Cossu e Romagnino, due protagonisti della cultura letteraria e civile della Sardegna contemporanea. Memorie, riviste, libri, di Gianfranco Murtas
Antonio Cossu e Antonio Romagnino, due spiriti magni della nostra cultura regionale, due intellettuali e due democratici amati in vita e variamente onorati nel tempo successivo alla loro scomparsa, avvenuta rispettivamente nel 2002 e nel 2011. I loro nomi mi sono apparsi, per combinazione, associati in questi ultimi giorni per quanto la posta versione francobolli e versione web mi ha, nella stessa giornata, portato a casa: mi riferisco all’ultimo numero de La grotta della vipera, la bella rivista di cultura promossa da Antonio Cossu nel 1975, e al primo libro biografico su Antonio Romagnino – Il poeta della città del sole, per le Edizioni della Torre – che Carlo Dore ha scritto per (doverosamente) celebrare l’indimenticato Defensor Karalis.
Per questa singolare coincidenza temporale m’è subito venuta la curiosità di verificare, dalle collezioni de La grotta della vipera quante volte e in quali termini Romagnino abbia inviato i suoi contributi alla rivista di Cossu, e se e come e quando il nome di Cossu sia entrato, non dico nella immensa produzione pubblicistica del professore, ma almeno in qualcuno di quei libri da questi offertici ad illuminare i passaggi della storia e della vita culturale di Cagliari soprattutto fra secondo Ottocento e l’intero scorso secolo. Ce n’è. E anche a cedere alla rapidità dei tempi della ricerca (ed al rischio dunque di non intercettare tutto) i ritrovamenti valgono e soddisfano.
Dico intanto de La grotta della vipera. Fu un evento quando uscì, seria e puntuale, la rivista che rimandava al celebre monumento funerario cagliaritano che, ai piedi di Tuvixeddu, congiunge le ultime propaggini di Stampace “fuori le mura” al borgo antico dei pescatori di Sant’Avendrace. “Una provocazione, un invito” fu il titolo dell’editoriale di presentazione di Antonio Cossu sul primo numero andato alle stampe e diffuso nella primavera giusto di quarant’anni fa. La testata allusiva ad una tomba archeologica sentita o interpretata come «un’antologia – la sola rimastaci – della produzione poetica e letteraria della Sardegna in epoca romana» ma anche come la perfetta materializzazione del «senso della partecipazione, dello sforzo di un gruppo inteso a celebrare un determinato avvenimento»: la morte di Attilia Pontilla onorata dal marito Cassio Filippo attraverso dodici iscrizioni greche e latine in versi, vergate da letterati e poeti sardi apposta convocati per la missione.
Ecco: la poesia e l’apporto collettivo, i due pilastri della rivista promossa, duemila anni dopo quel lutto e quel canto cagliaritano. L’obiettivo fu precisato chiaramente, «non avendo la pretesa di voler affrontare l’universo dei problemi»: «la rivista – sono ancora le parole di Antonio Cossu – intende concentrare l’attenzione prevalentemente, soprattutto nella fase di avvio, su alcuni temi specifici. In particolare, sul significato e le ragioni della letteratura nella società, con riguardo alle regioni o aree sottosviluppate o in via di sviluppo; e ancora, sulla componente locale nella letteratura, sulle culture locali, sulla poesia popolare, sui rapporti fra lingua nazionale e lingue locali – con riferimento non esclusivo alla Sardegna, bensì all’insieme della comunità italiana e dell’area mediterranea, e soprattutto alle comunità etniche di minoranza». Sempre impegnandosi «a superare il provincialismo, il localismo, il folclore di tipo consumistico e turistico, la mera curiosità».
