Monsignor Romero, un santo (del popolo) che si fa beato (per gli altari), di Gianfranco Murtas

Domenica 23 maggio, a distanza di 35 anni dal suo assassinio, l’arcivescovo Oscar Arnulfo Romero verrà beatificato con una solenne cerimonia in San Salvador. La prassi introdotta da Benedetto XVI prevede che le cerimonie di beatificazione si celebrino nei luoghi in cui il “candidato” operò in vita e che essa sia presieduta dal prefetto della competente Congregazione vaticana, riservando il pontefice a sé, in Roma, il successivo step della canonizzazione.

Certo sarebbe stata perdonata a papa Bergoglio, vescovo di nascita latinoamericana, una eccezione: se cioè egli stesso avesse presieduto il rito concelebrato con il popolo onesto e buono di San Salvador, anche per mostrare il superamento definitivo non soltanto delle antiche avversioni ma pure di quel supplemento di incomprensione di cui san Romero d’America è stato vittima, con il suo ministero e il suo magistero, perfino dopo la morte.

Lo sblocco della “causa” ingessata – per quanto in essa vi sia di simbolico – è comunque importante, molto importante.

Anche a Cagliari l’arcivescovo martire, sentito nel cuore da molti di noi ecumenici come riferimento alto dei valori di giustizia e socialità, verrà onorato secondo programmi che sono in corso di preparazione. Certo fra i più attivi sarà Pierpaolo Loi che nella comunità di San Rocco, così intimamente legata alla memoria cara e indimenticata di don Efisio Spettu, ha più volte evocato con lezioni e testimonianze l’esperienza umana e cristiana del grande vescovo. Al cui nome fu intitolata la scuola popolare operativa nei locali della stessa chiesa di Villanova.

Qui di seguito, volendo in qualche modo partecipare all’evento, riproduco tre articoli dedicati a colui che il popolo salvadoregno, e non solo esso, giustamente chiama da sempre san Romero d’America: articoli che pubblicai nel 2007 (nei numeri rispettivamente di giugno, luglio e novembre) sulla rivista cagliaritana Chorus, condiretta dagli amici Alberto Lecis e Paolo Matta. Essi sono poi rifluiti in un piccolo volume dal titolo Una voce nel Chorus. Raccolta degli articoli 2001-2007.

1 – L’arcivescovo Romero, premonizioni di un martirio

«La ragione prevalga sempre sulla forza». Ventotto anni fa la storica Conferenza di Puebla.

 

Nei giorni dello svolgimento della quinta Conferenza episcopale dell’America latina e caraibica, aperta da Benedetto XVI e da poco conclusa, mi è occorso di rileggere alcune pagine del bellissimo diario di San Romero dedicate alla celebre Conferenza di Puebla, fra gennaio e febbraio 1979. Giusto un anno prima del martirio del grande vescovo e “porporato” ed essa stessa inaugurata non da un discorso ma dal sangue: quello di padre Octavio Ortiz e di quattro giovani della parrocchia salvadoregna di San Antonio Abad. Una bomba, le autoblinde, le mitragliate: «Il volto del padre era sommamente sfigurato». Scrive, monsignore, della veglia funebre in duomo. «Io sono arrivato quasi alle undici di sera. Ho recitato un responso in suffragio. Ho invitato tutti in cattedrale alla messa delle otto, alla quale sarebbero stati presenti tutti i sacerdoti, che lasceranno da parte orari ordinari della domenica per partecipare a questa concelebrazione per un fratello sacerdote». Quantifica, l’indomani, in cento i preti intervenuti alla messa (detta nel parco, per l’incapienza del duomo). «Predicando l’omelia ho fatto un richiamo a usare la ragione prima che la violenza e la forza. Ho protestato per questa offesa alla dignità della nostra Chiesa. Ho ricordato la pena di scomunica in cui sono caduti i responsabili intellettuali e materiali di questo crimine». Accenna più oltre al cadavere del sacerdote restituito alla sua comunità di Mejicanos, ricorda di averlo ordinato lui stesso nel 1974: «Era il tre marzo». E aggiunge qualche riga anche su questo secondo funerale, registrando la larghissima partecipazione popolare. «Ho terminato questa cerimonia con molta soddisfazione nello spirito. Come rispondono bene i paesi, quando li si sa amare!».

