Un documento papale sulla cattiva giustizia nei tribunali ecclesiastici. Tutto per Cagliari, e per l’arcivescovo perduto, di Gianfranco Murtas

Il documento di papa Francesco che restituisce la dignità al diacono don Michele Piras. Il disastro ManiLa denuncia SpettuUna lettera al papaI giudici ‘malgiudici’ in campoLa vicenda di Sant’Eulalia.

Il fascicolo di gennaio-aprile 2015, appena distribuito, del Notiziario Diocesano – raccolta documentaria corrente della curia cagliaritana –, reca nell’ultima pagina una “dichiarazione” che, per essere già conosciuta da tempo dagli addetti ai lavori (cui mi assimilo per correntezza di frequentazioni e interlocuzioni), non perde e anzi enfatizza, data l’ufficialità conferitale, il suo valore di chiarimento. Chiarimento che, per altri versi, cioè per talune conseguenze pratiche che non sviluppa, essa però contraddice. Riguarda il caso del diacono Michele Piras ordinato prete, dopo lunga e impropria attesa, lo scorso 11 aprile e di cui a lungo si è trattato ai tempi del disastroso – tale è il mio giudizio – episcopato di don Giuseppe Mani.

Si legga la dichiarazione:

 

«La posizione di d. Michele Piras per decisione del Santo Padre Francesco è stata esaminata da una apposita commissione da Lui costituita, la quale è giunta alle seguenti conclusioni, approvate dal Santo Padre il 10 marzo 2015:

«consta della nullità insanabile della sentenza del Tribunale Diocesano del Vicariato di Roma del 7 marzo 2012;

«consta dell’inconsistenza formale e sostanziale della condanna inflitta al Rev.mo diacono Michele Piras per il delitto di denuncia calunniosa a norma del canone 1390 par. 2 per cui la suddetta sentenza, se fosse stata valida, dovrebbe essere riformata;

«non consta del delitto di diffamazione imputabile al Rev. diacono Michele Piras, concordato nella formula del dubbio, ma non deciso dalla sentenza del Tribunale Diocesano del Vicariato di Roma per la mancanza della prova piena.

«Con tale decisione il Santo Padre considera terminata definitivamente la causa, senza possibilità di ulteriori appelli, ricorsi, né reclami da nessuna delle parti».

La vicenda è, ripeto, abbastanza diffusamente conosciuta, a Cagliari e in diocesi. Ne tratterò qui per quanto direttamente mi consta, alla luce dei lunghi e ripetuti colloqui – al tempo confidenziali – con il diacono Piras, dopo che ai primi d’aprile del 2010 l’ex rettore del seminario regionale don Efisio Spettu mi parlò specificamente del caso, propiziandomi l’incontro con l’interessato  ed esponendomi, con le opinioni (sempre illuminanti le sue!), soprattutto i fatti: quelli riguardanti l’esodo massivo dei chierici, imposto dall’arcivescovo Mani, dalla facoltà teologica di Cagliari, oltreché dal seminario, alle varie università romane della Chiesa, ed anche le rare resistenze opposte dai giovani  che pur avrebbero preferito studiare in Sardegna, sempre meglio radicandosi nella realtà sociale che avrebbero dovuto servire nel ministero attivo, ed eventualmente soltanto specializzarsi sul continente. A quella passiva corrente migratoria non si concedette, disubbidendo per alcuni anni, il giovane diacono, con questo inimicandosi il suo ordinario, e ancor più inimicandoselo per eventi successivi.

Tali eventi successivi consistettero in una obbligata residenza presso una parrocchia della capitale («… era stato mandato a Roma dal suo Arcivescovo al fine di completare gli studi teologici… e svolgere in detta parrocchia [San Pio X] una collaborazione pastorale») ed in circostanze sgradevoli («atteggiamenti ….» definiti «… non congrui» con lo stato sacerdotale del protagonista) da lui rilevate e segnalate. (Preciso, sul punto, che ebbi nel tempo contatti email con il parroco romano querelante, il quale, con trasparente sofferenza degna comunque di rispetto, smentì le circostanze di fatto: sul che io non ebbi, né avrei potuto avere, modo di esprimermi, soltanto limitandomi a registrare le confidenze ed a rispettare – comunque rispettare – le persone per quello che erano e che sono).

