SI SENTE SEMPRE PIÙ IL BISOGNO DI UN’ASSEMBLEA ECCLESIALE REGIONALE, di Paolo Fadda
Sarà possibile aprire una riflessione, pacata e schietta, sullo stato di salute della Chiesa sarda, bypassando, e lasciando da parte, le tristi cronache di queste ultime settimane? Interrogandoci sui perché la cultura cristiana abbia dovuto cedere il passo a quella tanto secolarizzata e secolarizzante, che appare ora straripante nelle nostre comunità?
Se sarà possibile alla pochezza di chi scrive, la riflessione che segue tenterà infatti di capirne le ragioni della crisi e, insieme, di ritrovare il percorso dimenticato ed abbandonato dai propri pastori-guida.
Perché di un cammino perduto si tratta, dato che fin dal 1986 – quasi trent’anni or sono – la Chiesa sarda aveva avvertito l’urgente necessità di rinnovarsi e di attualizzarsi, “per ridare un’anima cristiana ad una società secolarizzata da una cultura che sembra ignorare e respingere i valori della fede in Cristo” e, ancora, per “promuovere una nuova evangelizzazione che possa aiutare la Chiesa che è in Sardegna a far sì che ogni suo figlio possa prendere sempre meglio coscienza del ruolo e della responsabilità che ha in ordine al rinnovamento della vita cristiana nella società sarda contemporanea”.
Sono stati questi i due postulati principali posti dal compianto arcivescovo di Cagliari, Giovanni Canestri, al tempo presidente della Conferenza episcopale sarda (CES), per indire un “Concilio plenario” che interrogasse la Chiesa locale “sulle attuali comuni sfide, nascenti dalla cultura e dalle problematiche peculiari della terra sarda”.
L’iniziativa dell’episcopato sardo si collocava nel solco dell’attuazione delle linee pastorali del Vaticano Secondo, l’importante Concilio ecumenico, indetto da Giovanni XXIII ed attuato dal suo successore Paolo VI, due grandi pontefici della cattolicità contemporanea.
I lavori di quel Concilio sardo furono quindi molto approfonditi, subendo peraltro anche freni e lentezze dovute ai diversi cambiamenti avvenuti nelle diocesi isolane, ma furono poi portati a termine grazie alla fermezza ed alla tenacia di monsignor Ottorino Alberti, succeduto a Canestri come arcivescovo di Cagliari e presidente della CES.
Un attento osservatore delle realtà cristiane dell’isola avrebbe sostenuto che l’aver rimosso i contenuti di quel Concilio plenario delle chiese sarde “sarebbe stato un caso di grave omicidio culturale”.
Si è inteso richiamare questo fatto, dimenticato, trascurato ed addirittura rimosso, proprio per richiamare alla memoria che fin da allora s’era avvertito, con il declino d’una cultura evangelizzante, l’inadeguatezza delle risposte che la Chiesa sarda era in grado di dare ai bisogni ed ai problemi delle nostre comunità.
I lavori del Concilio, durati ben 14 anni (segno anche questo, non secondario, di quante difficoltà si sarebbero frapposte) registrarono la partecipazione di un centinaio e passa fra vescovi, sacerdoti ed esponenti laici. Il risultato comunque è risultato – come si rileva dagli atti – una “summa” importante di analisi, indicazioni, valutazioni e prescrizioni di grande rilievo culturale e spirituale, rimasta però – colpevolmente ed irresponsabilmente – quasi integralmente inattuata. O, addirittura, rimossa. Il che implica delle colpevoli inadempienze ed indica, o potrebbe indicare, delle gravi colpevolezze di quanti ne hanno ricevuto l’eredità attuativa.
Non sono responsabilità dappoco, in quanto il documento finale del Concilio era, ed è tuttora, un fatto importante, una vera “summa” che predispone, racchiude e custodisce una rinnovata cultura cristiana dell’isola, in modo da poter essere in grado di affrontare le sfide di questo terzo millennio. Né andrebbe dimenticato che i vescovi Canestri ed Alberti proposero l’indizione di quel Concilio nella consapevolezza che, già da allora, le continue influenze di scristianizzazione e di secolarizzazione delle nostre comunità non avessero trovato, nella Chiesa sarda, un efficace e valido baluardo spirituale e culturale.
