Oltre la minaccia delle trivelle. Il “caso Arborea” in una recente tesi di laurea. Dall’analisi di un fenomeno passato le idee per ripensare l’oggi e il domani dell’Oristanese e della Sardegna, di Gianfranco Murtas
Il ruolo della Chiesa e dei giornali fiancheggiatori od avversari, quello delle forze politiche di maggioranza e d’opposizione e del sindacato bracciantile negli anni che precedono e soprattutto accompagnano la riforma agraria in Sardegna; lo specifico arborense fra resistenze feudali della SBS in passaggio all’ETFAS, assegnazione dei poderi agli ex mezzadri per lo più di provenienza continentale e progressivo sviluppo cooperativistico; la crisi (superata) dei primi anni ’60 per la rinuncia al lavoro in campagna da parte di numerosi assegnatari sotto l’allettamento del salariato dipendente nel manifatturiero del nord Italia, e il ricambio con giovani agricoltori sardi. Questo e altro in una tesi di laurea in storia contemporanea discussa alcuni mesi fa da Alberto Medda Costella che sembra suggerire importanti riflessioni per applicazioni “evolutive” nell’oggi regionale, dimenticando la petrolchimica di base e gli incentivi a pioggia concessi alla falsa industrializzazione.
Il fronteggiato (ma forse non ancora scongiurato) pericolo delle trivellazioni nell’area dell’Oristanese, fra il largo marino ed i territori solidi come sono quelli ben coltivati di Arborea – la realtà sociale alla quale qui mi voglio riferire –, ha introdotto elementi importanti di confronto civico e stimolato la partecipazione, come forse non mai, dei cittadini alla competizione amministrativa locale che avrà conclusione fra meno di un mese. Per quanto me ne giunga notizia (data l’affezione che mi lega ad Oristano ed alla sua piana), lo sforzo di tutte le parti in gioco è di mantenere alto il livello del dibattito, da tutti considerando l’interesse generale come solo vincolo alle candidature e, più complessivamente, alla presenza e al confronto di opinioni, di analisi, di prospettazioni di un futuro da costruire insieme.
Il caso di Arborea meriterà, da parte degli osservatori dei fenomeni sociali e della politica nella nostra regione, un focus speciale su come va conducendosi in queste settimane la campagna elettorale e su quanto esprimerà, in conclusione, la libera pronuncia popolare.
Arborea modello regionale. Va da sé che la specificità storica e sociale, e direi – per le dimensioni del modello cooperativistico affermatosi ormai da molti decenni – anche economica di Arborea è motivo sufficiente a cogliere ed apprezzare, nell’oggi della sua vita comunitaria, quanto di frizzante emerga non nei monologhi tuttoscienza degli estemporanei ma nella correntezza dei civilissimi e democraticissimi scambi di idee ed esperienze maturate – sia le idee che le esperienze – nel tempo e volte ancora ad un buon vivere locale. Non solo e di più: volte anche a proporre alla Sardegna intera le linee generali, indicative, di uno sviluppo economico impostato sulla valorizzazione tanto delle risorse materiali dell’ambiente territoriale e climatico quanto delle professionalità capaci di guidare i processi produttivi ottimizzandone i risultati.
Per questo la cooperazione come terminale del lavoro delle microaziende radicate nella piana assume significati, vorrei azzardare, di indirizzo – scontati gli adattamenti nei diversi comparti in cui si creano ricchezza, occupazione e dunque flussi di reddito e conseguenti nuove risorse per le casse pubbliche – all’intero sistema economico isolano. Intendo l’agricoltura e la zootecnica condotte con pratiche efficientiste ma senza mai forzare i ritmi di natura, l’agro-industria di trasformazione e conservazione per il consumo interno così come, e in prevalenza, per l’export nazionale ed estero con i bolli di garanzia dei vari DOP, DOC, ecc., il turismo che sa apprezzare, in quanto alle forme-testimonianza delle epoche della storia, il nesso originalissimo fra la modernità “razionalista” della cittadina novecentesca e le tracce protostoriche di Tharros, o le millenarie architetture del romanico spalmate in provincia (e più vaste aree), fra il capoluogo e Terralba e Santa Giusta – tutte e tre antiche sedi episcopali –, e magari fra Usellus e Masullas, Milis e San Vero Milis.
Migliora la chiave interpretativa di quanto oggi si muove ad Arborea, nella comunità civile ed in quella economica, la lettura – meglio rilettura – di un egregio lavoro di ricerca svolto, non più di alcuni mesi fa, da un giovane oristanese, di radici materne veneto-arborensi – Alberto Medda Costella –, per l’approntamento della sua tesi di laurea in storia contemporanea. Oggetto: Arborea e la riforma agraria, e il dopo. La ricognizione di un numero impressionante di unità d’archivio, per buona parte inedite (provenendo dai faldoni della Società Bonifiche Sarde e dell’ETFAS), e la loro collazione sistematica con quelle derivanti da altre fonti scritte (Archivio di Stato, Comune, Parrocchia salesiana, Consiglio regionale, emeroteca multiperiodica, ecc.), integrata dalla raccolta di succose testimonianze orali dei più vecchi coloni, a questo ha portato di estremamente interessante e singolare: a comprendere quanto il caso Arborea sia stato la cartina al tornasole dei valori e insieme degli interessi, ora in contrasto ora in cordata, dei maggiori protagonisti sociali, politici ed imprenditoriali della Sardegna nel quindicennio successivo alla seconda guerra mondiale. Quando appunto si trattò di procedere alla riforma agraria anche nelle terre bonificate negli anni del regime e fino ad allora condotte, con spirito per il vero feudale e ormai fuori della storia, dalla SBS mediante la fatica di molte centinaia di mezzadri.
