Se l’accordo non si fa l’Europa si spaccherà in 28 pezzi, di Eugenio Scalfari
TUTTA l’Europa, ma anche l’America, il Nord Africa, il vicino Oriente, la Russia e perfino la Cina si sono occupati del problema greco. Il referendum deciso da Tsipras, la scontata vittoria del “no” hanno riaperto le trattative il giorno dopo tra Tsipras e Bruxelles e l’accordo sembrerebbe finalmente raggiunto anche se nelle ultime ore la Germania è di nuovo incerta e il suo ministro delle Finanze vorrebbe ancora tenere la Grecia in punizione. Sarebbe un errore gravissimo che spaccherebbe l’Europa in due o tre tronconi. Speriamo che gli europei glielo facciano capire alla Merkel con le buone o se necessario con le cattive.
Un Paese di poco più di 11 milioni di abitanti e con un peso economicamente assai modesto è stato nell’ultimo mese al centro dell’attenzione globale. Come si spiega questo vero e proprio fenomeno? Tanto più in quanto l’altro protagonista, cioè l’Europa, non gode di alcuna attenzione da parte dei popoli che la compongono, disaffezionati verso le istituzioni del nostro continente e semmai ostili ad esse e agli uomini che le dirigono?
La ragione è facile da capire: il referendum greco e quello che ne è seguito subito dopo hanno riportato al centro dell’attenzione mondiale e soprattutto europea un tema che da molti anni era finito nelle cantine e nelle soffitte della politica; quello cioè della governance europea. Non solo economica, non solo sociale, non solo politica, ma direi all’attenzione della storia. Il tema è la creazione degli Stati Uniti d’Europa oppure, se non si arriverà a questo risultato, la fine dell’Unione e quella della sua moneta comune.
Personalmente predico questa soluzione da mesi, preceduto da una prestigiosa schiera di personalità italiane e straniere e da altre che si sono unite a noi dopo il referendum greco: Giorgio Napolitano, Romano Prodi, Laura Boldrini, Emma Bonino, Massimo Cacciari, Paolo Gentiloni, Sergio Cofferati, Gaetano Quagliariello. Ma fuori d’Italia Obama, Hollande, Habermas. Venerdì scorso, in un articolo da noi pubblicato, ho letto l’analisi secondo me più esauriente e più lucidamente esposta di Timothy Garton Ash, dal quale traggo qualche citazione decisamente esaustiva.
“La Grecia era uno Stato profondamente clientelare e non toccato dalla modernizzazione; perciò non sarebbe dovuta entrare a far parte di un gruppo di economie più avanzate. Il vecchio re Kohl sperava che, com’era più volte accaduto nell’Europa post 1945, l’integrazione economica avrebbe finito per catalizzare la necessaria integrazione politica. Ma finora non è andata così. La realtà della democrazia europea resta nazionale, la sfera pubblica europea non è cresciuta molto rispetto a 40 anni fa. La verità è molto amara e riguarda soprattutto i leader europei i quali rappresentano ciascuno una loro democrazia nazionale e spesso si scontrano tra loro. Subito dopo il no greco di domenica scorsa Tsipras ha celebrato “la vittoria della democrazia”, le Termopili rivisitate e corrette in modello agit-prop . Ma, benché Angela Merkel non discenda direttamente da Pericle, è un leader in tutto e per tutto democratico quanto Tsipras ed egualmente soggetto ai limiti imposti dagli interessi e dalle emozioni nazionali”.
E Garton Ash conclude così il suo articolo: “I 28 leader che si riuniscono a Bruxelles insieme ai vertici delle istituzioni europee non dovranno semplicemente superare le proprie posizioni, ma sormontare gli ostacoli strutturali creati dai loro predecessori, andando oltre l’ortodossia dei tecnocrati e negoziare un processo per conciliare i legittimi imperativi di 28 democrazie nazionali. Se falliranno, non solo la Grecia ma l’intero progetto europeo precipiteranno in una crisi ancora più grave. La crisi esistenziale finirà per essere colta come kairos cioè l’opportunità di un’azione decisiva? Da europeo lo spero, da analista ne dubito”.
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Ne dubito anch’io. Sono abbastanza speranzoso che l’accordo con la Grecia sarà approvato, ma ci si muoverà poco o niente del tutto per decidere la costruzione degli Stati Uniti d’Europa. Quantomeno limitatamente all’Eurozona, instaurando in questo modo due diversi livelli di integrazione con la possibilità per i Paesi che sono fuori dalla moneta comune di potervi entrare se e quando lo vorranno e ne avranno i requisiti richiesti.
Ci vorranno naturalmente numerose e importanti cessioni di sovranità economica e politica. Saranno disponibili i leader nazionali? E quali sono gli strumenti per indurli a questa diminuzione di sovranità e le procedure più opportune per arrivarvi? E quali gli avversari dell’intero progetto europeista?