L’indomani – 22 gennaio – a Puebla, Messico. Annota e commenta, ovviamente, anche i discorsi di Giovanni Paolo II in visita alla Conferenza. E anche la presenza – nella sessione ecumenica – dell’abate di Taizé «il quale mi è diventato molto amico». Annotati, ancora, gli schemi di lavoro. La sua commissione è quella stessa di dom Helder Camara, «la sesta, evangelizzazione e promozione umana»: «il tema della nostra sessione è molto importante, visto che in essa si studierà la teologia della liberazione». Annotati i contatti sviluppati con i confratelli latino-americani e con il vasto e variegato ambiente ecclesiale messicano, ed un imprevisto guaio alla vista («una piccola piaga nella retina») con conseguente ricovero di alcuni giorni. Annotate le confidenze private sull’andamento, non tutto d’oro, della Conferenza, ed anche l’imprevista conclusione di una delle tante conferenze-stampa impostegli dai giornalisti di mezzo mondo: «Hanno incominciato a gridare in coro: “Nobel, Nobel”». Annotata la concelebrazione di chiusura, martedì 13 febbraio, con le letture bibliche che «narrano l’origine del collegio apostolico» e l’omelia del cardinal Baggio. Annotata la singolarità dell’offertorio: «vengono presentati, come frutto di tutta la conferenza, i documenti che poi vengono consegnati ai presidenti delle Conferenze Episcopali Nazionali. Ogni presidente li riceve sotto la protezione della Vergine, invocata col titolo con cui è particolarmente onorata in ciascuna nazione. E in tal modo la consegna risulta una vera litania alla Vergine in America Latina. Il popolo, all’invocazione della Vergine sotto questi titoli, risponde: “Prega per noi”, e l’animatore dice. “Viva!” a ciascun paese. Alla fine della messa questo agglomerato di gente diventa una festa».

Il 14 monsignore è a Città del Messico, dove prende parte «ad una riunione di comunità ecclesiali di base, nel collegio dei maristi… Mi hanno chiesto di raccontare l’esperienza della mia arcidiocesi… Erano presenti il padre Ortega e il padre Placido, espulsi dal Salvador… Di sera, nel luogo dove eravamo alloggiati, ci ha visitato una rappresentanza di giovani che erano stati espulsi dal paese… Abbiamo cercato di aiutare soprattutto quelli arrivati da poco». E il 15: «Questa mattina, prestissimo, mentre mi preparavo ad andare a visitare questo gruppo di salvadoregni in esilio sono venuti quasi tutti loro a dirmi che, per il loro ed il mio bene, forse era opportuno che non andassi io all’hotel…».

 

2 – 1979. Dopo Puebla, un’udienza attesa e tormentata

Sfogliando il diario dell’arcivescovo di San Salvador alla vigilia del suo martirio.

Tre mesi dopo la conferenza episcopale latino-americana di Puebla, mons. Romero viene in Italia ed incontra il papa Giovanni Paolo II. Nel suo diario annota i temi e i toni del colloquio insieme con altri aspetti e impegni della sosta romana d’inizio maggio. A cominciare dal giro, che pare consueto per i vescovi di tutto il mondo, e tanto più per quelli che a Roma hanno studiato da giovani, per le case generalizie o le  succursali delle famiglie religiose. Così nell’agenda di mons. Romero, ospite delle suore domenicane, ecco succedersi i gesuiti (a pranzo con padre Arrupe: «Anche lui mi ha parlato di vari progetti della compagnia in America Latina»), i claretani («Ho ricordato insieme a loro i giorni del mio seminario minore e anche la mia prima messa celebrata precisamente nella chiesa annessa a questo centro d’autorità», nel 1945), le suore di Betania («Sono quattro religiose salvadoregne e guatemalteche che curano una casa di studenti universitari»), le passioniste («Dieci in tutto, sono messicane e conoscono il Salvador: mi hanno invitato a pranzo e a celebrare loro un’Ora Santa»), le oblate, i padri e fratelli giuseppini… Per non dire dei compagni di antica missione, dal padre Lopez Gall («Mi ha riferito con la semplicità di un amico, il giudizio negativo espresso da alcuni settori della curia sugli scritti teologici del padre Jon Sobrino») a mons. De Nicolò della Congregazione per l’Educazione della Fede («Gli ho parlato con affetto e completa confidenza sulla condizione della mia relazione con i vescovi, con il governo, con il nunzio. E lui mi ha compreso: dice che è sicuro che siano esagerazioni quelle informazioni negative che arrivano a Roma circa il mio operato»).