Il 28 aprile di quel 2010 scrissi una prima lettera a papa Benedetto XVI informandolo di quanto mi constava sul merito della vicenda – cioè del disagio segnalato dal diacono Piras all’arcivescovo Mani – ma soprattutto sull’ostracismo che, a motivo di quella segnalazione, egli ne aveva ricavato in un moto aggrovigliato di blandizie e minacce fino all’avviso punitivo di una sospensione sine die della già programmabile sua ordinazione presbiterale.

Il disastro Mani. Rientrava ampiamente nel contesto di quella lettera la preoccupazione di comportamenti non accettabili, tante volte definiti contro-apostolici, dell’arcivescovo di Cagliari – personalità eminente e briosa, simpatica e quasi empatica –, qui giunto, nel settembre 2003, dopo una proroga biennale all’ordinariato militare in vista – dissero le malelingue – di intercettare una sede episcopale di antico prestigio, fra Genova (dal 2002 però assegnata al salesiano Tarcisio Bertone) e Bologna (a fine 2003 affidata al teologo Carlo Caffarra). Fu voce diffusa, negli ambienti di Chiesa allora, che una nomina fosse già stata preparata, nell’estate 2001, per Siena, sede non cardinalizia ma di sicuro credito storico e religioso, proprio in successione al collega (in quanto anch’egli già ordinario militare con i gradi di generale di corpo d’armata) Gaetano Bonicelli. Un vescovo credente, di spirito eucaristico, con il quale ebbi in anni remotissimi (quelli proprio dell’ordinariato militare) corrispondenza personale.

Conclusasi la prosaicissima trattativa per Siena, anche per… la permanente e resistente energia conflittuale tra fiorentini e senesi, per monsignor Mani si profilò una destinazione che valeva – a ripetere le parole del cardinale Giovanni Canestri, già arcivescovo di Cagliari ed emerito di Genova – un cardinalato: perché ciò comportava quasi in automatico la presidenza della Conferenza Episcopale regionale.

Ma ad indisporre il nuovo venuto fu, già pochi mesi dopo, l’elezione non sua ma dell’ordinario di Oristano, Pier Giuliano Tiddia, decano dell’episcopato sardo (consacrato vescovo nel 1975), in subentro a monsignor Ottorino Pietro Alberti ritiratosi intanto nella sua Nuoro. E fu proprio questa inaspettata defaillance a rafforzare nel presule la sua non celata volontà di… ripartire daccapo. Come Berlusconi nel 1994 profilò l’avvio di una nuova (rivelatasi disgraziatissima) era storica, così don Mani dette prova, dall’inizio, di voler azzerare il pregresso. Lo disse e lo fece in mille circostanze, per esempio riguardo all’attuazione del Concilio Plenario Sardo degli anni 1992-2001. Concilio che, con singolare (astruso) senso storico, non riconobbe e basta, continuando a non riconoscerlo quando, nel 2006, subentrò a don Tiddia nella presidenza episcopale. Attivò seminari paralleli, vocazionali e/o maggiori, forzando perfino la normativa canonica che la debole (ed opportunistica) interlocuzione della Santa Sede non contrastò, come non la contrastò la schiena curva della maggioranza dei vescovi sardi, che non ebbero neppure la dignità di difendere il sigillo del Concilio Plenario Sardo, andato perfino alla irrisione di taluno.

Conseguenze: in accelerata proseguì il flusso migratorio dei chierici cagliaritani dal seminario regionale (e dalla facoltà teologica di Cagliari) alla volta della Gregoriana, della Lateranense, del Sant’Anselmo, del collegio Capranica, del seminario Lombardo, di quello francese, ecc. ed a Cagliari, con coloniale paternalismo e arroganza, l’arcivescovo delegittimò e anzi svuotò le funzioni dei responsabili  delle istituzioni formative locali.