In questo articolo vorrei in primo luogo dar conto , sforzandomi di maggiori sintesi, di alcuni contenuti del corposo elaborato che mi è stato dato di seguire da presso, affacciando, in conclusione, poche ma spero pertinenti osservazioni circa gli sviluppi cui uno studio come questo di Medda Costella potrebbe ambire. Mi riferisco, più precisamente, tanto nella diffusione conoscitiva delle sue analisi – direi proprio come compartecipazione sociale delle sue risultanze (ad Arborea e nel bacino contermine, come per un regolato processo di autocoscienza identitaria collettiva) – quanto nell’avvio di nuovi filoni di ricerca grazie ad uno scandaglio più mirato ed insieme allargato degli archivi finora, per tutta una serie di ragioni, soltanto parzialmente esplorati. Ma sempre per una conclusione politica: la realtà di Arborea molto può dire e dare alla più generale riflessione del futuro sociale ed economico della Sardegna post-transumante, ma più ancora post-mineraria, post-petrolchimica, post-Partecipazioni statali, post-incentivazioni ad intraprese di puro contenuto speculativo (ed obiettivamente coloniale). A dirla in altro modo: alla Sardegna diversa da quella che abbiamo fin qui conosciuto, nei tardi riporti di consolidate usanze soprattutto nell’agro-pastorale così come anche nelle illusorie e disgraziate avventure industriali.
Vorrei altresì cogliere dal denso e sostanzioso tomo, talune valenze ch’esso, pur non rimarcandole (intendendo l’autore rimanere entro i limiti del tema concordato con la sua docente, la professoressa Maria Luisa Di Felice, studiosa di storia dell’economia e del caso Arborea in particolare), sembra comunque tenere presenti soprattutto nelle libere riflessioni che aprono e chiudono il testo. Intenderei, in altre parole, recuperare dal sottotraccia le più generali considerazioni cui il caso Arborea proiettato sulla dimensione regionale suggerisce anche sotto il profilo della originalità meticciale, sempre punto di forza e non di debolezza di una società virtuosamente ambiziosa e proiettata verso il futuro.
E’ qui infatti, per come lo avverto, quel tanto di anticipatore nella curva del tempo che ci si para davanti, che dalla esperienza storica arborense può venire alla Sardegna anche d’inizio 2000. E mi pare significativa questa evidenza tanto più quando la si metta accanto all’altra originalità prevalente sul territorio: l’organizzazione economica e produttiva che dal capitalismo autoritario della SBS è passata alle regole e alle responsabilità della piccola proprietà contadina e da questa, come accennavo, alle crescenti dinamiche associative e cooperativistiche tuttora attive. Quasi una terza via all’interno dei modelli classici della economia, contemperando in tali interazioni gli obblighi verso il mercato (conto economico delle unità locali e competitività dei prezzi con la concorrenza, data per scontata la qualità della produzione) e una diffusa socialità ai limiti di un moderno mutualismo.
Va detto intanto che Alberto Medda Costella affrontò la materia della riforma agraria, o meglio dei suoi presupposti residenziali collegati alle bonifiche delle terre, per la tesi del corso triennale frequentato presso l’università di Trieste e da questa incoraggiato. (Sarebbe magnifico se egli, prendendo motivo dalla sua esperienza di studio in quell’ateneo che fu anche l’ateneo nientemeno che del professor Salvatore Satta, e dando sviluppo alle relazioni anche amicali allacciate nel Friuli Venezia Giulia – dove operano una settantina di circoli dell’emigrazione sarda –, fissasse nell’ideale “ponte” interregionale, fra le autonomie speciali dei territori di minoranze allogene, uno dei centri dei suoi interessi, diciamo pure del suo futuro di studioso, di pubblicista e di storico. Giusto in questi giorni abbiamo assistito, nel quadro delle celebrazioni del centenario della grande guerra e della Brigata Sassari, ad un convegno organizzato dalla FASI proprio a Trieste!). Nel 2009 egli esitò infatti “Mussolinia di Sardegna: insediamento e vita dei mezzadri in una città di nuova fondazione” il cui testo è stato sollecitamente, e opportunamente, pubblicato nel sito web del Comune di Arborea (Municipio così ribattezzato nel 1944, dismettendo l’insegna precedente affermatasi già nel 1931 ed evoluzione di quella – Villaggio Mussolini – che aveva sostituito, quattro anni prima, la più remota di Villaggio Alabirdis).