A quest’ultima domanda è facile rispondere: gli avversari sono quei partiti o movimenti che esplicitamente spingono verso l’abbandono della moneta europea, la lotta contro le immigrazioni, il nazionalismo come fondamento della società. In Italia Salvini e la sua Lega, in Francia la Le Pen, in Spagna Podemos, eccetera. Grillo fa parte di questo gruppone ma solo per quanto riguarda l’uscita dalla moneta comune. Ma poi, sembra impossibile, ci sono anche alcuni personaggi di sinistra che, affascinati da Tsipras, vorrebbero quanto meno ricostruire una sorta di comunismo d’antan che abbia l’Europa come terreno seminativo e si proponga di combattere il capitalismo. Insomma risvegliare Marx mettendo le lancette della storia 170 anni indietro.
In realtà il vero ed anzi il solo strumento utilizzabile è quello economico da usare in modo duplice: per rilanciare una politica di crescita e per integrare sempre più strettamente le istituzioni economiche nazionali con quelle europee. Il protagonista di questa strategia è la Bce guidata da Mario Draghi.
La crescita si facilita superando del tutto il credit crunch, aumentando i prestiti delle banche alle imprese, favorendo con appositi incentivi la creazione di nuovi posti di lavoro (che è cosa diversa dai contratti a tempo indeterminato stipulato con lavoratori precari) aumentando in quantità sufficiente il tasso di inflazione e mantenendo al livello già raggiunto il tasso di cambio euro-dollaro.
Queste operazioni già in corso avanzato hanno tuttavia un carattere congiunturale. Importante, anzi importantissimo a livello sociale, se accompagnato da indispensabili misure di equità. Ma non hanno nulla a che vedere con la strategia necessaria per costruire l’Europa federata. Anche qui lo strumento monetario è fondamentale.
Gli obiettivi sono, tanto per cominciare, un bilancio unico dell’Unione europea, creato con la revisioni di alcuni trattati a cominciare da quello di Lisbona e con apposite entrate e relativi investimenti federali, cioè decisi dal Parlamento europeo di propria iniziativa o su proposta della Commissione. Al bilancio unico si deve affiancare la nomina del ministro del Tesoro europeo, che sia anche l’interlocutore politico della Bce, ferma restando l’autonomia di quella Banca presidiata dal suo statuto fondativo. Ovviamente all’unicità del bilancio corrisponde anche un debito sovrano, cioè l’emissione di titoli europei per finanziare le misure economiche e gli investimenti federali che Parlamento e Commissione attueranno attraverso apposite agenzie esecutive.
A tutto ciò si affianca l’Unione bancaria europea, la garanzia sui depositi, la vigilanza centralizzata già in corso d’opera. E sarà a quel punto che ci vorrà il salto politico e cioè la nuova Costituzione dell’Europa federale, elaborata da un’Assemblea costituente eletta dai cittadini dell’Unione sulla base di liste presentate dai partiti e movimenti europei, con un sistema di voto proporzionale come sempre avviene per tutte le Costituenti. In questo modo l’egemonia pro tempore sarà dei partiti vincenti e non degli Stati membri della Federazione.
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Una parola sul viaggio del Papa nella sua America latina. Leggendo i quotidiani discorsi in Ecuador, in Bolivia e in Paraguay, non si può che confermare l’eccezionalità di Francesco e della Chiesa missionaria che ha in mente e che è già in corso con il suo incitamento e il rinnovamento del collegio vescovile, di quello cardinalizio e delle Conferenze episcopali. In Bolivia Francesco ha ricordato il martire ucciso 35 anni fa, Luis Espinal, un gesuita trucidato dalle squadre governative perché cercava di acculturare religiosamente e socialmente gli indios di quel Paese. Francesco ha ricordato quel personaggio che come il vescovo Romero sarà anche lui beatificato.
Voglio concludere con il discorso con cui Francesco ha chiuso il viaggio in Bolivia: “Diciamolo senza timore: noi vogliamo il cambiamento delle strutture. Questo sistema non regge più, non lo sopportano i contadini, i lavoratori, le comunità e i villaggi. Un cambiamento che tocchi tutto il mondo e metta l’economia al servizio dei popoli. L’equa distribuzione è un dovere morale, si tratta di restituire ai poveri e al popolo ciò che a loro appartiene”. Naturalmente Francesco parla in nome della fede, come il Santo di Assisi di cui porta il nome; ma l’aspetto rivoluzionario è che parla in nome del Dio unico che non è cattolico né musulmano né ebreo né induista. È unico ed è Francesco che per primo lo configura, lo rappresenta e ne esprime il comandamento che si riassume così: “Ama il prossimo un po’ più di te stesso”.
A pensarci bene i destinatari sociali di questo discorso sono i ricchi e i potenti ma anche e soprattutto la borghesia e i ceti medi. Se lo si guarda con occhi politici e non necessariamente religiosi, sono questi i valori della sinistra che occorre costruire o ricostruire nell’Europa federata, sempre che si riesca a farla.
Post scriptum. Non ho motivo d’occuparmi delle intercettazioni che venerdì scorso sono state riferite da tutti i giornali e riguardano alcune conversazioni di Renzi con un alto ufficiale (molto impiccione) della Guardia di Finanza ed altri personaggi alquanto discutibili. Le suddette intercettazioni non hanno alcun rilievo penale, sono però molto sgradevoli, specie per Enrico Letta definito da Renzi come “totalmente incapace di governare”. Letta ha risposto lapidariamente: “Sembra di assistere al serial televisivo House of Cards “. È esattamente così.
La Repubblica, 12 luglio 2015