La denuncia Spettu. Scrisse, fra l’altro, il 9 settembre 2010 l’ex rettore Spettu ai membri della Conferenza Episcopale Sarda (il testo della intera lettera, inedito fino a poche settimane fa, si trova ora fra i “recenti” del blog di Enrico Lobina): «Sembra assurdo, ma dopo solo otto giorni dal suo ingresso in Diocesi, due giorni dopo aver incontrato l’equipe educativa del Seminario [Regionale], senza discuterne e nemmeno farne parola, [l’arcivescovo Mani] ha trasferito tre seminaristi del sesto anno nel Seminario Arcivescovile, promuovendoli all’istante animatori dei pochi ragazzi ivi presenti. Un quarto veniva spedito a studiare a Roma, anche questo senza alcuna preventiva consultazione. I tre del sesto anno, successivamente, sono stati ordinati diaconi (novembre 2003) ed in seguito presbiteri (maggio 2004), senza che mi venisse richiesto il parere, previsto dalle norme del Diritto Canonico (can. 1051).Quella prima incursione in Seminario ci ha lasciato increduli per la forma e la sostanza.

«Abbiamo cercato in tutti i modi di farci ascoltare, di discutere un metodo che sembrava discutibile. Non si rivendicavano poteri di nessun tipo, ma collaborazione, coinvolgimento, attenzione ad una struttura educativa che non pretendeva di essere unica ma parte di una comunione cui si è creduto.

«A febbraio del 2005, nel corso di una assemblea della CES cui ero stato invitato, avevo mostrato le tante perplessità che come équipe educativa sentivamo, soprattutto nei confronti di una avvertita distanza tra noi e le proposte di Mons. Mani. […].  All’inizio dell’anno 2005-2006 altri sette seminaristi venivano trasferiti a Roma.

«E’ stato allora che ho pensato di ricorrere a Roma, informando della situazione che stavamo vivendo la Congregazione per l’Educazione Cattolica, e su suggerimento di Mons. Romeo, all’epoca Nunzio Apostolico in Italia, anche il Card. Re, allora Prefetto della Congregazione per i Vescovi.

«Cosi il 5 settembre 2005 ho incontrato i responsabili della Congregazione per l’Educazione Cattolica ed ho illustrato loro il pro-memoria preparato per il Card. Grocholewski, Prefetto. Subito dopo ho incontrato il Card. Re […]. In quell’incontro esprimevo perplessità, disagio e timori. Speravo che qualche decisione venisse presa, che si riflettesse su quanto stava avvenendo, che in qualche modo si mettesse fine a qualcosa che appariva sbagliato, contro le norme e anche contro il buon senso.

«Successivamente in una lettera inviata il 4.10.2005 alla CES, al suo presidente, Mons. Tiddia, e a tutto l’Episcopato sardo, ho descritto la nostra situazione facendo notare l’aperto contrasto con quanto previsto in importanti documenti.

«In essi viene detto che tutti “i seminari regionali italiani” sono stati trasferiti dal 1966 per volontà del Papa “alla diretta giurisdizione delle relative Conferenze Episcopali Regionali”, con “l’impegno di ogni singola Conferenza Episcopale di considerare il Regionale come il proprio Seminario Maggiore con obbligo da parte dei Vescovi cointeressati di inviare ad esso i propri alunni” insieme all’obbligo che “nella Regione dove esiste un Seminario Regionale Maggiore non deve sussistere alcun Seminario Maggiore Diocesano” (Criteri e suggerimenti pratici – lettera circolare della Sacra Congregazione n. 472/66 del 6 luglio 1966).

«Contro questa previsione, scrivevo, “complessivamente i seminaristi di Cagliari che sono o andranno a studiare a Roma sono dieci: quattro frequenteranno il terzo anno di teologia, uno il quarto, cinque il sesto, due dei quali già sacerdoti, ordinati nel corso del quinto anno – che sono impegnati come animatori nel Seminario Minore o nella comunità vocazionale diocesana. Sono dodici i seminaristi dell’Arcidiocesi di Cagliari destinati ad altre sedi e non mi pare ragionevole che il Seminario Regionale possa fare a meno di un numero così grande di alunni della Diocesi più estesa della Sardegna. […]Esprimevo in quell’occasione il timore che oltre a privilegiare gli studi romani quelle decisioni tendessero soprattutto a staccarsi dal Regionale per formare un Seminario parallelo, con alunni iscritti alla Facoltà Teologica».