Ora, quel che appare importante, in queste giornate così tristi, è il riprendere in mano le analisi e gli insegnamenti di quel Concilio, perché appare attualissimo in molte sue parti. Perché da allora la secolarizzazione delle nostre comunità si è ancor più diffusa e perché le nostre parrocchie si aprano al di là della porta delle loro chiese per farsi missionarie, intervenendo per ritessere il tessuto cristiano della società sarda (quei padri conciliari avevano scritto giustamente: “il nostro non è il tempo della semplice conservazione dell’esistente, ma della missione: non ci si può limitare alle celebrazioni rituali e devozionali, bisogna passare ad una missione permanente”).
Occorre anche sottolineare come quel Concilio si fosse posto l’obiettivo di colmare quelle inadeguatezze. Nella convinzione che non fossero un problema di due o tre delle nostre dieci diocesi: era l’intera Chiesa sarda a patire quelle sofferenze, ed era l’intero popolo sardo a presentare quei vulnus di laicizzazione e di secolarizzazione, da Palau a Calasetta. Lo avrebbero scritto con acutezza quei padri: “di fronte alle grandi sfide del momento attuale è decisamente necessario una visione ed un’azione unitaria” sia nella pastorale che nell’evangelizzazione. Aggiungendo ancora come la gente di questa nostra isola “pur così diversificata nelle varie zone, mantiene ancora oggi una marcata identità unitaria. Si può quindi parlare di ‘popolo sardo’ con una sua caratteristica culturale originale ed una sua propria lingua. Ed esiste, per questo, un forte senso di appartenenza alla propria terra e ad una ‘sardità’ profondamente segnata dalla secolare cultura cristiana”.
Nonostante questi decisi proponimenti, le dieci diocesi sarde sono rimaste sempre delle monadi, delle isole cantonali, tanto che è difficile trovare momenti unitari – ad esempio – tra le diocesi di Alghero e Nuoro, tra quelle di Cagliari ed Oristano, e così via. Sembrerebbe, come sostiene un attento analista delle nostre realtà diocesane, che abbiano prevalso gli egoismi umani alle collaborazioni unitarie, citando, come esempio, che non si riuscì mai ad editare un solo organo d’informazione della Chiesa sarda, ma le testate, più o meno vitali, sono rimaste sempre tante o troppe (da Il Portico all’Ogliastra, da Libertà all’Ortobene, ecc.).
Anzi, ci fu un successore di Alberti e Tiddia alla guida della CES che avrebbe “cassato” i deliberati di quel Concilio come “incongrui” per l’organizzazione ecclesiastica e pastorale delle dieci diocesi dell’isola (e, soprattutto, della propria!). Ed a quel Concilio si rispose con alcuni sinodi diocesani che “ignorarono” completamente quel che era stato deciso dai “decreti” e dagli “studi” conciliari. Ripartendo così da zero, come sostiene criticamente quell’osservatore. Commettendo un altro grave delitto culturale.
Si è dell’avviso che a nessuno possa sfuggire l’importanza culturale di una “Chiesa sarda”, unitariamente impegnata nella pastorale e nell’evangelizzazione di un unico popolo sardo, che è unico da nord a sud, da est ad ovest dell’isola (che è unico ancora nei bisogni e nelle attese dalla propria Madre Chiesa).
Non diversamente sembra di doversi osservare – sempre nell’ottica della cultura – nei rapporti con il laicato dei credenti. Al quale, proprio quei padri conciliari avevano affidato un compito importante e decisivo, elevandolo a “soggetto” e non ad “oggetto” della pastorale. In quanto – sosteneva il Concilio - è necessario far maturare, in ogni sede, un nuovo “senso della Chiesa”, come realtà comunionale e sulla linea della Costituzione Lumen Gentium. Perché – citando il pensiero di papa Francesco – i laici debbono essere intesi come una importante e decisiva “risorsa” della Chiesa. Senza di loro – aggiungerà – non ci può essere Chiesa!