Spese molte energie, Antonio Cossu, per lanciare e sostenere nel tempo quelle pagine nate trimestrali e fattesi con il tempo, purtroppo, meno frequenti o rispettose della cadenza desiderata. Aperta alle collaborazioni più qualificate. Capitò anche a me, abbonato della prim’ora, di occuparmene con un servizio d’amico per La Voce Sarda, emittente televisiva allora con sede a palazzo Sanjust e concorrente di Videolina. Era la primavera del 1981, incontrai e intervistai Antonio Cossu nella sua abitazione cagliaritana.
Ma qui è importante dire dei contributi recati alla rivista da Antonio Romagnino. Sono tre. Il primo, proprio nel numero d’esordio, è forse anche il più importante: perché si tratta di un vero e proprio saggio, ancorché breve (nove densissime pagine), dedicato a “Giaime Pintor fra letteratura e azione”, introduttivo anche di tre composizioni poetiche del giovane intellettuale cagliaritano rimasto nel mito della resistenza antifascista: “Le tue veglie”, “Una sera”, “Quando per alte finestre”. A lui Romagnino sarebbe ritornato più volte e con articoli su L’Unione Sarda e con note ora in Nuove Passeggiate Cagliaritane (2002) – con insistenza sugli anni della guerra e delle ultime corrispondenze – ora in Muschi e licheni (2006) su “germanista, il poeta, l’eroe”.
Il secondo contributo, sul numero doppio 32-33 del 1985, è un’articolata recensione ad alcuni lavori recenti di Raimondo Manelli accolti nella rivista Forum/Quinta Generazione: un saggio «sullo svolgimento della poesia sarda in lingua italiana degli ultimi cinquant’anni con anche un ritratto felice dello stesso Manelli ad opera di Francesco Mannoni» ed un’antologia «che allarga le selezioni precedenti», includendo nuovi poeti e recuperandone altri (fra essi anche Pintor).
Il terzo contributo, anch’esso ricco nella sua articolazione, compare sul numero doppio 54-55 del 1991: si tratta qui della ripresa dei due interventi del professore nella tavola rotonda promossa presso le facoltà di Lettere e Magistero il 14 giugno 1991, fra scrittori, critici e storici della letteratura all’insegna del “Raccontare dalla Sardegna”. E già colpisce l’incipit del primo intervento: «Non è la prima volta che mi capita, mi capita anzi spesso, di avere la fortuna di parlare dopo Cicito Masala e quindi il mio esordio è scontato: io sono un “italiota”. Questo l’ho detto sempre a chiare note, non lo nascondo più…». Modulazione argomentativa di cui io stesso sono stato fortunato e felice testimone registrando, nel medesimo 1991, per l’emittente Sardegna Uno, un “faccia a faccia” proprio Masala-Romagnino di rara altezza non soltanto contenutistica ma anche narrativa, per la proverbiale arte affabulatoria di entrambi. Un documento che un giorno spero di poter presentare, o ripresentare, al pubblico cagliaritano. Valga qui soltanto il richiamo dei titoli assegnati dalla rivista di Antonio Cossu ai due interventi del professore: “I pericoli delle schematizzazioni” e “Miniere abbandonate” («Mi è sembrato, lo dico con un’immagine, che questi scrittori nostri sono come le miniere abbandonate. Oggi c’è questo amore dichiarato, più o meno consapevole, per una sorta di archeologia industriale. Ecco, queste miniere abbandonate, una volta che le avete censite, dovete abbandonarle per aprirvi al più vasto mondo»).
E Antonio Cossu? In Preferisco il rumore del mare (2005), Romagnino dedica due pagine al suo collega lussurgese, ricordandone la formazione nel movimento di Comunità di Adriano Olivetti e la direzione prestigiosa de La grotta della vipera. Elenca i suoi lavori maggiori – i romanzi I figli di Pietro Paolo (Firenze 1966) – la lotta di una comunità di paese contro le cavallette – e Il riscatto (Firenze 1969), il romanzo in lingua sarda Mannigos de memoria (Nuoro 1984), e il testo teatrale A tempos de Lussurzu (Cagliari 1985), e ancora, sempre in campo narrativo, Il vento e altri racconti (Cagliari 1993, con prefazione di Mario Ciusa Romagna), ed il saggio, certo più datato, Autonomia e solidarietà per il Montiferru. Sguardi e prospettive per un programma di sviluppo di una zona della Sardegna (1959, per le edizioni de Il Montiferru).