Si trattava ora di dare compimento alla narrazione – analisi e narrazione – del vissuto di quella comunità così speciale materializzatasi nel poverissimo tessuto sociale dell’Isola a partire dagli anni ’20, sulla scia di deliberati legislativi che s’inquadrano pienamente nel contesto giolittiano (e cocchiano: normativa del 1897 e Testo Unico del 1907) e che negli anni della dittatura trovarono i loro svolgimenti . Ma per andare, egli, oltre quegli svolgimenti tante volte, da vari studiosi, esplorati, e qualche volta… quasi con il malcelato intento di medagliare, per palesi benemerenze, il fascismo. La meta doveva infatti spostarsi nel tempo, doveva attraversare tutto il secondo dopoguerra e rivelarsi, attorno alla metà degli anni ’50, in quel salto di regime economico che la riforma Segni integrava con particolari modalità, incrociandosi la legge nazionale di trasformazione fondiaria e promozione della piccola proprietà contadina con la vigenza della Regione Autonoma e delle sue competenze in materia agricola.
Tutto ciò l’autore ha richiamato, pur se ancora per cenni e dopo le pagine di introduzione, in specie nel primo dei sette capitoli in cui si snoda l’elaborato (“La nascita della Società Bonifiche Sarde e la bonifica della piana di Terralba”). Anticipando qui quanto egli ha poi sviluppato nel secondo sapido, gustosissimo capitolo (“Vita dei coloni in una città di nuova fondazione”), appare evidente la procedura seguita per marcare l’ambiente insieme geografico e culturale, linguistico ed antropologico in cui si combatté, con sofferenza ed incertezza degli esiti, la vertenziale lotta fra i mezzadri e la Società Bonifiche Sarde.
S’inserisce discreta, a tal riguardo, la notazione etico-politica dello stesso autore nella dedica del suo lavoro al nonno veneto Pietro Costella, vittima postuma delle asprezze della campagna di Grecia fra 1940 e 1941 e non conosciuto dal nipote se non da alcune foto del gruppo ACLI dei primi anni ’50: prova perfino struggente «di quella sfida, in cui dei poveri agricoltori osarono affrontare una Società potentissima per mezzi economici e aderenze politiche. Davide batté Golia per l’ennesima volta».
Per lunghi anni madre-matrigna di un pezzo di Sardegna, la Società Bonifiche Sarde era stata costituita a Milano nel 1918 ad iniziativa del Gruppo elettro-irriguo della Tirso, di emanazione della Banca Commerciale Italiana e della Società Strade Ferrate Meridionali Bastogi, con la missione di fare della Sardegna – terra disabitata e povera, in larghe plaghe anche paludosa e malarica – un’isola di laghi artificiali, e quindi fertile e ricca, rispondente ai bisogni delle popolazioni indigene non meno che redditizia per gli investitori di capitali nazionali ed internazionali. Ciò secondo i sogni ingegneristici di Angelo Omodeo e le abilità tecniche e manageriali, che ben avrebbero avuto agio di manifestarsi, di Giulio Dolcetta.
Alle carenze documentali rivelate, pur all’interno della imponente complessiva mole archivistica, dalla SBS (o da quanto di essa rimane) e dall’ETFAS (poi ERSAT e adesso Agenzia LAORE) e dallo stesso Archivio di Stato – e sarebbe cosa santa se si potesse por mano, in tempi ravvicinati, ad una generale classificazione – Medda Costella ha rimediato abilmente, nella ricostruzione di quelle vicende lontane ormai un sessantennio, integrando le carte disponibili, che comunque è stato in grado di strappare al sonno eterno nelle silenti stanze così della Società Bonifiche Sarde come dell’ex-ETFAS, con un numero veramente cospicuo di unità dell’archivio storico del Comune di Arborea e della collegata e fornitissima biblioteca in capo allo stesso Municipio. E con esse, all’inizio in particolare – come dicevo riguardo alle descrizioni della vita dei coloni esposte nella tesi della Triennale –, con delle interviste nella stretta parlata veneta o magari mantovana raccolte da quei pionieri ormai al termine della loro vita e rimasti sempre fedeli alle loro origini territoriali, nonostante il “bagno”, per taluno ben superiore al mezzo secolo, di sardità.
Va a tal proposito ricordato – come l’autore fa anche con dovizia proprio di preziose testimonianze, racconti ed elaborazioni anagrafiche, nonché con i rimandi al bello studio del compianto Giampaolo Pisu “Società Bonifiche Sarde 1918-1939. La bonifica integrale della piana di Terralba”, pubblicato dalla milanese FrancoAngeli nel 1995 – che più della metà degli arborensi censiti nei primi anni ’30 erano di radici venete, per un 20 per cento circa di provenienze regionali altre, e soltanto per quasi un 30 per cento di nascita isolana. (Aggiungerei che appare estremamente significativo, in tale contesto, l’elevato tasso di natalità, ancor più spiccato nel filone veneto scelto apposta per la colonizzazione, oltreché per soffocare i possibili fuochi del malessere sociale-politico della pianura Padana, proprio «per il numero dei componenti [familiari]e per la predisposizione […] a convivere tra parenti». Tanto da poterne infine concludere con un’evidenza clamorosa per la statistica: nel 1938, un aggregato di appena 80 famiglie copriva, con gli 800 e passa suoi componenti, quasi un terzo dell’intera popolazione di Mussolinia).
