnerabile nelle sue strutture imprenditoriali. Eppure, al di là dell’impossibile confronto col più solido contesto nazionale, qualcosa si muove. Intanto sta emergendo una clas­se imprenditoriale impegnata a colmare i ritardi storici che pesano sulla nostra realtà come una maledizione. È evidente che la Sardegna deve entrare in sintonia col resto del mondo, te­nendo presenti le nostre specificità, compresa l’insularità, che può conti­nuare a gravare come un disvalore, o porsi come fattore propulsivo e sarà da­ta pienezza di contenuti alla nostra cen­tralità geografica. Anche l’imprenditoria sarda  dovrà porsi  problemi  strutturali  riguardanti l’assunzione  di forme giuridiche più idonee,  l’innovazione tecnologica e l’istituzione di collegamenti più sistematici col  mercato interno ed esterno. Ma l’imprenditore sardo ha bisogno anche di potersi rivolgere a un mercato finanziario efficiente che lo liberi dalla dipendenza dal sistema bancario che an­cora persiste. Forse i tempi sono maturi per ripren­dere il discorso di come dare a Cagliari la dignità di sede di Borsa, un luogo d’incontro cioè tra domanda e offerta di capitali.

 

Nell’Isola le due banche regionali [Banco di Sardegna e Banca Popolare di Sassari] che da sole assommano i due terzi della mas­sa intermediata dovranno trovare altre formule di consorzio o partnership per sopravvivere nel prossimo futuro. Quali potrebbero essere queste soluzioni tecni­co- giuridiche?

Non spetta a me dare indicazioni in questo senso. Mi sfuggono molti ele­menti di giudizio e poi sarei irriguardoso verso gli organi che hanno il potere di decidere in materia. Le due banche, pur profondamente diverse per tradizioni, dimensioni e na­tura giuridica, hanno in comune la vo­cazione regionalistica e anche uno spiri­to di competizione tra di loro che ricor­da epoche lontanissime dalla moderna cultura bancaria. Mi domando se il respiro regionale di una banca possa essere considerato ancora un valore dall’imprenditoria sarda, che ha un estremo bisogno di essere indirizzata, assecondata e sostenuta da banche che abbiano un orizzonte opera­tivo universale. Intanto, anche al maggiore istituto sardo si pone il problema della ricapita­lizzazione, che pare possa risolversi or­mai solo attraverso la trasformazione in SpA. Nessuna scelta strategica può pre­scindere da questo problema, che viene prima anche della razionalizzazione del­la rete sportelli, la cui rilevanza è esalta­ta dall’imminente ’92. I problemi della banca minore credo possano trovare soluzione nell’ambito dell’Istituto di categoria cui essa appar­tiene.

 

Come giudica il revival che ancora in larga parte c’è, nel sentimento popola­re, di panregionalismo, in rapporto ai «segni dei tempi nuovi» che invece par­lano di integrazione e di larghe concentrazioni strategiche ed operative fra i protagonisti istituzionali, politici ed economici?

Vorrei riportare il discorso alla Sarde­gna, che non sa ancora se continuare ad ascoltare il richiamo forte della sua di­versità, che la porta a reclinare su se stessa, oppure aprirsi ai mondo e dialo­gare con esso, assumendo il linguaggio della modernità. È un nodo che va sciol­to senza ulteriori rinvii. Pena: l’esilio dalla storia. È nel nostro destino essere in bilico tra antico e moderno. Tuttavia, se riusciremo a trovare una sintesi tra questi due momenti, forse ac­quisterà un senso la nostra sardità insie­me al sentimento della «compresenza» in cui vogliamo continuare a vivere. Nessun discorso di crescita può essere affrontato se non sapremo ricomporre le nostre divisioni e lacerazioni che sem­brano attraversarci anche individualmente. In questa che è anche l’epoca delle grandi intese e delle integrazioni, per riappropriarci della soggettività per­duta abbiamo bisogno di educarci all’a­gire comunicativo, fondamento di ogni modernità. Insomma, dobbiamo ancora scoprire «l’altro» e assimilare il concet­to di relazione. Sono istanze culturali dalle quali nessuna componente della nostra società può prescindere.

 

 

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