Proprio di recente, esito degli scandagli fra archivi ed emeroteche condotta con l’ottimo amico Andrea Giulio Pirastu, giovane dirigente degli ex allievi salesiani impegnato a valorizzare lo storico rapporto della Sardegna con l’Opera di Giovanni Bosco (tanto più nell’imminente bicentenario del santo astigiano), ho recuperato la copia dei Gosos in onore de don Bosco, opera di Antonio Cossu appena ventenne, cioè del 1947 – un solo foglio stampato dalla tipografia Pinna di Oristano – e andata in ristampa nel 1962 con un modesto formato di opuscolo (di 16 paginette) ad iniziativa dell’Istituto salesiano Carta Meloni. E certo meriterebbe scavare sull’opera giovanile di Antonio Cossu fra poesia e prosa, fra lingua e limba, produzione purtroppo dispersa fra giornali e riviste, fra le quali certo Il Bogino e Il Montiferru sono, negli anni della Rinascita, quelle di maggior rigoglio. (Peraltro l’OPAC Sardegna potrebbe utilmente sovvenire, anche se non offrendo oggi tutti i titoli d’interesse per la parzialità dello spoglio).
Né meno interessante sarebbe raccogliere tutte le tracce della sua militanza olivettiana, fino a quel fatidico 1958 che segnò l’alleanza politica del movimento di Comunità con il nostro Partito Sardo d’Azione (quel Partito Sardo d’Azione di infiniti sbagli ma di lignaggio nobilissimo, di idealità patriottiche e di personale popolare e competente, per il complesso evidentemente di tutt’altra natura di quello presente sulla scena di questi ultimi trent’anni e soprattutto d’oggi, alleato dei parafascisti e dei pagani, affogato in un nazionalitarismo senza bussola e senza costrutto).
Dirò al riguardo che un pur sommario riscontro della serie di diciassette numeri de Il Solco del 1958 – dico del giornale che incontrò in quella stagione l’aiuto finanziario dell’industriale eporediese e poté assicurarsi continuità di uscite – la firma di Antonio Cossu allora poco più che trentenne è ricorrente. Suoi gli articoli-inchiesta titolati “In piccoli paesi rurali sorge un ritmo nuovo di vita”, “I sardi a Torino. Pensano alla casa della loro giovinezza”, “La cooperazione contadina e l’esempio di Montalenghe” (rispettivamente del 6, 20 e 27 aprile 1958) E circa l’area sardista meriterebbe ricordare la sua partecipazione al convegno giovanile (interpartito ed extrapartito) svoltosi a Santulussurgiu ai primi di settembre del 1955: sua anzi la relazione di apertura dal titolo “Per un intervento giovanile nel momento attuale in Sardegna (di cui è il resoconto su Il Solco dell’11settembre dello stesso anno sotto il titolo “Sardegna d’oggi”).
Altra pista ricostruttiva dell’impegno culturale-professionale, e politico lato sensu, di Antonio Cossu funzionario del Centro regionale di programmazione, in coerente prosecuzione del lavoro intellettuale da lui svolto come emigrato nel nord Italia e nella capitale, sarebbe quello del regesto dei suoi studi ed interventi pubblici sovente ripresi dalla stampa. (Fra i primi quello al convegno sulla pastorizia svoltosi ad Ollolai nella primavera 1966, e di cui ho scorto una traccia su Sardegna libera dell’aprile di quell’anno).