E dopo la elezione (per un voto di scarto) di Mani alla presidenza CES: «Oggi siamo arrivati al culmine: nel corso dell’anno accademico che sta per cominciare nessun seminarista e nessun presbitero “cagliaritano” farà parte del Regionale. Verrà a mancare, cioè, una presenza che, dal 1927 al 1971 a Cuglieri e, dopo il trasferimento a Cagliari dal 1971 fino agli anni 2003/2004, è stata importante e molto numerosa. Quest’anno, inoltre, i seminaristi saranno 42, il numero più basso mai raggiunto nella storia del Seminario Regionale Sardo. Che tristezza […].

«I tanti documenti ufficiali, papi, vescovi, clero, il Concilio Plenario Sardo, con le loro norme, le direttive, le circolari, in questi 83 anni hanno tutti dato un’indicazione sbagliata? Solo Mons. Mani vede giusto? Chi controlla? La sua è stata forse una, preventiva, mancanza di fiducia nei confronti delle persone, Rettore e animatori non di sua scelta, che si trovavano a dirigere quella realtà?[…].

«La mia esperienza è stata di essere sempre e inesorabilmente “scavalcato” nel senso che sono stato spesso cancellato nella mia funzione di Rettore, un ruolo di responsabilità e di servizio alle persone che non può essere di mera esecuzione della volontà altrui. In Diocesi chi ha difficoltà ad eseguire, chi non si allinea, viene sistematicamente emarginato. Questo è apparso eclatante anche per quanto riguarda il Seminario Minore che, in sette anni, ha contato tre rettori ed attualmente ne è privo, disattendendo anche in questo caso il Codice (cann. 238 e 239)». E altro ancora.

Fra le vittime prefigurate o già messe nel conto il diacono Piras, resistente al trasferimento romano dapprima, quindi alunno per la specializzazione in teologia sacramentaria al Sant’Anselmo. Fattosi infine confidente riservato, non denunciatore pubblico, di imbarazzi vissuti nella parrocchia della Balduina, al Trionfale. Fra le vittime anche, sotto altri aspetti, a Cagliari, nell’estate 2010, don Mario Cugusi, storico parroco di Sant’Eulalia e, con lui, pure un numero impressionante di poveri diavoli in talare umiliati nelle loro petizioni («clero anziano svillaneggiato e umiliato, in cui il Buon Pastore si è rivelato il Pessimo Pastore…)».

Una lettera al papa. Proprio nei giorni in cui mi determinai a scrivere a Benedetto XVI (o al suo staff) appresi anche, dal comune di Serri, di pagamenti promessi (o richiesti da una parte e promessi dall’altra parte) per l’amministrazione delle cresime. Pagamenti infine non effettuati, o dimezzati, con mille pubbliche scuse al presule, dall’altare stesso, data la povertà materiale della comunità di sole mille anime. Il che, per chi aveva frequentato da ragazzo la buona scuola degli Arturo Paoli o dei Tonino Bello, costituiva vicenda dai tratti estremi della surrealtà, mix di commedia o farsa e vera tragedia, non comprendendosi come un vescovo potesse/dovesse/volesse essere pagato più d’un buon caffè per l’amministrazione di un sacramento.

Ma al pontefice io non potevo denunciare fatti, soltanto potevo segnalare il clima mefitico  alto ormai attorno al governo diocesano, a lui chiedendo di accertare i fatti, restituendo pieno e pubblico onore al presule locale ove si fosse accertata, da autorità terza, l’infondatezza delle accuse, o rimuovendolo ove fosse stata accertata la veridicità delle voci in circolazione che lo inchiodavano non per poche ragioni, nel materiale e nell’immateriale: non soltanto per il dissanguamento del seminario regionale e della facoltà teologica ma anche per le spese faraoniche (a carico delle casse pubbliche) di conversione del seminario di San Michele in albergo da mettere a reddito (e con sfratto ingordo e anticipato dell’ala provvisoriamente riservata al Regionale), per l’arbitraria ed imperiosa manomissione dei pregi barocchi della cattedrale (contro l’unanime parere, neppure richiesto, degli storici dell’arte) così come per le intromissioni nello screditatissimo governo della Regione autonoma ipotizzato già nel giorno della visita di papa Ratzinger a Cagliari (quando dalle cronache delle dirette televisive pareva che l’evento fosse la presenza in città del presidente-pagano invece che del pontefice! e l’intera regia del pellegrinaggio fu espropriata ai padri mercedari e avocata dall’episcopo in battaglia), ecc. E in quell’eccetera entravano un’infinità anche di altre vicende rimbalzate tutte dalle cronache di stampa, come la condanna giudiziaria, del maggio 2007, per irregolarità od utilizzo improprio dei locali di via Logudoro, affittati al Comune per importi strabilianti, e anche l’abbandono, non per nulla, del parroco di Sant’Eulalia nella contesa che lo opponeva alla Congregazione del SS. Sacramento circa il sostegno alle fatiche finanziarie per il radicale risanamento della parrocchiale e l’apertura anche della sua inaspettata nuova vita civica, nella memoria archeologica di due millenni! di fianco alla intensa attività caritativa ancora spiegata nel presente. E, per sovrappiù, la celebrazione del sinodo diocesano in chiave sostitutiva del Concilio Plenario Sardo e dei suoi deliberati ignorati.