Le interviste raccolte nel 2009 e parzialmente riproposte nel più corposo lavoro dell’anno accademico 2012-2013, rivelano anch’esse, ma non soltanto esse, la complessità delle fasi insediative già nelle zone ex paludose, la problematicità dell’incontro con i sardi, la propensione di questi ultimi a non farsi “imprigionare” in una realtà socio-economica ancora troppo in fieri e non meno disperante delle povertà ambientali da cui si proveniva. Sicché appare specialmente interessante la soggettiva ed insuperata, per non dire testarda, convenienza – come tale dichiarata – alla mobilità breve dei nostri corregionali, rispetto alla concessione quasi oblativa di sé dei coloni continentali, e di quelli veneti in specie, in una terra lontana sì misera quanto la loro ma promettente comunque, almeno ai loro occhi, un futuro forse meno disagevole di quello delineantesi in una possibile partecipazione alle correnti migratorie per l’America del Nord o del Sud.
La questione delle fonti. Ma voglio tornare alle fonti compulsate (o acquisite) dal Nostro, con uno sforzo rilevante ed encomiabile, perché in esse, per come sono state affrontate e “manipolate” con rigore scientifico, è riposto molto del pregio del suo elaborato. Ed anche perché da lì ci viene, un’altra volta ancora, di lato all’essenzialità delle unità d’archivio, un’altra evidenza: la rivalutazione come giacimento documentale sia dell’emeroteca che delle registrazioni audio-video. Tanto più ciò sembra vero nelle ricostruzioni biografiche – anche delle biografie collettive come nel caso di specie – che costituiscono tanta parte, oggi, delle fatiche degli storici contemporaneisti.
Ritorna qui grato il ricordo di un apripista quale è stato il professor Lorenzo Del Piano – per molti della mia generazione anche un amico, generoso sempre e fino alla fine –, che alle fonti giornalistiche ed a quelle memorialistiche ha fatto ampio ricorso già dagli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, inoltrandosi nelle sue ricerche, in particolare, tanto sul movimento cattolico quanto sulla massoneria postrisorgimentale e di età giolittiana, così come sul combattentismo sardista e quindi sul sardo-fascismo, dopo che sul federalismo o l’autonomismo isolano del secondo Ottocento e primo Novecento. A tanto, alle fonti dell’emeroteca, egli indirizzò anche i suoi allievi migliori: piace qui ricordare il professor Francesco Atzeni che ne ha ereditato la cattedra, il quale dalla stampa regionale del passaggio fra secolo XIX e secolo XX ha tratto i prevalenti e originali materiali dei suoi primi lavori, anch’essi sul fronte dell’opposizione guelfa allo stato liberale e su quello, speculare, dell’intransigenza repubblicana, fino alle evoluzioni filoministeriali del radicalismo sassarese e cagliaritano (in ciò anche ripercorrendo il filone storiografico introdotto, nella ricerca universitaria, da Giovanni Spadolini autore già dalla fine degli anni ’40 di saggi, anticipati sulle colonne del pannunziano “Il Mondo”, quali “L’Opposizione Cattolica, da Porta Pia al ‘98”, “I repubblicani dopo l’unità” e “I radicali dell’Ottocento da Garibaldi a Cavallotti”).
Con una scrittura nitida e sciolta, perfino vivace, Alberto Medda Costella ha dunque anch’egli potuto e voluto ricorrere alle fonti che pur sono da taluno (banalmente) considerate minori, e si rivelano invece, a saperle “manipolare” (sempre rispettandole), zampilli informativi di prima grandezza, non soltanto per il notiziario che più importa, ma anche per l’inquadramento dei fatti e dei protagonisti, per il colore umano e sociale che li qualifica e li spiega, per lo sviluppo e le ricadute di scelte e deliberati, polemiche d’accompagno e successive stratificazioni di interessi che ora associano ora dissociano gli attori sulla scena.
Naturalmente si tratta di non limitarsi all’emeroteca, ma di espandere le piste di ricerca fra i titoli di una bibliografia mirata e fortunatamente, come nel caso particolare, in progressiva implementazione. Discorso generale, s’intende, perché la materia specifica della tesi – e cioè, ripeto, la riforma agraria e la “rivoluzione” arborense, e poi in stretta connessione il passaggio dei lavoratori dalla mezzadria alle assegnazioni proprietarie – non vanta certamente tanti titoli quanti ne conta invece la ciclopica impresa materiale della bonifica e sociale del radicamento insediativo degli anni ‘20.
Ed è proprio in questo innesto della novità intervenuta negli anni ’50 (la riforma agraria e la piccola proprietà) sulle acquisizioni dei due-tre decenni precedenti (le bonifiche e il servizio mezzadrile) che si è fatta manifesta la capacità del giovane studioso di saldare in sintesi od incroci interpretativi un’ampia bibliografia con quanto la pubblicistica nazionale e soprattutto regionale ha prodotto, in termini di analisi e/o polemica politico-sindacale, in un tempo che era ancora quello – lo si tenga presente – delle prime legislature tanto della Repubblica “una e indivisibile” quanto della Regione ad autonomia speciale. Nel segno quindi, a Cagliari come a Roma, di una preminenza, per non dire complicata pervadenza, governativa cattolico-democristiana e di un oltranzismo, talvolta anche barricadiero (ma certamente generoso), delle sinistre d’opposizione. Con la Chiesa intenta a spendere la sua forza lobbistica, e in coerenza alla propria dottrina sociale, a sostegno dell’obiettivo ristoratore dei ceti più poveri, ed anche con i giornali schierati taluno su un fronte e talaltro sul fronte opposto, per la riforma e il superamento della mezzadria, per la conservazione dell’impianto capitalistico della SBS e contro un riformismo considerato socialistoide e foriero, per il frazionamento fondiario, di decadenza dei livelli di produttività aziendale.