Ora La grotta della vipera (divenuta nel frattempo semestrale, ma in realtà annuale, e ormai vacante da tre anni) chiude, anzi ha chiuso. Passata, alla morte di Antonio Cossu – affiancato per alcuni anni da Giuseppe Marci e Paolo Lusci – alla direzione di Giovanni Sanna e con una redazione di livello, la rivista, stampata dalla Grafica del Parteolla, ha alzato il suo lamento finale nel numero 106-107. E’ la confessione di Mariangela e Maria Giuseppa Cossu: «ci sembra sia giunto il momento di sospendere un impegno che chiede sacrifici, oltre il giusto, a persone che a questo progetto hanno dedicato tempo, qualche risorsa e qualche scoramento. Forse è colpa nostra, forse la Sardegna non è più quella di prima. Ormai sembra che gli ideali comuni si orientino sempre di più verso forme di omologazione volute dai supermercati, dall’intrattenimento televisivo e dalle ingordigie»… Nel tempo si sono perse due grandi intelligenze che alla Grotta avevano assicurato molto del loro: Mimmo Bua e Placido Cherchi.
E’ forse un caso, ma nell’ultimo numero della rivista – volontario o meno omaggio alla memoria di Antonio Cossu e alle sue fatiche di giovane sardo emigrato sul continente italiano – compare un saggio di spiccato interesse, a firma di Bruno Segre: “Adriano Olivetti, figlio di un mondo che abbiamo perduto”. Densi di suggestioni e provocazioni intellettuali anche gli altri articoli: “Lingue minoritarie e economia. La tutela è cosa buona, giusta e conveniente” (di Marco Stolfo), “Civiltà nuragica e autonomia” (di Alberto Contu), “Tu chiamale se vuoi, percezioni” (di Nicolò Migheli), “L’intonazione del cagliaritano” (di Iside Zucca, con curiosissimo complemento di grafici illustrativi della comparazione «del profilo intonativo di una stessa frase nella modalità interrogativa… e affermativa»o «per la varietà dialettale di Nuoro e di Cagliari nella modalità interrogativa»… E ancora molto altro nell’indice, fra cui un articolo di Michele Pintore su “Priamo Gallisay, il musicista ritrovato”: Gallisay figlio di quel don Gavino amico di Asproni e promotore della massoneria nuorese ai tempi dei moti di su connottu, divenuto don Minosse ne Il giorno del giudizio del grande Salvatore Satta.
Così l’edizione finale de La grotta della vipera. Bello e doveroso, nella lunga serie, lo speciale recante il numero d’ordine 98, della primavera 2007, riunente , dopo una limpida introduzione di Mimmo Bua (“Affinché anche il tempo a venire…”, una vera e propria storia della esperienza condotta, fra alti e bassi, dal gruppo di lavoro), gli editoriali di Antonio Cossu distribuiti lungo l’intera striscia del venticinquennio 1975-2000, iniziando da “Una provocazione, un invito” e finendo con “La promozione del libro e della scrittura”.
Ecco poi il libro di Carlo Dore dedicato ad Antonio Romagnino, che sarà presentato all’Ostello della Gioventù di Cagliari la sera di mercoledì 3 giugno da Gianni Filippini, Giancarlo Ghirra, Giacomo Mameli e Franco Masala.
Prefato da Sandro Maxia, italianista di gran nome nell’università di Cagliari ma certamente non meno riconosciuto nel giro accademico nazionale, allievo dettorino del giovanissimo professore, negli anni ’50, e recensore più volte delle sue opere, il libro di Dore si apre con una brevissima introduzione dell’autore che colpisce subito per l’associazione che compie fra il nome del nostro Romagnino e quel Piero Gobetti, liberale eretico e geniale, vittima della violenza fascista, al quale tanti di noi e, appunto, il professore (con maggior legittimazione di tutti) si sono riferiti lungo il corso della loro vita.
