IL REALISMO SAGGIO SUI MIGRANTI, di Ernesto Galli della Loggia

 

L’ondata migratoria che sta arrivando sulle coste italiane è il fenomeno potenzialmente più dirompente sul piano sociale e politico che il nostro Paese si trova ad affrontare dopo il terrorismo. Esso riguarda sì l’Africa e l’Asia ma riguarda innanzitutto l’Italia, l’Italia che non fa figli. Degli immigrati noi abbiamo bisogno: altrimenti nel giro di pochi decenni la nostra economia si fermerà, e saremo condannati a divenire una società di vecchi poveri, senza pensione, isterilita, priva di energie vitali, di creatività. La demografia non è una favola, è una scienza: senza l’immigrazione ci avvieremmo ad una lenta ma irreparabile scomparsa. Quanti dei nostri concittadini ne sono consapevoli?

Noi tutti vogliamo invece che l’Italia viva. E che lo faccia restando il Paese che conosciamo e che si è costruito nei secoli della sua tormentata e lunga storia. Vogliamo legittimamente, insomma, restare italiani. Il che vuol dire, per esempio, con le consuetudini e i costumi che quella storia ha prodotto, e anche godendo di quel passabile livello di sicurezza di cui abbiamo finora sempre goduto nelle nostre città e sui nostri treni, di un livello passabile di decoro urbano, di una tranquilla confidenza nei rapporti sociali come più o meno è sempre stato. Tutto questo è però messo in pericolo – pensa una parte dell’opinione pubblica: in genere quella meno favorita dal punto di vista socio-culturale (questo elemento è politicamente importantissimo) – dall’immigrazione.

Forse sbaglia, ma non è certo con il rovesciarle addosso di continuo l’accusa di xenofobia e di razzismo o vacui inviti all’«accoglienza» che le si può fare cambiare idea: anche perché spesso i suoi timori, se non altro per ciò che le dice la sua personale esperienza quotidiana, non appaiono affatto infondati.

È principalmente a tali timori che deve rispondere la politica. Facendo quanto fino ad ora essa si è ben guardata dal fare: cioè innanzitutto dicendo finalmente al Paese quale strategia l’Italia intende adottare non per i barconi che arrivano oggi dalla Libia o per i disperati oggi accampati al Brennero o a Ventimiglia, ma domani e dopodomani e negli anni a venire di fronte al nostro calo demografico e agli immigrati che arriveranno comunque e di cui comunque avremo bisogno.

A mio giudizio l’obiettivo della suddetta strategia può essere uno solo: l’integrazione. Senza se e senza ma. È necessario far capire che l’alternativa non è altro che l’apartheid, sia pure in forma più o meno mascherata. Vale a dire che milioni di uomini e donne giunti da fuori vivano in permanenza tra noi, ci diano il contributo del loro lavoro, però in condizioni di inferiorità, senza i nostri diritti, senza le nostre possibilità e le nostre speranze. Magari scendendo un giorno nelle strade e mettendo tutto a ferro e fuoco per l’esasperazione: è davvero questo che vogliono coloro che pensano che «Salvini alla fin fine non ha tutti i torti» ?

Dunque l’integrazione: l’unica via per rendere compatibili l’immigrazione e la democrazia. Un’integrazione senza se e senza ma: cioè buttando a mare una buona volta tutte le chiacchiere insensate sulla società multiculturale e invece adottando consapevolmente l’obiettivo di fare degli immigrati altrettanti nuovi italiani. Ma al tempo stesso – si guardino le cose come stanno, con saggio realismo – rassicurando il più possibile quelli antichi che ciò non creerà alcuna frattura distruttiva nel panorama umano e culturale cui sono abituati. Il che richiede anche, io credo, l’adozione molto ferma di alcune misure repressive.

Mi espongo a ogni critica indicandone tre: 1) la cancellazione delle attenuanti e l’istituzione di un percorso giudiziario accelerato per quei reati che con più frequenza vedono coinvolti gli immigrati (in modo di arrivare in breve tempo alla sentenza ottenendo così il necessario effetto dissuasivo); 2) il divieto di usare una lingua diversa dall’italiano nelle funzioni religiose, tranne evidentemente per il testo delle preghiere e dei libri sacri; 3) infine, il divieto che in un qualunque edificio più della metà delle abitazioni siano stabilmente occupate da persone prive della cittadinanza italiana .

La cittadinanza è la questione cruciale. E visto che ci sono dirò la mia anche su questo come su altri argomenti funzionali all’obiettivo per me prioritario del «divenire italiani». Lo dirò con proposte concrete, se non altro per cercare di avviare una discussione pubblica non campata in aria, che ritengo quanto mai necessaria.
Andrebbe innanzitutto affermato il principio che se si nasce in Italia si è per ciò stesso italiani (i problemi di doppia cittadinanza si possono risolvere con il buon senso), e che dopo cinque/sette anni di residenza legale si può acquistare la cittadinanza previo un esame di lingua e di cultura italiane. Per il resto, dopo tre anni dal primo ottenimento del permesso di soggiorno, questo dovrebbe essere rinnovabile solo dopo un analogo esame. Dopo di che si ha diritto all’elettorato attivo e passivo per i consigli dei Municipi delle grandi città e per quelli comunali nei centri inferiori a ventimila abitanti .

Altri esempi delle misure possibili per andare nella direzione che auspico: incentivi e/o sgravi economici a tutti gli immigrati che intraprendono in proprio piccole attività artigianali o commerciali; convalida, previo un esame di equipollenza, dei titoli di studio rilasciati dai Paesi di provenienza a chi immigra in Italia; presa in carico parziale o totale da parte dello Stato delle spese per l’istruzione universitaria di giovani immigrati; adozione di un sistema di quote per favorire l’ingresso nelle pubbliche amministrazioni e nelle forze armate e di polizia di cittadini nati da genitori non italiani.

Naturalmente tutto ciò costa, è evidente. Ma non vedrei nulla da eccepire se, di fronte a una politica di solidarietà ambigua e reticente sul tema dell’immigrazione come quella che l’Unione Europea ha tenuta fino ad oggi, il nostro governo decidesse che d’ora in avanti sottrarrà dal contributo annuale che l’Italia versa al bilancio dell’Unione stessa una cifra pari all’ammontare di quanto necessario a finanziare le varie iniziative di cui sopra. Non è forse più in armonia con i grandi principi dell’Europa, tra l’altro, occuparsi della vita di chi arriva tra noi senza nulla, piuttosto che pagare un lauto stipendio a qualche migliaio di burocrati?

Il Corriere della sera, 24 giugno 2015

 

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