Don Angelo Pittau: un prete come gli altri, ma speciale… di Gianfranco Murtas
I migliori si distinguono perché rifiutano gli sgabelli più alti, o in evidenza più bassi, o comunque smaccatamente diversi dagli altri. Godono dell’essere nel coro, ma – a differenza di molti colleghi – sanno, i migliori, che la polifonia è capolavoro di individualità confluenti. Di talenti affinati e donati, animati dalla febbre di una causa che merita d’essere servita. A dirla con altre parole, essi sentono (come scontato eppure meditato fatto di pelle) il gusto comunitario che evolve nella dimensione alta comunionale. Così eminentemente sul piano della fede, ma non da meno su quello anche tutto umano.Tanto più questo è l’alfabeto del cuore e della mente di prete Pittau villacidrese, classe 1939, prete dal luglio 1965 – giusto cinquant’anni a questi giorni –, campione di tante cose nobili e belle che sto raccogliendo, unitamente al giovane amico Andrea Giulio Pirastu – un Pirastu-Cabriolu cagliaritano di radici villacidresi e guspinesi – come infinite tessere di un mosaico che narrano, per la storia corrente e futura, una vita. Destinazione: un libro-intervista di prossima pubblicazione.
Ho scritto: per la storia, cioè per l’effettività degli accadimenti – a Tuili, in Vietnam, a Lione, a Marsiglia, a Torino, nel Ciad, in centro America, a Morgongiori, a Pimpisu, a Guspini, in Monzambico e aggiungi tu le altre soste fra meridiani e paralleli, fra monte Linas e Bongor nella terra dei Masa, le altre semine e gli altri raccolti entrati magari perfino nelle cronache volanti dei giornali. Perché per il resto, per la dimensione mistica, ci sono, a documentarla, i versi liberi, le composizioni poetiche che già da ventenne, dai tempi degli studi teologici a Cuglieri, egli ha fissato sulla carta e raccolto, con irregolare periodicità, per raccontarsi nel suo divenire, per raccontare il suo mondo sempre e invariabilmente associativo intimo-e-sociale.
Nella palestra spirituale-sociale-spirituale dei Piccoli Fratelli di Charles de Foucauld prima ancora della ordinazione, don Angelo Pittau ha inciso le regole fascinose e gratificanti del suo ministero di presbitero allora in boccio. E’ stata una fatica impegnativa, direi educativa e liberante. Così che oggi io possa testimoniare per lui: ha vissuto e condiviso giornata e lavoro con i preti-minatori di Bindua mezzo secolo fa, formandosi insieme religiosamente e politicamente. Che oggi io possa testimoniare quanto egli sia ricco di esperienza morale ed umana, e quanto profondamente sia radicata nella sua consapevolezza di uomo e di prete la dimensione altamente caritativa della politica… Valga a dirne qualcosa la collezione ormai storica, di tre lunghi lustri, del mensile “Confronto”, che egli ha fondato e diretto sulla scia della pastorale operaia, avviata e condotta in diocesi con il suo sodale (tale fin dalla primissima giovinezza, anzi dall’adolescenza) don Petronio Floris.
Potrei anche sbrigarmela sostenendo, con una punta, per ragioni opposte, di ammirazione ed amarezza, che egli sia molto di più – e sul piano intellettuale e spirituale, e su quello della fantasia e capacità progettuale (e attuativa) del nuovo – di quanto forse a Villacidro stesso, o a Guspini, nelle sue terre di missione sarda insomma, si sia colto o capito di lui. Ma non gradirebbe, e non lo scrivo più.
Ha portato il mondo alle marce della pace nella diocesi di Ales e sconfinamenti vari – dal 1987 ad oggi –, ha onorato quel fratello maggiore gesuita ed arcivescovo, sapiente accademico in Giappone e non soltanto in Giappone, con altri talenti tutti suoi, talenti capaci tutti di reggere il confronto, ove mai il confronto sia cosa che abbia senso (e non ha senso se non per cogliere la ricchezza delle varietà, perché per il resto non esistono né metri né bilance). Ha insegnato a tutti, anche se non tutti l’abbiano compreso, come si possa e si debba pensare in grande, collocando, al pari di Giuseppe Dessì cui ha dedicato (come oggetto di studio) una delle sue tesi di laurea, il paese – Ruinalta o Norbio o San Silvano che sia – nel crocevia della grande storia universale.
