Le lezioni inascoltate della Storia, di Angelo Panebianco
Che rapporto c’è fra il marxismo esibito da certi ministri ed ex ministri del governo Tsipras e il Crocifisso con falce e martello regalato dal presidente boliviano Morales a papa Bergoglio? Sono entrambi figli di una grande rimozione, sono la testimonianza del fatto che tante persone, forse i più, preferiscono non ascoltare le lezioni della storia se ciò può mettere a rischio le loro più radicate convinzioni. È la ragione per cui, secondo un detto attribuito ad Albert Einstein, è più facile disintegrare un atomo che un pregiudizio.
Quando nel novembre del 1989 crollò il Muro di Berlino e, due anni dopo, nel 1991, con l’implosione dell’Unione Sovietica, si chiuse l’era iniziata con la Rivoluzione del 1917, moltissimi in giro per il mondo si scrollarono di dosso i calcinacci di quel muro, fecero buon viso a cattivo gioco ma evitarono anche di scavare alla ricerca delle ragioni di un così grandioso fallimento.
Quasi nessuno (tranne pochissimi, e cioè i migliori) scelse di riflettere seriamente sul passato, pochi fra coloro che da quella utopia erano stati ammaliati si posero pubblicamente il problema del come e del perché, pochi decisero di fare i conti con i propri trascorsi errori di giudizio.
I più evitarono così di assimilare la principale lezione: si era dimostrata falsa, falsissima, l’idea che, sempre e comunque, il mercato sia il problema e lo Stato la soluzione. La falsità di quella tesi è all’origine del fallimento del comunismo. Non volendo prenderne atto, molti si raccontarono fole: anziché al nucleo duro della dottrina attribuirono il fallimento a fatti contingenti, come la presa del potere da parte di criminali quali Stalin, Pol Pot, eccetera. Ma l’errore, invece, stava proprio nella dottrina. I liberali non ebbero bisogno di aspettare il crollo del comunismo sovietico per saperlo: grazie a tanti importanti lavori che si erano accumulati nel tempo, ad esempio gli scritti dell’italiano Luigi Einaudi sul mercato e sull’economia collettivista o il grande dibattito degli anni Venti-Trenta, animato dagli economisti austriaci, sulla impossibilità della pianificazione socialista, i liberali sapevano benissimo perché le ricette statal-collettiviste fossero economicamente disastrose. E sapevano anche perché fossero nemiche delle libertà civili e politiche. Era, in età pre-televisiva e pre-Internet, la domanda retorica nota a tutti i liberali: se le cartiere appartengono allo Stato come è possibile la libertà di stampa?
Era inoltre già allora chiaro (a chi avesse il desiderio di capire) quali fossero le cause ultime dell’abbaglio comunista su Stato e mercato: un esiziale errore antropologico , una concezione sbagliata, semplicistica, della natura degli esseri umani, unito all’illusione prometeica , alla presunzione di poter forgiare, attraverso lo Stato, l’uomo nuovo.
Erano insomma a disposizione di chiunque volesse usufruirne le argomentazioni in grado di spiegare perché l’applicazione di quella dottrina dovesse necessariamente sfociare nel totalitarismo politico e nel disastro economico.
Ma neppure dopo la fine della Guerra fredda molti di coloro che in precedenza avevano rifiutato con sdegno quelle argomentazioni in quanto «reazionarie e di destra» si fermarono a rifare i conti, a prendere atto dei propri errori. Ecco perché, come se niente fosse, gli stessi o i loro discendenti ripropongono oggi ricette fallimentari: quando si dice che l’economia capitalista danneggia i poveri e va quindi corretta con dosi massicce di collettivismo, non solo si parte da una falsa premessa (è dimostrato che l’economia di mercato migliora la condizione dei poveri assai più di quanto non sia in grado di fare il collettivismo) ma si invocano anche pessimi rimedi: le stesse stolte politiche, grosso modo, per mesi e mesi accarezzate da quei sessantottini in ritardo che componevano il governo Tsipras, quelli che, sulla pelle dei loro concittadini, giocavano alla Rivoluzione con i soldi degli altri.
Contrariamente a quanto sostenuto da alcuni, la falce e il martello del Crocifisso regalato a Bergoglio non è simbolo di giustizia ma di oppressione, il segno distintivo di una utopia che ha generato mostri. Per inciso, il gesto del presidente Morales potrebbe anche essere interpretato come un inconsapevole insulto alla memoria di Giovanni Paolo II che quel simbolo combatté per tutta la vita, nonché ai milioni di uomini che sotto bandiere con falce e martello sono vissuti in schiavitù per decenni (e una parte ci vive ancora).
In uno dei momenti convulsi che precedettero la fine dell’Urss un grande corteo si snodò per le strade di Mosca. Innalzava striscioni che, citando una vecchia barzelletta sovietica, portavano la scritta «Proletari di tutto il mondo scusateci». Coloro che sostenevano quegli striscioni non potevano immaginare che, fuori dalla Russia, migliaia e forse milioni di persone avrebbero fatto finta che non ci fosse nulla di cui scusarsi.
Il Corriere della Sera, 20 luglio 2015