Sui migranti non servono sermoni, di Ernesto Galli della Loggia
L’Italia è un Paese con una forte disoccupazione e un alto indice di povertà. Sono molti gli italiani che vivono male, in abitazioni insufficienti, che anche se hanno un lavoro non sanno come arrivare alla fine del mese, e non godono di nessun aiuto pubblico. Stando così le cose è mai ammissibile che l’Italia abbia davvero bisogno di vedersi arrivare decine di migliaia di immigrati, e che possa permettersi di impiegare le sue risorse per accoglierli? Non solo, ma dopo quanto è accaduto in Gran Bretagna e in Francia, con i giovani africani e asiatici di seconda generazione convertitisi allo jihadismo islamico e al terrorismo, è davvero ancora possibile credere all’integrazione?
Non sono io a fare queste domande. Me le hanno rivolte, in tono spesso infuriato, i lettori del Corriere : dai quali non ho mai ricevuto una quantità di lettere così critiche come quando ho scritto qualche settimana fa un articolo sulla necessità di far posto in Italia agli immigrati e ai rifugiati, praticando a loro favore una larga politica d’integrazione ( Corriere , «Il realismo saggio sui migranti», 25 giugno).
Bene: alle domande critiche di cui sopra o ad altre analoghe potrei rispondere ribadendo più o meno le mie ragioni. Ma non voglio farlo, perché penso che ciò servirebbe solo a tacitare, almeno sulla carta, le ragioni dei lettori dissenzienti, che invece esistono e sono l’espressione di problemi e disagi reali, molto reali. Penso che sia più giusto, dunque, cercare di capire che cosa ci dicono tali ragioni, che cosa chiedono, per quali problemi domandano una soluzione. C hi protesta contro l’immigrazione lo fa mosso in genere da due stati d’animo molto forti: il senso d’insicurezza e il bisogno di eguaglianza.
L’insicurezza è prodotta dal vedere un estraneo comportarsi senza alcun riguardo verso la comunità di cui si fa parte. Per esempio orinare a proprio piacere contro i muri, ubriacarsi e schiamazzare a perdifiato, non pagare il biglietto sui mezzi pubblici, accamparsi nei parchi cittadini, vendere dovunque merce contraffatta, invadere gli spazi comuni (stazioni, marciapiedi) per dedicarsi apertamente al taccheggio, o tenere analoghi comportamenti: e però venendo sanzionato, bene che vada, solo una volta su mille. Per simili gesta, infatti, le forze dell’ordine e le polizie locali non solo non intervengono quasi mai, ma quando lo fanno la cosa di regola non ha alcun esito significativo.
Non so se i ministri dell’Interno e della Giustizia, i sindaci, si rendono contro che assecondando questo andazzo essi si assumono la grave responsabilità di contribuire ad esasperare lo spirito pubblico, ad eccitarlo al massimo contro gli immigrati. Se invece si trovasse il modo di intervenire contro le suddette infrazioni con frequenza e in senso immediatamente punitivo (sì, punitivo: guai ad aver paura delle parole), ciò avrebbe un importantissimo effetto di rassicurazione. Bisognerebbe per questo cambiare le leggi o non lo consente la Costituzione con i suoi tre gradi di giudizio? E allora? Se manteniamo un governo non è forse anche per cambiare le leggi e se occorre la Costituzione? Ad esempio per introdurre la possibilità di comminare, in sostituzione di pene pecuniarie spesso inesigibili, l’obbligo di eseguire lavori socialmente utili? Perché non pensarci? Il governo neppure immagina, mi pare, la molteplicità di effetti positivi che avrebbe sull’opinione pubblica vedere un passeggero abusivo o una taccheggiatrice costretti, che so, a spazzare una strada per una settimana o a cancellare le scritta dai muri di una scuola: nati in Italia o altrove non importa, naturalmente, ma non nascondiamoci che nel caso degli immigrati il valore di una simile politica sarebbe davvero strategico. Trasmetterebbe loro il messaggio che il primo obbligo che essi hanno, venendo in Italia, è quello di rispettare, come chiunque, le norme che regolano la nostra collettività. E ai nostri concittadini farebbe capire che in una situazione di confronto difficile con estranei che adottano comportamenti impropri (come fanno assai spesso gli immigrati, non nascondiamoci dietro un dito) essi non sono abbandonati a se stessi ma possono, al contrario, contare sull’aiuto efficace dello Stato.
Il secondo sentimento che specie negli strati popolari è colpito più negativamente dall’immigrazione è il sentimento della giustizia, ovvero il bisogno di eguaglianza. Ogni beneficio concesso agli immigrati è visto come qualcosa tolto agli italiani, gettando così le basi per una contraddizione, politicamente micidiale, tra spesa sociale e spesa per l’accoglienza, tra «noi» (che paghiamo le tasse) e «loro».
È sciocco negare che questa sensazione si basi su dati reali, riguardanti soprattutto i rifugiati e i richiedenti asilo: per i quali i regolamenti europei prevedono la concessione di varie provvidenze. Basti pensare che in Germania, quest’anno, la loro accoglienza peserà sul bilancio dello Stato per qualcosa come 6 miliardi di euro. Ma detto che è certamente urgente che l’Unione Europea restringa il numero di Paesi la fuga dai quali possa essere giustificata in base a «ragioni umanitarie» (è ammissibile ad esempio che ben 70 mila cittadini di Kossovo, Albania e Macedonia abbiano chiesto l’asilo in Germania per le suddette ragioni?), mi sembra comunque ancora più urgente un’altra misura. E cioè – riprendo un’idea lanciata da Giovanna Zincone sulla Stampa – che nel nostro Paese si stabilisca che ad ogni provvidenza erogata dallo Stato per gli immigrati o i rifugiati corrisponda un’erogazione di pari ammontare di beni e servizi ai territori che li accolgono (sotto forma di restauro di edifici, di nuove attrezzature pubbliche, di dotazione di asili e centri sociali, di miglioramento della pulizia e della vivibilità dei luoghi, ecc.).
Per sortire il loro effetto, tali erogazioni, però, aggiungo io, dovrebbero avere alcuni requisiti: essere fortemente e immediatamente visibili, realizzare il proprio scopo in tempi brevi, infine essere gestite direttamente dal governo centrale (magari per il tramite dei prefetti: altro che «rottamarli»!), al fine di evitare loro eventuali «manipolazioni» e occultamenti distorsivi ad opera dei poteri politici locali e di conferire all’iniziativa il suo necessario carattere «nazionale». Bisogna convincersi che esser ostili in linea di principio al fenomeno migratorio, vederlo con apprensione, può essere sbagliato (come io ritengo), sbagliatissimo, ma è del tutto legittimo. Sta perciò a chi è favorevole pensare e adottare misure concrete per attenuare o cancellare una tale ostilità. Misure concrete però, concrete: non sermoni buonisti sull’obbligo dell’ «accoglienza» che lasciano il tempo che trovano.
Il Corriere della sera 2 agosto 2015