Mi verrebbe qui di ricordare allo stesso Dore che la testata giornalistica sarda che meglio di altre si ricollega al nome di Piero Gobetti fu quella stessa che Francesco Cocco Ortu jr. lanciò nel 1945, nella Cagliari appena uscita dalla guerra, avendo al suo fianco, dopo Giuseppe Susini, il giovanissimo – giusto trentenne nel 1947 – Antonio Romagnino come redattore o redattore capo (per qualche tempo in tandem con Rita Carboni): Rivoluzione Liberale. Forse i liberali cagliaritani di quegli anni somigliavano poco, per l’imprinting etico-civile e culturale, a Gobetti, molto di più certamente lo era il Romagnino di quella stagione: quel Romagnino che non a caso ebbe ripetute… crisi di coscienza ad accettare la convivenza – lui repubblicano di “rieducazione” americana – con i tanti monarchici del PLI, piccoli proprietari conservatori della provincia e piccoli borghesi della città, e più ancora ad accettare la confluenza nel partito – lui liberal “rieducato” dalle pagine di Alexis de Tocqueville – del movimento qualunquista di Giannini rispalmatosi in quel tempo, in specie fra 1947 e 1948, fra le formazioni monarchiche, il MSI e appunto il PLI.
Dalla collezione pressoché completa del giornale custodita nella Biblioteca universitaria, di cui ho potuto compilare il regesto generale, ho recuperato i tre articoli firmati dal giovane professore, tutti e tre risalenti alla primavera 1947 (alla ripresa cioè delle pubblicazioni dopo una sosta di sette mesi, fra il settembre 1946 e il marzo successivo; il giornale poi avrebbe sospeso definitivamente le pubblicazioni ad agosto). Si tratta precisamente di “La repubblica insanguinata”, “La pattuglia di punta”e “Il sesso degli angeli”, rispettivamente del 20 marzo, 2 aprile e 1° maggio (soltanto quest’ultimo è riperso nella bella antologia curata da Raimondo Turtas per la serie Stampa periodica in Sardegna 1943/1949 pubblicata dalla Edes negli anni 1974-76).
Non indugia, il libro di Dore, su questi aspetti, secondo me centrali, della maturazione civile e politica di Antonio Romagnino nella Italia rinata dopo la dittatura e dopo la guerra e piuttosto affida, nel ritmo stringato che s’è imposta la monografia, alla vicenda della prigionia americana e all’attività ivi esplicata nei campi di rieducazione – s’intende rieducazione dalla mentalità fascista a quella democratica – il compito di far da spartiacque fra i primi capitoli e gli ultimi: i primi di taglio piuttosto biografico, insistendo sugli anni della formazione familiare e scolastica (elementari ai caseggiati di Santa Caterina e del Satta, ginnasio e liceo al Dettori nella Marina) ed universitaria (facoltà di Lettere e successivamente di Scienze Politiche): formazione intellettuale in senso generale , fino all’avvio alla cattedra di italiano al Minerario iglesiente nel 1937.
Sarebbero anche qui degni di citazione – perché indicativi del percorso progressivamente emancipativo del giovane professore dalle strettoie del regime alle aperture della democrazia postfascista – le collaborazioni da lui assicurate da studente universitario ma anche dopo a riviste come Sud-Est, di cui fu redattore capo ancora nel 1940, e dove lasciò ripetutamente i suoi contributi di articolista (“Quattordici ragazze da Berlino”, “Islam contro Inghilterra”,ecc., a citare soltanto quelli usciti (sui numeri 23 e 24 del 1940) all’indomani della entrata in guerra dell’Italia al fianco della Germania hitleriana. Andrebbe anche aggiunto che, con la signorilità e la onestà intellettuale di cui era maestro, il professore non ha mai taciuto tale esperienza, motivandola sempre con senso storico, per fondamentali e misura.