I giudici malgiudici in campo. «Nel nome del Signore. Amen». Così si apriva la «sententia definitiva in primo iurisdictionis gradu» pronunciata il 7 marzo 2012 dal «Tribunal Dioecesanum» del «Vicariatus Urbis» contro il diacono don Michele Piras, poco valendo, agli orecchi e agli occhi dei giudici la «Defensio pro accusato» depositata, «Maxima reverentia», dall’avv. Errera.  La condanna: «consta della colpevolezza del convenuto per il delitto di denuncia calunniosa a norma del can. 1390 § 2. In conseguenza: 1) sia punito con la sospensione con divieto di esercitare tutti gli atti di potestà dell’ordine diaconale; 2) la sospensione inflitta non potrà essere rimessa se non dopo che il convenuto avrà dato prova di recessione della contumacia secondo modalità stabilite d’intesa dagli Ordinari del luogo di Roma e Cagliari. Le spese sono a carico delle parti secondo il mandato di Questo Tribunale». Firmato Sabino Ardito,  presidente del Collegio; Francesco Maria Tasciotti, vicario giudiziale aggiunto ed istruttore; Giuseppe Principali, ponente; Francesco Allegrini, notaio.

Confesso che, alla luce anche del successivo documento papale, la lunga sentenza vicariale, 24 pagine piene, era apparsa ai miei occhi –  dico agli occhi di uno che ha lavorato per lunghi anni sulle sentenze di condanna subite dagli eroici antifascisti di Giustizia e Libertà e del Repubblicanesimo, dell’Azionismo e del Sardismo, uniti tutti nella fede per la libertà e la democrazia, e che molto ha pubblicato in materia – come i verdetti del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, puntello ardito della dittatura.

La storia è una storiaccia e i verbali degli interrogatori o delle deposizioni rivelano, sotto ogni profilo, la miseria degli uomini e anche quella degli uomini di Chiesa. Miseria drammatica quando questi stessi uomini – preti e vescovi di ogni grado e livello – parlano come fossero il megafono di Dio, applaudono alla santità di chi consentiva la ghigliottina e insieme, nel nome dei principi non negoziabili, negano i funerali religiosi a chi, dopo trent’anni di sla, invoca il distacco dei tubi di vita, giusto come un tempo avevano fatto ai poveri disperati suicidi… Si mischiano nelle carte processuali i nomi nientemeno che di Origene e, ad aggiornamento o contrasto della sua dottrina, di Von Balthasar, con quelli del parroco della cattedrale di Cagliari ora dimissionato (e noto per il rito di riparazione messo sù ad alleggerimento del monsignore offeso nella parrocchia di Sant’Eulalia, nell’estate 2010) e del collega di Villamar e già di Mandas, dimissionato anch’esso. Sono ben quarantacinque, nel lungo documento, i rimandi ad atti e fatti in capo all’arcivescovo Mani, autore di una «dichiarazione firmata di suo pugno e versata in atti in data 29.03.2011» e testimone escusso giudizialmente e creduto dal tribunale (dopo che il primo, ritenuto partigiano in partenza e non autorevole dunque ricusato, s’era sciolto).