Insomma, a dirla altrimenti, ricorrendo alle parole che sono poi quelle individuatesi compulsando documenti e cronache: la storia della riforma agraria nella sua concreta applicazione in Sardegna e, in particolare, nel territorio di Arborea è come una rappresentazione di incontri e scontri sia ideali che materiali tra forze economiche industriali e sociali (anche nella declinazione ora spirituale ora politica): incontri e scontri che alla fine riescono a fissare il cambio di segno negli equilibri consolidati. Ciò fanno riconoscendo finalmente una precedenza, se non una egemonia, alla massa degli assegnatari e un drastico ridimensionamento della SBS il cui pacchetto azionario passa dall’IRI – la holding governativa che possiede partecipazioni finanziarie in tutta una serie di settori strategici dell’economia nazionale (agricoltura inclusa) – all’ETFAS, l’ente pubblico costituito, con DPR del 1951, apposta per pilotare la trasformazione fondiaria ed assistere tecnicamente gli agricoltori. Un ente, bisognerebbe aggiungere, che al fascismo tecnocratico (inteso qui come abito mentale degli amministratori e dei funzionari di livello) della SBS sostituirà nel tempo un clientelismo ampiamente parassitario che, magari altrove più che ad Arborea, prosciugherà o disperderà risorse in funzione di convenienze elettorali di partito, di fatto limitando o ingessando la portata innovatrice della riforma.
Vengono da questa imponenza documentaria i capitoli ancora di introduzione generale – “L’acquisizione della SBS da parte dell’IRI” e “La riforma agraria in Italia” – e quelli che entrano nel merito, a loro volta molto articolati in un efficace ritmico di paragrafi: “Da Mussolinia ad Arborea: lotta per la terra (1944-1951)”, “Dalla proposta di scorporo all’esonero della SBS dall’applicazione della Legge Stralcio (1952)”, “Dall’esonero alla vendita: la SBS ceduta all’ETFAS (1953-54)”. E meriterebbe di queste ultime parti – per segnalare una delle chicche del lavoro – richiamare le pagine dedicate alle permanenze arborensi di alcuni gerarchi fascisti di classe nazionale, in specie della RSI, come Aldo Vidussoni e Arturo Marigo, personalità che meriterebbero altri approfondimenti cui, peraltro, Medda Costella si è impegnato.
I giornali nella competizione. Colpisce intanto – se n’è prima accennato appena – come la regia politica della riforma agraria, nella quale siede dominus delegato da Antonio Segni (ministro dell’Agricoltura dal 1946 al 1951, della Pubblica Istruzione fino al 1954, presidente del Consiglio a più riprese fra il 1955 ed il 1960, capo dello Stato dal 1962 al 1964), il “cugino” Nino Campus, si munisca tempestivamente di strumenti operativi a latere di quelli puramente tecnici utilizzati per piegare la SBS e creare, nell’Isola, un nuovo assetto economico-sociale. E il primo di tali strumenti laterali, utile specialmente come collettore di consenso e piattaforma di coordinamento degli interessi politico-elettorali della corrente democristiana al potere – prima della rivolta dei “giovani turchi” nel 1958 –, è il quotidiano “Il Corriere dell’Isola”, fondato a Sassari nel 1947 e destinato ad accompagnare temporalmente sia parte dei lavori della Costituente a Roma e della Consulta regionale a Cagliari, sia le prime due legislature sia nazionali che regionali.
Diretto fino al 1954 da Francesco Spanu Satta (già fondatore, nel 1944, del settimanale sassarese “Riscossa”, e passato appunto nel 1954 a coprire il posto di segretario del Consiglio d’amministrazione della Cassa per il Mezzogiorno), “Il Corriere” ebbe – al pari dell’oristanese-cagliaritano “Il Quotidiano Sardo” – un forte imprinting clerico-democristiano, ma più ancora della testata parente, una vocazione ruralista, espressasi con frequentissime pagine speciali confezionate d’intesa con gli uffici stampa dell’ETFAS (ne era punta di diamante il giovane Pino Careddu), oltreché con la Coltivatori Diretti a presidenza Bonomi. Tale carattere pare accentuarsi con la direzione di Goffredo Santevecchi, uomo dello stretto apparato del Biancofiore.
Tutta la riforma agraria e/o l’assistenza tecnica alla trasformazione fondiaria offerta dall’ETFAS può contare sull’appoggio esplicito presso la sede politico-istituzionale e l’opinione pubblica, ed ovviamente in primo luogo sui ceti direttamente operativi, della stampa di area cattolica – appunto “Il Corriere” sassarese come, nel capo di sotto, “Il Quotidiano” cagliaritano – perché è l’area cattolica, o cattolico-democristiana, ad annettersi il merito ideale e politico della novità: della riforma che vale una rivoluzione. (Aggiungerei al novero anche qualche testata diocesana, come “Arborea” ad Oristano e, a Sassari ed a Nuoro, “Libertà” e “L’Ortobene”).