La Caritasche ha fondato ed organizzato e promosso per avanzamenti sempre maggiori nel territorio pluricentrico della diocesi alerese, certo anche illuminato negli anni della propria formazione dalla genialità pastorale e dalla testimonianza di vita di un vescovo come Antonio Tedde, è espressione concreta e pratica, tangibile delle intersezioni globlocal. Così sono state anche le sue comunità di vita (non soltanto terapeutiche) anch’esse con spruzzi originali e sorprendenti di internazionalità – luoghi in cui, più ancora che nelle parrocchie, la sua spontanea fraternità è maturata in una pienezza di paternità (quante volte ferita e dolente, anche mortalmente dolente)…
Sperimentatore, non improvvisatore, attento alle esperienze altrui – a cominciare da quelle oratoriane di Milano, in quello stesso 1965 che l’avrebbe visto esordiente vice parroco in Marmilla, e poi organizzatore di un inedito polmone sociale giovanile, per ragazzi e ragazze insieme (!), proprio a Tuili… Idem per i centri d’ascolto da lui diffusi da Serramanna a Terralba, e nel mezzo medio Campidano e Marmilla, idem ancora per le pastorali familiari, scolastiche, sportive, ecc. aperte alle anticipatrici esperienze missionarie – nel territorio stesso del paese bisognoso e confuso –, non nella logica del proselitismo ma, come ben si dice, dell’attrazione per il gusto condiviso di un modello. Con una certa condivisione della responsabilità comunitaria, con il laicato chiamato al protagonismo nel servizio, non al gregarismo ancillare o all’obbedienza passiva.
Professore nella Pontificia Facoltà Teologica di Dalat in Vietnam, professore-missionario, prete-sociologo, giornalista freelance per mille giorni, documentarista per l’ONU in difesa delle minoranze etniche a rischio di estinzione, prete-operaio nelle città dell’emigrazione sarda e cofondatore a Torino della popolare parrocchia dell’Ascensione, in replay – in un garage e poi in una casermetta, in onore della Madonna del Rosario – a Villacidro, nella Villacidro già della crisi industriale nel 1974 – su sollecitazione dell’amato vescovo Tedde, per tredici anni vicario foraneo e parroco di San Nicolò, la chiesa maggiore di Guspini… sono flash di una vita che si potrebbe dire spesa “per” gli altri, ma che egli – il prete-poeta – preferirebbe certo, e con più competenza, dire spesa “con” gli altri.
Non voglio qui alzare il monumento a una grande, grandissima personalità della Chiesa sarda e italiana, a un poeta mistico, a un intellettuale libero nella mente come nella coscienza e insieme disciplinato cantore nel coro, a un pedagogista che è un pedagogo sperimentato e apripista, a un uomo semplice che gode del nulla, incantato dal dono di ogni giorno che viene dopo il riposo – breve, brevissimo riposo – della notte. Scopo di queste poche righe è stato soltanto quello di impegnare anche la rete, per una eco pubblica, a rivelare il senso dell’abbraccio fraterno a don Angelo Pittau, presbitero da mezzo secolo.
Fra i versi ultimi de “Il giorno del prete” – una delle composizioni della recente silloge “Leggère. Liriche” – mi sono rimasti cari questi: “… nel giorno / è un incontrare i volti / anziani, nonne, mamme, padri / giovani / un calice di sofferenze d’ansie di paure / di poche speranze / Signore / giovani senza lavoro / famiglie infrante / figli soli / donne violentate / bambini violati / uomini con lo spirito incatenato / larve bruciate dalle droghe / scampati da regioni inumane / da deserti di fame / anziani affaticati dalla vita / una solitudine infinita / Signore / … / E la sera / la sera salgo lento le scale / della casa / grande, vuota, fredda / affranto e stanco Signore / dal peso delle ore / mi ritiro nel deserto / e nella notte vigile aspetto l’alba / e la Tuavenuta / Sentinella / a che punto è la notte? / Vieni Signore Gesù”.
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Mentre scrivo queste righe, una email mi informa più nel dettaglio circa quanto già le cronache dei giornali hanno riportato fra ieri e avant’ieri: che ad Arborea un povero prete che non pare possedere neppure i fondamentali del mestiere, ha ipotizzato il lanciafiamme per estinguere i gay. Arborea è una città nata nella logica della “inclusione”, e dunque della fraternità contadina fra italiani di diversa estrazione territoriale, culturale e linguistica. Dunque, che una tale imbecillità sia uscita dalla bocca di un prete proprio ad Arborea è bestemmia doppia, non sanabile con la logica clericale, tipicamente farisaica. Spero che il Consiglio comunale e il sindaco notifichino all’interessato e, per conoscenza, al suo vescovo (purtroppo sovente inadeguato negli adempimenti alle sue responsabilità – come l’avversione al Concilio Plenario Sardo e la propensione censoria nella stampa dimostrano) il “non gradimento” alla sua permanenza. Un Consiglio comunale voluto dai cittadini per innovare il costume amministrativo, scombinando i piani coloniali di chi voleva trivellare il territorio civico caricandolo di insopportabili servitù, non può entrare, pavido, nella commedia (troppe volte vista) di far finta di niente, accontentandosi di scuse formali e lasciando che i ragazzi che frequentano la parrocchia siano esposti al rischio di tanta avvolgente, diseducativa scempiaggine.