(Richiamerei, al riguardo, quanto egli stesso scrive, al riguardo, in Farfalle & altro (1997), alla pag. 199, ma anche quanto disse a me nella nascostamente fraterna conversazione poi pubblicata in La città chantant, monarchica, clericale e socialista: «[Sud-Est] è una rivista che sul declinare degli anni ’30 – diciamo 1935-36, quando io sono matricola – fu pubblicata dal gruppo universitario fascista. Il titolo è un po’ strano e viene dall’aver l’ideatore tenuto presente, e citato anche, mi pare, un discorso di Mussolini, il quale aveva indicato nel mezzogiorno e nell’est le grandi linee di sviluppo dell’Italia imperialista, quindi la rivista era fascista – non avrebbe potuto non esserlo –, non lo nascondeva e si ricollega alla politica più discussa e negativa di Mussolini che era l’imperialismo. Allora c’era la guerra d’Africa, la guerra d’Etiopia. Poi ci sarebbe stata la guerra di Spagna, e Mussolini mirava anche all’oriente e al medio oriente. La rivista era stata ideata, e se non ideata comunque diretta, per lunghi anni, da Lino Businco… Ad esprimere un giudizio inoppugnabile ed austero su Sud-Est c’è Sotgiu, Girolamo Sotgiu che ha scritto che tutti quelli che hanno fatto cultura , che sono stati in diversa misura forti intellettuali post bellici, sono stati prima collaboratori di Sud-Est, ad iniziare da Renzo Laconi, oppure dal suo compagno che era Gino Forresu, professore di diritto costituzionale… ma tanti altri, come Massacci che era un altro compagno di Renzo Laconi, socialisti e comunisti negli anni della guerra e dopo, o che erano rimasti fascisti, come Businco stesso, o diventati liberali, facendo insomma esperienze che li avevano staccati più o meno rapidamente dal fascismo». E circa i risultati di quella esperienza: «Per molti è stata l’occasione offerta a cimentarsi nella scrittura, a provare quella specie di gioia, di gioco gioioso che è lo scrivere ed il firmare, di gratificazione in se stessa che è il comporre. La collaborazione era gratuita, naturalmente, la rivista avrà raggiunto forse appena mille persone… ma essenzialmente di positivo c’è stata questa possibilità di fare esercizio, che è stato utile soprattutto per quelli che hanno continuato ed hanno fatto esperienze più continue e più rigorose. Io non la cancellerei, questa esperienza giovanile, tutt’altro: prima di tutto perché c’è stata, ma poi perché c’è stata anche per la vita degli altri che pur non vi si sono poi più riconosciuti idealmente, o ideologicamente, insomma che hanno superato quel momento»).
E’ da dire che accanto alla ricostruzione dei momenti di vita trascorsi in prigionia nel Missouri e quelli del ritorno a casa e della opzione liberale, Dore inserisce, come a ricollegarsi ad altre proprie pubblicazioni, un capitolo – il quinto – tutto dedicato al ventennio sciagurato in cui il fascismo passò, per libere (o semilibere) elezioni e maggioranze parlamentari, ad irreggimentare l’Italia e ad incassare, almeno per lunghi anni, il consenso convinto di larga parte della popolazione. Fino al “patto d’acciaio” con la Germania nazista e lo sconquasso tragico della guerra.
Il settimo capitolo è un’altra enclave tematica nel racconto biografico (confesso che di una certa successione dei capitoli non ho capito la logica): tratta della seconda guerra mondiale nei suoi termini generali, e comunque apre agli scenari della maturità umana, civile, culturale, politica del professore, rappresentandolo così come lo abbiamo incontrato e conosciuto, frequentato ed amato noi di una o forse due generazioni successive. Valgano qui i titoli: “Lo scrittore, il filosofo, lo storico e l’ambientalista”, “Il poeta”, “La generosità” (bella questa forse inconscia personalizzazione di una sua qualità, generoso come tutti i migliori uomini di scuola! io direi “Romagnino ovvero la generosità”, generoso verso le idealità e verso le persone, i giovani soprattutto, generoso verso la vita, ogni giorno così nella disciplina e nella costanza).