Ad essi dovrebbe essere affidato il compito di testimoniare nel mondo esterno (quello del lavoro, dello studio, del tempo libero, della politica, ecc.) il salvifico messaggio evangelico. Ed essi – i laici – dovrebbero essere resi partecipi della vita della Chiesa sarda, portando ad essa i contributi delle loro conoscenze ed esperienze maturate nel mondo esterno. Quei padri conciliari avevano potuto verificare, nell’ambito delle ampie consultazioni e collaborazioni avute con il mondo laicale, i guasti della colpevole separatezza con il clero, tanto da doverne richiedere, ed indicare come indilazionabile, il potenziamento delle occasioni d’incontro, stabilendone nuove modalità e frequenze. Perché – sostenevano – è da questi incontri e da queste corresponsabilità che si forma e si rafforza la cultura cristiana nelle comunità della nostra Sardegna.
Ma ora, di queste indicazioni, di questi indirizzi, di questi proponimenti, conciliari (dal plenario sardo al Vaticano II) cosa è rimasto nel popolo di Dio che è in Sardegna?Da tempo, purtroppo, del Concilio sardo nessuno ne parla più, nessuno ne ricorda l’importanza ed il significato fortemente culturali, oltre che spirituali per la gente della nostra isola. Se ne sono dimenticati e rimossi gli intendimenti e gli impegni principali che la CES avrebbe dovuto adempiere, tra i quali, piace ricordarlo, c’era quello di “convocare ogni dieci anni un’assemblea ecclesiale regionale”, per attualizzare e rinnovare quell’impegno di presenza, unitaria e regionale, di tutte le chiese particolari dell’isola. Di anni ne sono passati ben più di dieci, ma l’impegno non è stato mantenuto. Eppure le necessità e le urgenze per ritrovarsi insieme e per attualizzare la presenza cristiana nella nostra terra afflitta da tanti problemi, ne avrebbero richiesto la convocazione, anche in tempi più ristretti. Proprio perché, partendo da quelle indicazioni e da quelle valutazioni, si sarebbe potuto rafforzare il senso comunionale della Chiesa di Dio in Sardegna (agendo tutti “nella comunione di un’unica sinfonia”, proposero quei padri).
Ancora. Perché, se di quelle intenzioni e di quei proponimenti si fosse data già da allora (maggio 2001) piena attuazione, molte delle tristezze d’oggi si sarebbero potute evitare, prevenire, correggere e superare. Ad esso dunque ci si dovrebbe richiamare per ridare senso ed identità cristiana al nostro vivere quotidiano; per dare forza e centralità alla Chiesa sarda in questo travaglio sociale che intristisce – in una miseria non solo materiale – la nostra gente, le nostre famiglie, i nostri figli.
Infine viene da proporre una domanda per i nostri vescovi e, innanzitutto, per l’attuale presidente della CES:
NON SAREBBE OPPORTUNO E NECESSARIO CONVOCARE QUANTO PRIMA UN’ASSEMBLEA ECCLESIALE REGIONALE PER FARE IL PUNTO SULLO STATO DI SALUTE DELLA CHIESA SARDA, RIPRENDENDO COSÌ GLI OBBLIGHI ASSUNTI CON IL PLENARIO SARDO?
Ed ancora: non sarebbe forse opportuno, partendo proprio da questa diocesi kalaritana, indire come incipit di preparazione
UN’ASSEMBLEA ECCLESIALE DIOCESANA CHE ESAMINI I PROBLEMI PIÙ ACUTI ED ATTUALI, PREDISPONENDO QUANTO NECESSARIO PER SUPERARLI, IN MODO DA RIPORTARE QUESTA CHIESA DI CAGLIARI IN PIENA SALUTE ED IN PACIFICA SERENITÀ?
dal sito www.cresia.info , 26/05/2015