IL PARTITO FRAGILE, di Angelo Panebianco

Come in tutti i luoghi comuni, anche in quello che assimila Renzi a Berlusconi c’è qualcosa di vero. Ma solo nel senso che entrambi, Renzi e Berlusconi, per traiettorie e ragioni diverse, sono i leader di una democrazia post-partitica.


È solo un apparente paradosso il fatto che proprio nella fase in cui la leadership di Matteo Renzi sferza il Partito democratico puntando a farne il «Partito della nazione», appellativo nobile che, in sostanza, indica un puro catch all party , un puro partito pigliatutto, capace di acchiappare consensi a destra e a sinistra, l’organizzazione dello stesso partito, soprattutto alla periferia, entra in una crisi che appare irreversibile (la vicenda di Roma è solo la più eclatante).

Non nel senso che tale crisi starebbe per distruggere il partito, come sostengono i catastrofisti, ma nel senso che distrugge le radici, spezza gli ultimi legami che ancora collegavano il Pd alle antiche formazioni di cui è l’erede. Diciamo che gli attuali sembrano essere i travagli destinati (se Renzi non viene prima fermato dai suoi nemici interni di partito) ad eliminare quelle connessioni col passato che fino ad oggi hanno resistito e che rendevano lecito definire il Pd una formazione post-comunista.

Come in tutti i luoghi comuni, anche in quello che assimila Renzi a Berlusconi c’è qualcosa di vero. Ma solo nel senso che entrambi, Renzi e Berlusconi, per traiettorie e ragioni diverse, sono i leader di una democrazia post-partitica. Intendendo per tale una democrazia che non ha più partiti radicati nella società, partiti i cui principali punti di forza siano gli iscritti, la partecipazione collettiva, eccetera. Quando emerse (nel 1994) la leadership di Berlusconi, i partiti storici che avevano organizzato il consenso dell’Italia moderata per quasi un cinquantennio, erano stati distrutti, abbattuti per via giudiziaria. Berlusconi si inventò in quattro e quattr’otto una formazione post-partitica a propria immagine e somiglianza e fabbricò uno schieramento politico che servì a dare rappresentanza alla maggioranza moderata del Paese. Questo è stato il berlusconismo: il sostituto e l’erede di partiti, un tempo radicatissimi nella società italiana, spazzati via dalle circostanze.

Per tutti questi anni un solo partito fra quelli antichi, quelli della Prima Repubblica, era sopravvissuto. Aveva dovuto fare, inevitabilmente, parecchie concessioni trasformistiche ai nuovi tempi: da qui i vari cambiamenti di denominazione, Pds, Ds, e, alla fine, anche il Partito democratico, una fusione fra post-comunisti ed ex sinistra democristiana, a cui venne affidato il compito di conservare il massimo possibile di continuità con il passato. Fino allo stallo seguito alle elezioni del 2013 e al conseguente arrivo di Matteo Renzi, il leader che promette quelle vittorie che i vecchi capi post-comunisti non sono più in grado di assicurare.
Ma tutto ha un prezzo. La leadership di Renzi manda in frantumi il patto costitutivo da cui era nato il Pd. Il che spiega le accuse di «tradimento» da parte di coloro che avevano aderito a quel patto. E la fine di quel patto porta con sé anche la fine del vecchio partito. Il clima da ultimi giorni di Pompei che si respira a Roma, nella sinistra romana, ad esempio, non è il segno di una infezione circoscrivibile e delimitabile. È piuttosto l’annuncio che ciò che restava della tradizione è ormai finito, bruciato. Altro che diversità antropologiche (di berlingueriana memoria), altro che rivendicazioni di superiorità morali. La fine del post-comunismo e della sua ideologia è il prezzo che deve essere pagato perché possa davvero nascere il Partito della nazione, ossia una formazione post-partitica nel senso che qui si è detto, in grado di mietere consensi elettorali trasversali.

La democrazia post-partitica però può sopravvivere solo se si rafforza la capacità di governo. Il (possibile) Partito della nazione – così come ciò che un giorno, in età post-berlusconiana, nascerà a destra – ha bisogno di sostituire il mancato radicamento sociale (proprio dei partiti tradizionali) con una crescita del potere dell’esecutivo. Per questo la riforma del Senato è oggi così importante. Se uscirà in un certo modo rafforzerà i governi, renderà possibile la guida del Paese. E forse consentirà anche a Renzi di consolidare la sua leadership per alcuni anni a venire.
Proprio per questo la minoranza interna farà di tutto per batterlo. È comprensibile. La sinistra interna al Pd lotta per la propria sopravvivenza, sa che Renzi è uno che non fa prigionieri .

Il Corriere della sera, 8 agosto 2015 (modifica il 8 agosto 2015 | 07:26)

 

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