Lettera ai partecipanti al convegno del 3 giugno 2011.
Carissimi tutti
Sento la necessità di condividere una riflessione sull’incontro di Seneghe del 3 giugno perchéil suo svolgimento e la sua conclusione ha fatto nascere in me qualche dubbio e qualche perplessità. Inizio dalla fine e mi domando come mai l’unica conclusione a cui si è arrivati, sia quella della necessità di mantenere vivo il comitato per il 28 Aprile. Ma su questo non eravamo tutti d’accordo sin dall’inizio? Cera bisogno di incontrarsi per ben due volte per ribadire che siamo tutti d’accordo? Se questo è il risultato, evidentemente c’era la necessità. Ma se la necessità era questa, perché abbiamo parlato e discusso di tutt’altro? La sensazione che ho avuto nel dopo incontro è che ci siano altri temi che incombono e che chiedono di essere affrontati. Dinanzi ad una situazione sociale che galoppa in sella al neocolonialismo verso un asservimento totale della Sardegna agli interessi estranei se non contrari alla sua crescita, ho avuto la sensazione che gli intellettuali non riescano focalizzare la loro attenzione su quelli che sono i reali termini dello scontro in atto.
Qual è la situazione in atto?
A fronte della distruzione dell’apparato industriale, vengono proposti per la Sardegna il mantenimento della SARAS, fabbrica di morti sardi e di profitti milanesi, e la chimica verde, fabbrica di ulteriori servitù. Il resto viene abbandonato alla consunzione lenta ed inesorabile.
I pastori, nella loro disperazione, devono rivolgersi persino a Briatore per cercare quella visibilità e quell’ascolto che gli è stato negato, a volte anche con i manganelli, dalle autorità decisionali. L’Agricoltura, dai pomodori al vino, settori che parevano promettenti, versa in condizioni di precaria sussistenza.
La produzione energetica è in mano a faccendieri che, come il caso di Buddusò insegna, non si curano neanche dei pronunciamenti popolari. Il popolo dei commercianti si solleva contro Equitalia, i trasporti da e per la Sardegna diventano monopolio privato e l’università di Sassari, dulcis in fundo, nega la sua collaborazione per la formazione dei docenti in lingua sarda.
Questa, a grandi linee, è la situazione nella quale ci troviamo ad operare e il come vogliamo affrontarla è il quesito che ci si pone.
A me sembra che la risposta non possa essere soltanto di tipo economico e che debbano essere usate le armi (mi si perdoni la metafora guerraiola) che possediamo cioè quelle della cultura. Ma la cultura, in Sardegna, lo sappiamo bene, ha due corni: da una parte la cultura (definiamola così) autonomista; dall’altra quella (definiamola così) soveranista.
Gli autonomisti parlano di sviluppo credendo di essere liberi, i soveranisti parlano di libertà sapendo di non essere liberi.
Questa è la grande differenza fra i due schieramenti culturali e mentre i primi sono ricchi di mezzi di diffusione delle loro idee e di persuasione (giornali, televisioni, scuole…) i secondi sono ricchi soltanto della loro voglia e della loro volontà. Il filo interpretativo che sottende le analisi degli autonomisti è diverso da quello che sottende le analisi dei soveranisti e fra di essi, non può esserci un punto di incontro. Sono concezioni antagoniste di popolo, di cultura popolare, di nazione e di sviluppo che, inevitabilmente conducono allo scontro. Qual è il compito di un intellettuale in questa situazione? Quello di cercare un compromesso? Non credo. La ricerca del compromesso è compito del politico, non dell’intellettuale. L’intellettuale dovrebbe lavorare sulle contraddizioni del suo avversario per farle venire alla luce e per farle esplodere, l’intellettuale deve offrire al suo referente, che non può essere che il popolo sardo nelle sue realtà organizzate, interpretazioni sofisticate e al tempo stesso lineari dello scontro sociale in atto. All’interno del gruppo dei soveranisti esiste una pluralità di concezioni e di posizioni che sono una delle sue ricchezze: è all’interno di queste che si devono cercare le mediazioni. Cercare mediazioni con l’altro gruppo significa, a mio parere, solo ritardare la presa di coscienza collettiva del popolo sardo, significa riconoscere all’avversario posizioni che possono apportare miglioramenti alla condizione dei sardi e quindi possibilità di un riscatto pur nella condizione di non liberi e di dipendenti. Il tempo passato dal 1847 ad oggi è così tanto che non possiamo più permetterci di sostenere atteggiamenti tiepidi sulla questione istituzionale. I 164 anni di sudditanza che hanno arricchito il nord ed impoverito noi, non bastano per assumere posizioni più decise? Gli autonomisti di oggi non sono i discendenti di Bellieni e Lussu, sono i nipotini dei massacratori di Cilocco e con loro, l’unico dialogo possibile è la contrapposizione decisa. Certo, gli intellettuali soveranisti non possono essere un gruppo chiuso, al contrario, devono essere aperti, inclusivi e dialoganti ma il dialogo deve essere duro, deciso e conseguente. Un confronto che, se necessario, deve diventare scontro, con l’obiettivo di convincere il contendente non di eliminarlo, quello che non può essere fatto è una mediazione.
La mediazione culturale è un’altra cosa.
Propongo quindi che chi, come me , si riconosce all’interno della cultura soveranista si incontri ancora, magari in sessioni seminariali, per discutere tematiche che riguardino il territorio, l’ambiente, l’economia e la cultura per confrontare ed elaborare tesi da portare al dibattito nella società sarda.
Seminari che devono essere però improntati sulla razionalità della analisi scientifica, non sulla passionalità della militanza, che siano monotematici e, possibilmente, esaustivi, alle cui conclusioni possa essere dato il massimo risalto attraverso i mezzi di diffusione da noi posseduti o raggiungibili.
Sempre convinto della necessità del dialogo e dell’amicizia
Antonio Buluggiu