E proprio sul protagonismo assunto, in tale contesto, dalla stampa – anche quella nazionale ma evidentemente in primo luogo quella regionale – Medda Costella insiste efficacemente, sempre con rilevante supporto documentale e qualche… scoop di studio, ad esempio sulla committenza di taluni articoli (nel caso quelli che vanno contro la riforma, di cui ha rintracciato la prova nell’archivio SBS: quando è addirittura il “Corriere della Sera” a farsi cinico strumento d’interessi partigiani, e non dei migliori! e con il nobile “Corriere” di via Solferino, per la penna di un Silvio Negro, anche il settimanale parafascista “Candido” per quella di un Arnaldo Cappellini…).
Così l’ampia ricognizione guarda alla coerente linea di sostegno che muove dalla stessa Conferenza Episcopale Sarda e dai singoli presuli diocesani – monsignor Antonio Tedde vescovo di Ales eccelle su tutti, ma il pur prudente monsignor Sebastiano Fraghì certamente ebbe anche lui ripetute occasioni di esprimersi – e raggiunge le parrocchie locali – comunità e clero – maggiormente coinvolte, impegnando appunto gli organi di stampa su cui le curie hanno diretta influenza. Tale funzione parrebbe potersi definire di affiancamento della classe politica od amministrativa democristiana (al vertice sia dello Stato che della Regione) e insieme di difesa degli interessi materiali dei ceti rurali. Agendo in sincrono al vertice e alla base del sistema, la lobby clerical-cattolica ottiene due risultati: l’emancipazione sociale degli ex mezzadri e il consolidamento elettorale della DC, così utile per tante altre occorrenze del mondo cattolico organizzato (finanziamenti per la costruzione di chiese ed oratori ecc.).
In questo stesso quadro si collocano anche le scelte politico-editoriali dei giornali cosiddetti laici. L’esame dei contenuti di un numero di articoli che supera abbondantemente il centinaio, e lasciando da parte “l’Unità” – i cui giudizi sono evidentemente in linea con quelli del PCI, partito d’opposizione tanto nel Parlamento nazionale quanto nel Consiglio regionale, e già in prima fila, con la lega bracciantile, nella stagione della occupazione delle terre (e con quante conseguenze anche penali e giudiziarie!) – porta il Nostro a zoomare sulle due maggiori testate regionali. Egli registra una più decisa e continuativa avversione al disegno riformatore da parte de “La Nuova Sardegna” che non de “L’Unione Sarda”. Sembra comunque che in entrambi i casi non entrino tanto, come elementi del giudizio ostile alla delibera legislativa ed ai conseguenti atti amministrativi della riforma, motivi a patrocinio di interessi costituiti, quanto ragioni di natura ideologica, puntandosi quasi a sublimare il capitalismo agrario come modello tradotto addirittura dal diritto naturale e suscettivo di una più alta resa dei campi o degli armenti (al contrario della riforma comportante una «irrazionale frammentazione e antieconomicità» delle aziende). Sulle pagine de “La Nuova Sardegna” si fa banditore del no alla riforma Francesco Satta, dirigente medico e notabile nuorese, assiduo collaboratore e perfino columnist del quotidiano pur nato, nel passaggio di secolo, mazziniano-progressista e, paradossalmente, nella logica della Frumentaria! cioè dell’accompagnamento, ma per la emancipazione civica e politica, oltreché economica, dei contadini poveri ed analfabeti…
Nell’opinione dell’editorialista de “La Nuova Sardegna” i mezzadri non possono reclamare la terra, perché «gli sforzi economici sostenuti per la bonifica sono stati compiuti dallo Stato» (così nella riduzione del tesista), il che l’avrebbe resa «un bene della collettività». Essendovi inoltre, nelle adiacenze terralbesi o marrubiesi, masse bracciantili prive sia di casa che di campi, così di bestiame come di lavoro, ed aspiranti ai terreni del Sassu, egli ipotizza – con intento che parrebbe puramente strumentale – una bonifica bis per la collocazione concorrente di 260 famiglie appunto di Terralba e Marrubiu. E in tale contesto ecco una dura critica alla capacità dei coloni di far fronte agli oneri della privatizzazione (al pagamento cioè delle rate di lottizzazione), a causa della loro propensione a spese improprie, quali sarebbero perfino quelle finalizzate all’acquisto di… un trattore!
Le discussioni circa il riconoscimento o meno della SBS come azienda modello (che infine avrà esito positivo condizionando le modalità di vendita del capitale azionario all’ETFAS) non implica affatto – sarà invece questa la tesi di fondo sostenuta dai favorevoli alla riforma, Giacomo Covacivich (consigliere regionale e sindaco di Arborea) in testa – che da parte di taluno se ne voglia minare l’integrità o s’intenda diminuire la produzione: l’ordine del giorno votato da 230 mezzadri auspica che una cooperativa – ecco la parola magica – si sostituisca alla SBS a tutela dei lavoratori e della produzione, con l’intervento della Regione a salvaguardia della bonifica.