Certo è che, a fine lettura (oggi ripetuta ma già compiuta già tre anni fa), non capisco compiutamente come esca dalla vicenda, e dalla sentenza, ma adesso soprattutto dalla dichiarazione del pontefice, la figura del vicario generale del papa nella superdiocesi romana, dico il cardinale Agostino Vallini, che io non stimo: «Sta comunque il fatto che lo scritto del Piras […] fu considerato da Sua Eminenza il Cardinale Vallini un vero e proprio atto diffamatorio nei confronti del parroco romano, tanto che convocato lo stesso in data 11 giugno 2009 ricevette dall’eminentissimo Presule il permesso di presentare formale denuncia contro il Piras per averlo pubblicamente diffamato». E come escano gli altri, che continuano a svolgere i loro compiti negli uffici di competenza, a Roma e fuori Roma. (Ed è questo il lato debole del “chiarimento” papale).

Basta così. Qui mi interessava adesso soltanto evidenziare la smentita piena, da parte del pontefice, dei presupposti  fattuali e di quelli giuridici e procedurali azionati dal tribunale della sua stessa diocesi e, in ultima analisi, dal suo vicario generale.

Mi interessava anche mettere quanto sopra in relazione ad altri eventi. Ciò evidentemente oltre agli onori resi al giovane diacono nel frattempo ordinato prete (e portatore di una ecclesiologia – lo voglio rimarcare – giusto all’opposto di quella conciliare ed ecumenica che per me ha, sola, autentico senso profetico e cui, con spirito religiosamente umanistico, aderisco toto corde), riconosciuto dalla delibera papale ingiustamente condannato e restituito alla sua fama di innocente. Gli altri eventi sono una montagna ma fra tutti emerge, dagli anni tremendi dell’episcopato Mani, le arroganti sciabolate nella casa antica, prestigiosa e cara di Sant’Eulalia martire.

La vicenda di Sant’Eulalia. Ricordo che pure il caso di don Mario Cugusi passò al vaglio di istanze romane, non vicariali ma della Santa Sede. Da quelle sedi, alla luce dei fatti prive, a mio giudizio, di autorevolezza morale, sono venute altre prove di contro-testimonianza evangelica, in logica omertosa e corporativa: doveva vincere non la giustizia ma la casta. Ed ha vinto la casta.

Posso scriverne sereno, perché ormai da anni don Cugusi, progettuale e costruttore sempre, fa benissimo a Serdiana – concattedrale della diocesi per quella doppia sepoltura di grandi vescovi che essa ospita, Agostino Saba e Paolo Carta –, ed il suo successore fa benissimo, con la consueta generosità, alla Marina.

Non credo che don Cugusi abbia intenzione di sollevare anch’egli, con istanza direttamente al papa, il caso  che lo ha visto ingiusta vittima di militanti paganesimi ecclesiastici. La vita è breve per i preti come per i vescovi ed i poveri associati di quelle che si chiamano, all’ingrosso, Chiesa e umanità. Non vale la pena stare sempre in guerra, anche se per difendere un proprio diritto dalla prepotenza avversaria ed amorale. Il riconoscimento anche civico che, con la sciocca, banale, «donabbondiana» (formula usata nella «sententia definitiva») astensione del sindaco Zedda, il Municipio di Cagliari ha reso nel giugno 2013 allo storico parroco della ex collegiata che tanti vescovi di valore ha donato, nei secoli, alla Chiesa sarda vale a chiudere la vicenda. Ma deve restare nella memoria pubblica, nelle pagine della storia della comunità civile e religiosa di Cagliari, con nettezza di contorni, il campo delle prepotenze e delle complicità distinto da quello della testimonianza pura e della soccombenza fiera. (Ci ha lasciato pochi giorni fa un grandissimo che fu soccombente: fratel Arturo Paoli. Che dirà la storia, mettendo a confronto lui ed i suoi accusatori pacelliani dentro e fuori l’Azione Cattolica? Studiando la vita della Chiesa di Cagliari di questo nostro tempo, che diranno gli storici fra cento anni mettendo a confronto gli operati di don Cugusi e don Mani? E che diranno della mancata risposta dell’arcivescovo Arrigo Miglio, quello del pastorale operaio, a don Ettore Cannavera che inutilmente ha chiesto da due anni perché all’incontro con il papa Bergoglio in duomo furono sacrificati cinque detenuti del Minorile per far posto ad altrettanti impiegati e pensionati dell’amministrazione ed al milionario/miliardario ex presidente del Cagliari?).