Chiudono la sequenza i capitoli dedicati a “Gli ultimi anni” e a “I personaggi e i luoghi dei libri”, una sorta di viaggio fra le tremila pagine dei suoi libri tutti da studiare dopo che da leggere. Anche perché in essi è l’io narrante – lo stesso professore talvolta cedutosi al suo alter ego Stefano – che conduce agli eventi raccontati con i loro protagonisti. Ed è evidente sempre la sua partecipazione ad essi – dico partecipazione e quindi testimonianza – e quando non si tratta di partecipazione storica certo è partecipazione intellettuale, sentimentale, etica, e la sua testimonianza è lì, limpida e valida, e ci racconta di don Milani e degli altri disubbidienti, di padre Turoldo e di padre Balducci, dei religiosi carezzati dal laico Romagnino, e ci racconta ancora di Pasolini, non meno religioso dei religiosi, anima penante, profonda, capace insieme di ricercare e, forte dei codici interpretativi, di orientare.
Ritornano in queste pagine di Carlo Dore i titoli dei libri firmati e/o dei saggi rifluiti in volumi collettanei. Verrà il giorno in cui potremo esitare un repertorio completo – chissà, io ci sto lavorando, compatibilmente con molto altro, da tre anni e sono arrivato a più di mille articoli e saggi in almeno trenta testate… L’elenco quanto meno dei libri ritorna in una delle appendici, peraltro integrabile quanto meno con i riferimenti ai due volumi della Electa, dei primissimi anni ’80, vale a dire Marina (si ricordi qui la gustosa polemica del professor Del Piano, che esigeva l’articolo determinativo davanti al nome del quartiere che Romagnino invece tendeva ad omettere!) e Castello, e direi anche alla Guida di Cagliari, del 1992, scritto a quattro mani con Ludovica Romagnino – degna allieva e collega di tanto padre e tanto maestro – e poi ristampato con qualche modifica, nel 2007, con il titolo Cagliari. Aggiungerei anche quel Cagliari di una volta, i testi di accompagno alle immagini d’epoca della città, quelle della collezione privata di Sergio Orani.
Chiudono il libro le righe dedicate da molti amici ed estimatori al professore, all’indomani della sua morte, tanto più sui giornali e nelle (troppo poche, ma comunque qualificate) occasioni celebrative.
Resta il dovere della città di cui fu il Difensore di intitolargli, io suggerirei, uno spazio culturale ben più che una strada di periferia (pur onorando le periferie!). Potrebbe essere, d’intesa con la Biblioteca universitaria, che egli frequentò con assiduità in tutte le fasi della sua laboriosissima vita – e nella quale tanto spesso ci si incontrava, insieme anche con Paolo De Magistris e Tito Orrù –, la sala sarda. Qui egli lavorò, giovane ventenne, alla sua tesi di laurea, consultando per lunghe sessioni l’emeroteca isolana degli anni 1848-1870, gli anni clou del risorgimento patrio, unitario e liberale… Oppure l’auditorium della Mem, individuando in esso lo spazio di studio e insieme di confronto, di discussione degli studenti e della città intera, della grande Cagliari città metropolitana, circa il passato che ci ha formato, il presente che ci responsabilizza (nel qui ed ora!), il futuro che siamo chiamati a delineare per accogliere, nel miglior range della libertà civile e del dovere, le generazioni che ci subentreranno.
(In quanto a intitolazioni, non perdo oggi l’occasione di segnalare all’Amministrazione civica, e in specie al sindaco (che votai ma riconosco essersi rivelato alla prova figura ben modesta), che rimangono ancora dimenticati due padri della patria il cui nome fu in vario modo legato a Cagliari: Ugo La Malfa e Giovanni Battista Melis, non a caso amati, amatissimi, da Antonio Romagnino e, posso dirlo, anche da Antonio Cossu. Ma – mi domando – che città è mai questa che onora nella toponomastica i gerarchi fascisti e anche gli industriali che stipendiarono gli squadristi – come han fatto le giunte e le maggioranze pagane degli anni scorsi – e dimentica i democratici, legislatori illuminati e testimoni dei più bei valori della politica come servizio all’interesse generale?).