Quel che merita rilevare qui è la forte tensione argomentativa che oppone i due fronti, con scomodo anche della teologia e della letteratura manzoniana, non soltanto della economia. Il che denota, al di là della piena o dubbia pertinenza delle ragioni pro e contro, il livello del conflitto ideale e sociale sviluppatosi nella definizione del nuovo quadro normativo prima, e della sua applicazione poi, nella piana bonificata del centro-occidentale dell’Isola.
Come detto, meno compromessa in uno schieramento d’opposizione si rivela “L’Unione Sarda” a proprietà Sorcinelli e direzione Spetia e quindi Crivelli, rinviandosi o ricollegandosi il giudizio del giornale a quello, talvolta contraddittorio, verso la più generale scena politica sia nazionale (nella sgradita permanente turbolenza del centrismo post-degasperiano) che regionale (data la contrarietà del giornale alle giunte Brotzu “sdraiate a destra”, alleate quindi a formazioni contrarie agli espropri imposti dalla riforma agraria).
Ecco un campo interessantissimo, da ulteriormente esplorare, delle reciproche compromissioni fra stampa, politica, istituzioni e corpi sociali e lobbistici (come potrebbe anche definirsi, da un certo punto di vista, la Chiesa con la sua rete parrocchiale ed associativa). È comunque un indubbio merito di Medda Costella quello di avere colto, nella presenza e nella partecipazione all’avventura della riforma agraria in generale e, con le sue particolarità aggiuntive, nell’area arborense, la stretta correlazione di ambiti, anche istituzionali, all’apparenza indipendenti. Intendo in primo luogo gli indirizzi politici nazionali e sardi – cioè del governo e della Regione autonoma – e della legislazione conseguente: anche perché la rappresentanza di interessi perfino opposti non sempre ha portato la Democrazia Cristiana a scelte univoche ma piuttosto l’ha costretta a mediazioni e temporeggiamenti contraddittori con gli obiettivi dichiarati. Con ciò marcando addirittura, e inevitabilmente, nuove divisioni interne, certamente estranee al tradizionale gioco destra-sinistra e superate soltanto con l’affermazione di un vantaggio elettorale e perciò di un ristoro complessivo al partito omnibus cosiddetto, non a caso, della “balena bianca”.
A dirla in altre parole, ancor più necessarie qui per la centralità dell’assunto, tanto più se si guarda alla futura esperienza dell’ETFAS così pervadente nelle dinamiche politiche isolane: se pare corretto dire che nella governativa DC convivevano istanze riformatrici e resistenze conservatrici o temporeggiatrici – anche in Sardegna e ad Arborea! si pensi alla illuminata sindacatura Covacivich («l’affossatore di Arborea», nel giudizio di Francesco Satta) ed ai comizi fischiati di Fanfani del 1953 –, merita comunque precisare che le prime vinsero trascinando o assorbendo le seconde, dimostrando nel concreto il vantaggio elettorale che ne traeva il partito, impegnato in analoghe operazioni “gestionali”, e cioè di semina o consolidamento del consenso popolare, in altri sei o sette distretti del Paese (dalla Sila calabrese alla Maremma toscana, dal Delta padano al Fucino abruzzese, ad altri territori campani, pugliesi e siciliani). In anni che precedevano il boom industriale, si trattava anche di riallacciarsi al filone storico del movimento ruralista cattolico, che tanta parte aveva avuto nelle dinamiche sociali ed economiche di lunghi decenni, tra la fine dell’Ottocento e parte rilevante del primo Novecento, prima e, con necessarie peculiarità, negli anni della dittatura.
In questa complessa rete di interessi amministrati da una dirigenza portatrice essa stessa di sensibilità diverse, si collocano gli esponenti locali della Democrazia Cristiana che con maggiore linearità, e non senza conflitto con gruppi e correnti, si battono per il risultato valendosi anche del supporto della parrocchia in particolare di parroci – don Piemontese e don Cioeta sopra ogni altro – che credono fortemente alla “rivoluzione” bianca della lottizzazione piccolo-proprietaria. Blanditi da sempre, tanto più negli anni del regime fascista, dalla SBS – una società di capitali che percepisce se stessa come polmone necessario alla vita non soltanto economica ma anche sociale e perfino spirituale di Arborea –, i religiosi prendono posizione netta a sostegno della causa e dunque di chi per la causa si batte.
È soprattutto in occasione delle competizioni elettorali che la lobby parrocchiale si fa sentire e resta marginale il posizionamento di quei tanti che il management della Società Bonifiche Sarde, nella sua assoluta autoreferenzialità, ha spregiudicatamente candidato per infiacchire dall’interno il Municipio e, per altro verso, spezzare il fronte della resistenza e tutela sindacale da cui muove, invero non sempre con passo concorde, il tentativo di affermare un fronte riformatore unitario. E peraltro va considerato che le soluzioni affermatesi ad Arborea paiono lasciare insoddisfatte le esigenze occupative dei centri più vicini, sicché la Lega dei braccianti – che pure ha spuntato il lodo De Gasperi (circa la ripartizione del risultato produttivo fra mezzadri – ora al 53 per cento, non più al 50 – e SBS) deve, e non sempre riesce, a contemperare la pressione dei propri rappresentati terralbesi con il nuovo diritto proprietario degli assegnatari arborensi.