C’è tempo, prima e dopo l’udienza pontifica, di visitare, oltre alla tomba di San Pietro, anche quelle di San Filippo e San Giacomo il minore e quelle degli ultimi pontefici, soprattutto del grande e caro Paolo VI («ho chiesto insistentemente il dono della fedeltà alla mia fede cristiana e il coraggio, se fosse necessario, di morire come morirono tutti questi martiri o di vivere consacrando la mia vita allo stesso modo come l’hanno consacrata questi moderni successori di Pietro»). E ancora l’Università gregoriana frequentata in gioventù («Quanti ricordi!»), la Radio Vaticana per un’intervista al padre Suarez («Gli ho descritto la nostra situazione e il mio lavoro»), nonché una sartoria ecclesiastica e piazza Minerva «per cercare  tra gli artisti d’arte sacra il pastorale che ho sempre desiderato, simile a quello che ha usato Paolo VI e che continua ad adoperare Giovanni Paolo II. In questo negozio ho trovato chi lo farà e la madre Gloria si è presa l’impegno di trovare chi poi lo paghi»… Né manca, nella settimana, un pranzo domenicale a Castelgandolfo, di fronte al lago: «C’era molta umidità e foschia… mi sono comunque reso conto di quanto fosse pittoresco il luogo dove il Santo Padre passa i suoi giorni di riposo… Un ambiente povero. Forse emerge troppo, in mezzo a quell’ambiente, l’immensa tenuta».

Due altre puntate nella città leonina meritano la citazione: per l’udienza generale in piazza San Pietro, mercoledì 2 maggio, all’indomani di alcune beatificazioni (padre Coll e padre Labal) – quando il pontefice chiama a sé i quaranta vescovi presenti per la collettiva benedizione al popolo –, e per il Regina Coeli di mezzogiorno domenica 6.

E’ dell’indomani, dopo tanto insistere con i prefetti della casa pontificia (mons. Martin e mons. Monduzzi), l’udienza chiesta al pontefice già dal giorno della comune benedizione in piazza San Pietro. «Mentre gli stringevo la mano… mi ha detto che avremmo dovuto parlarci in privato: gli ho risposto che proprio questo era il mio più grande desiderio… Per questo motivo non gli ho consegnato le carte che avevo preparato: avevo pensato che, se non avessi potuto avere l’udienza, almeno gli sarebbero rimaste in mano varie cose che devono completare la relazione del visitatore apostolico»…

Colpisce alla data del 4 maggio la seguente annotazione, che rivela la mortificazione per l’attesa della udienza (e insieme la sua dignità personale ed episcopale): «Mi preoccupa molto questo atteggiamento verso un pastore di una diocesi, dal momento che avevo chiesto da parecchio tempo l’udienza e hanno lasciato passare tanto tempo senza darmi la risposta; temo persino che quest’udienza non mi venga concessa, perché ci sono molti vescovi in visita ad limina e si usano anche altri criteri per dare la precedenza ad altre domande. Ho affidato tutto nelle mani di Dio dicendogli che, da parte mia, ho cercato di fare tutto il possibile e che, nonostante tutto, credo e amo la Santa Chiesa e sarò sempre fedele, col suo aiuto, alla Santa Sede, al magistero del Papa: capisco tuttavia la parte umana, limitata, difettosa della sua Santa Chiesa che rimane, in ogni caso, lo strumento di salvezza dell’umanità e che voglio servire senza nessuna riserva».

 

3 – Monsignor Romero, papa Woytjla, il card. Baggio

Sfogliando ancora il diario del 1979 dell’arcivescovo-martire

Inchiodato dalla diffidenza del nunzio apostolico e dall’ostilità del governo fascista, indagato dal curiale mons. Quarracino anche per la destituzione del suo ausiliare (reo di aver cambiato gli statuti della Caritas contro il parere del metropolita), e a rischio di sostanziale rimozione con nomina di un amministratore apostolico “sede plena”, in una Chiesa tanto amata ma nella quale (in grande contraddizione con quanto invocherà lo stesso Giovanni Paolo II sulle forme ecumeniche del primato petrino) gli ispettori contano più dei martiri, mons. Romero gioca tutte le sue carte sul piano della verità dei fatti, non delle libere od interessate interpretazioni dei monsignori vaticani in carriera.

Così egli scrive, riferendo del colloquio con il pontefice, lunedì 7 maggio 1979: «Abbiamo iniziato a leggere e man mano gli mostravo i documenti. Quando ho tirato fuori la cartella delle informazioni straniere sulla situazione del paese ha sorriso, perché era piuttosto voluminosa e non c’era tempo di vederla… A me interessava solo che egli vedesse come criteri imparziali tratteggino la situazione d’ingiustizia e di prepotenza che c’è nel nostro paese. Gli ho dato anche una cartella con la fotografia del padre Octavio, morto, insieme a molte informazioni su questo omicidio».