Porto anche qui, per don Mario Cugusi, personale testimonianza, già consegnata – a futura memoria – alle abbondanti pagine di un libro censito in Opac oltre che alla rete internet. E richiamo qui adesso la circostanza perché non si dica che agli uffici della curia romana mancarono informazioni dettagliate sui fatti. Lettere furono rimesse, non mai dall’interessato ma da semplici battezzati portatori di responsabilità, al cardinale Bagnasco, presidente della CEI, il 10 agosto 2010, ai vertici delle congregazioni per i vescovi e per il clero il 22 ed il 30 agosto ed il 3 settembre 2010, e ai vescovi della Conferenza Episcopale Sarda (presidente Mani incluso) il 20 settembre dello stesso anno; e già prima ai cardinali Bertone, Hummes,Burke, Piacenza, Bagnasco ed a monsignor Crociata il 2 giugno 2010.

Alle numerose lettere firmate con altri, e sopra elencate, ne passai altre più personali, datate 6 ottobre 2010, al segretario di Stato (nonostante la disistima per l’uomo), al presidente della CEI, al presidente emerito della CES. Della ampia rappresentazione che mi permisi di effettuare, in diciassette alinee, dello stato comatoso della diocesi, mi permetto qui di richiamare, anche per connessione di tema nonché per il riconoscimento di validità venuto postumo!, due passaggi soltanto, che avrebbero fatto il paio con il report collettivo, questa volta riservatissimo, inviato al pontefice qualche settimana dopo: «Ricordo ancora nomine assolutamente improbabili a uffici e parrocati importanti in diocesi di persone in stretti rapporti con l’arcivescovo, taluna delle quali ancora oggetto di indagine di polizia e magistratura per episodi sconcertanti di cui sono stati protagonisti, e sono oggi presenti nelle chiacchiere […] della città!».

«Ricordo la permanenza a capo di parrocchie di soggetti di rito lefebvriano non affidabili in quanto a serenità psichica, con evidente disimpegno rispetto sia ai sacerdoti bisognosi di cure sia alle parrocchie di fatto abbandonate a se stesse e squassate da tensioni interne […]».

(Così era, e in parte così è ancora la diocesi di Cagliari affidata al tardo don Miglio impiegato irrispondente, colui che convoca nel suo ufficio le vittime, non va lui da loro: diocesi in cui un parroco in servizio permanente effettivo nel centro storico del capoluogo aveva ipotizzato o consigliato, dall’altare, presenti i bambini della messa domenicale, che i genitori di questi si mettessero al collo la macina da mulino data la preferenza del mare invece che alla messa mostrata a luglio e ferragosto…).

Dunque, nel dossier dell’inquietudine diocesana s’aggiunse allora la rimozione, sgarbata e insolente, notificata dall’arcivescovo Mani a don Mario Cugusi, parroco della prestigiosa ex collegiata, uno dei pochi presbiteri del clero cagliaritano davvero con la schiena dritta, per rispetto della propria coscienza e, insieme, della trasparenza della comunione ecclesiale . E fu proprio associando la nuova vicenda della guida pastorale della Marina alle numerose altre presenti nell’agenda di una diocesi per tanti versi priva di nerbo critico combinato alla santa tensione comunionale, e perduta invece nel limo del conformismo e delle utilità molecolari, che quel gruppo di poveri battezzati – dei quali citerò qui soltanto Paolo Fadda, poi presidente-fondatore  dell’associazione Cresia – prese ad approfondire le varie materie d’emergenza analizzandole, sulla base di dati di fatto confluiti a iosa, nella loro viziosa concrezione di lunghi anni. Partirono le  lettere, e non mancarono rapidi e sintetici riscontri di qualche congregazione. Ma intanto mancò l’atteso arrivo di un visitatore apostolico in diocesi – e qui a vincere fu la miopia dei virtuosi della curia romana o la lega omertosa dei prevalenti guasti – e proseguirono gli abusi d’ogni genere, anche disciplinare e canonico.

Negli anni del declino di Wojtyla e del governo di Benedetto XVI, mentre a Roma si dissipava ogni sacralità e venivano rubati i documenti perfino dal tavolo del pontefice, a Cagliari il feudalesimo era ancora applaudito  dalle maggioranze, ringhiose nel loro conformismo senza argomenti, ed era contrastato dai pochi.

 

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