E ancora: «Dopo che gli ho consegnato le sette cartelle, il Papa ha cominciato a fare commenti, d’accordo con l’ultimo punto del memorandum, che si riferiva ad un dialogo nella ricerca sincera di ciò che ne pensava il Papa e di un servizio migliore al nostro popolo. Ha confessato che è estremamente difficile il lavoro pastorale nell’ambiente politico in cui mi trovo. Ha raccomandato molto equilibrio e prudenza, soprattutto nel fare le denunce concrete: ha detto che è meglio mantenersi soltanto ai principi, perchè si rischia di cadere in errori o equivoci quando si fanno delle denunce concrete. Io gli ho spiegato (ed egli mi ha dato ragione) che ci sono situazioni, come ad esempio il caso di padre Octavio, in cui bisogna essere molto concreti perché l’ingiustizia e la violenza sono state molto concrete. Mi ha ricordato la sua situazione in Polonia… Ha dato molta importanza all’unità dell’episcopato. Ricordando ancora una volta il tempo in cui svolgeva la sua attività pastorale in Polonia, ha detto che questo era il problema principale, mantenere l’unità dei vescovi. Ho detto che anch’io lo desidero più di ogni altra cosa, ma che l’unione non può essere simulata, ma si deve basare sul Vangelo e sulla verità».

E più oltre, soffermandosi sulla cattiva relazione ispettiva di mons. Quarracino, che «ha raccomandato, come soluzione alle deficienze pastorali e alla mancanza d’unità tra i vescovi, un amministratore apostolico “sede plena”»: «sono uscito compiaciuto per questo incontro, ma preoccupato dal fatto che evidentemente hanno il loro influsso le informazioni negative circa la mia pastorale; anche se poi mi sono ricordato bene che egli ha raccomandato “audacia e coraggio, ma nello stesso tempo, misurati da una prudenza e un necessario equilibrio”. Anche se la mia impressione non è stata del tutto soddisfacente a prima vista, credo tuttavia che sia stato un colloquio molto utile, perché è stato molto franco ed io so bene che non si deve sempre aspettare una piena approvazione, ma che è più utile ricevere delle avvertenze che possano migliorare il nostro lavoro».

Dell’indomani è un’appendice non meno interessante. Si tratta delle annotazioni sul colloquio con il card. Sebastiano Baggio, prefetto della Congregazione dei vescovi. Si sapeva che il porporato, diplomatico (anche in America latina) più che pastore, in consuetudine con i vertici politici più che con i miserabili delle favelas, non vedeva di buon occhio la teologia della liberazione. Il precedente incontro del 1978 era stato tempestoso, questo nuovo invece sembra sorprendentemente cordiale: «Lui desiderava molto vedermi – scrive l’arcivescovo – e mi ha detto che sarebbe rimasto sorpreso se, venendo a Roma, non fossi andato a trovarlo».

E sul merito: «Mi ha manifestato la sua preoccupazione soprattutto riguardo alla divisione dei vescovi e alla situazione del vescovo ausiliare. E’ stato molto franco a riconoscere l’errore dell’ausiliare vicario generale… Egli si è poi riferito alla visita apostolica ed al suggerimento che il Papa aveva avanzato…, cioè di aggiustare la situazione con la nomina di un amministratore apostolico “sede plena”; ma analizzando questo suggerimento, lo considerava poco pratico», sia per l’inadeguatezza degli altri ordinari salvadoregni sia per l’inopportunità di un arrivo da fuori. «Per questo motivo la cosa rimane in sospeso e, da parte mia, ho espresso la migliore volontà di aggiustare la situazione secondo quanto le mie capacità permetteranno».

E circa le considerazioni del cardinale riguardo ai (non benevoli) risultati ispettivi trasmessi al papa – «Non stiamo strattando fra nemici, ma fra gente impegnata per la stessa causa e siamo naturalmente d’accordo al novanta per cento. Infatti il cento per cento è la verità ed è il Vangelo» –, questo scrive il diarista: «Gli ho detto che quelle parole incoraggiavano e che lo sconforto suscitato dalla mia udienza cl Santo Padre trovava qui in questo colloquio con lui, la speranza che la mia situazione e quella della ma arcidiocesi potessero avere una soluzione».

Interessante sembra proprio questo giudizio, non espresso invece dopo l’incontro col pontefice: «lo sconforto suscitato dalla mia udienza col Santo Padre», considerazione del cuore trattenuta, all’inizio, con spirito ecclesiale, nella penna, e liberata solo quando pareva trovata la compensazione…

L’ultima annotazione, nella stessa pagina dell’8 maggio, tocca il secondo colloquio confidenziale con mons. De Nicolò, ed è l’ennesima prova-provata della santa modestia del grande arcivescovo di San Salvador: «…che prendessi tutto come una voce divina, che sta cercando, anche riguardo alla mia situazione, una soluzione molto favorevole per la Chiesa. Mi ha detto di stare molto attento a non avere una reazione troppo clamorosa, perché probabilmente, quando hanno suggerito quest’idea dell’amministratore apostolico, ci poteva essere nella mente del Santo Padre e del cardinale Baggio la ricerca della mia reazione: e un mia reazione negativa poteva rovinare tutto. Che fossi umile e paziente…».

 

 

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