Il feudalesimo padronale(o chiamalo funzionariale) della SBS – non limitato certo alle posizioni apicali del presidente Casini e del direttore Giuliani ma fastidiosamente esteso all’intera rete gerarchica societaria – gioca su queste divisioni, incapace di prendere atto della ormai prossima chiusura del proprio ciclo storico e di gemmarne un altro più rispettoso della dignità dei lavoratori e, in senso più generale, degli assi portanti la nuova realtà sociale ed istituzionale postbellica. Ad esempio, con una più trasparente e responsabile rappresentanza di valori ed interessi nell’assemblea civica di Arborea, per troppo tempo – e ancora nei primi anni dell’immediato dopoguerra ed anteriforma – cassa di risonanza di perduranti convenienze egoiste.
Il riscatto trentennale, da parte dei mezzadri dei poderi che già coltivavano (con riserva delle vigne e dell’ex stagno di Sassu, suddiviso in quote, ai braccianti senza lavoro dei comuni limitrofi) viene completato, negli atti di assegnazione formalizzati ormai in sede ETFAS, fra 1954 e 1955, dai contratti relativi alle scorte bestiame. Non si tratta di adempimenti facili per la massa dei lavoratori della terra coinvolti nella “rivoluzione”, anche se s’interviene con l’abbassamento del tasso d’interesse applicato all’ammortamento. Certo è che l’operazione diventa anche concettualmente, per gli aspetti del costume o dello spirito pubblico che s’affermano, una “rivoluzione” autentica.
Dal capitalismo feudale e parafascista al capitalismo democratico in chiave di convergenze cooperativistiche, per tempestive adesioni consapevolmente fornite dalla massa degli aventi causa, interessati essi per primi a concepire una forma organizzativa la più idonea a garantire l’unità aziendale. Ecco così la Cooperativa Assegnatari Associati Arborea (quindi Nuova 3A – Aziende Alimentari Associate –, destinata a divenire la più importante coop lattiero-casearia con quasi 300 soci, per la trasformazione e lavorazione dei prodotti delle aziende), la Cooperativa Assegnatari ETFAS (volta al supporto di una ampia gamma di servizi), la Cantina Sociale (coop di trasformazione allargata a viticultori della bonifica ma anche di Santa Giusta, Villaurbana, Uras e Serramnanna), la Cooperativa Quotisti ETFAS del Sassu (per fornitura di servizi nel range degli ex braccianti del Terralbese), 3 Associazioni Agrarie di Mutua Assicurazione di Bestiame (fra gli assegnatari di Arborea). Anche stavolta Medda Costella si sofferma sul nuovo scenario economico-sociale arborense con la competenza e il rigore dello studioso ma insieme con l’animus di chi, anche per formazione ideale e politica che me lo avvicina, condivide l’opzione di fondo maturata ed affermatasi vincente ad Arborea. Dei diversi soggetti traccia pur rapide schede storiche che aiutano a comprenderne, nel concreto, natura ed operatività.
I sardi riconquistano (o conquistano?) Arborea. «Al 30 settembre del 1957 i 262 poderi erano ancora tutti prevalentemente in mano a ex mezzadri continentali: infatti solamente 10 di questi erano condotti da famiglie sarde. Eppure questa proporzione sarebbe cambiata nel giro di una decina d’anni. Non furono poche le famiglie che nel decennio successivo decisero di vendere tutto quello che avevano, per trasferirsi in aree che promettevano un posto in fabbrica, con uno stipendio certo alla fine del mese. Il miracolo economico rappresentava il nuovo eldorado. Dalla SBS si passava agli opifici dell’Italia del nord. Fu un vero e proprio stillicidio, che avrebbe protratto i suoi effetti fino ai primi anni ’70». Con queste parole si introduce la parte conclusiva del lavoro che fa il punto su quanto operato, fra infinite tensioni, lungo tre lustri nella piana di Arborea.
Dai primi anni ’60, già forte di una squadra di calcio che se la gioca con le migliori della piazza e terminale di correnti turistiche – in prevalenza di turismo sociale, dopolavoristico – isolane, ma poi anche di provenienza del continente, Arborea – o «giardino di Arborea», come scrive “La Nuova Sardegna” – prende altre pieghe sedimentando il meglio che è entrato nella sua esperienza sociale e comunitaria, culturale e politica, dall’immediato secondo dopoguerra (ma, per altri versi, fin dalla fine degli anni ’20). Numerosi assegnatari rinunciano ai campi e alla Sardegna per «dirigersi al Nord Italia in cerca di lavoro in fabbrica». Tutto ciò mentre i tecnici dell’ETFAS proseguono nelle opere (mai veramente concluse) di bonifica.
Anche nel 1960 sono una ventina le famiglie che abbandonano, aggiungendosi alle altrettante partite nell’anno precedente, quasi tutte famiglie venete. Secondo il cronista dell’antico… nemico giornale sassarese, alcune delle ragioni possono ricercarsi nella nostalgia di casa, sebbene la lunga permanenza potrebbe aver reso quei coloni, per alcuni aspetti, «più sardi dei sardi». Il fenomeno ha dimensioni nazionali. È l’industria a catturare i sogni dei lavorati della terra, la fuga dalla campagna avviene dall’Isola, avviene da Arborea, ma avviene dalle stesse province rurali del Veneto verso le più dinamiche Lombardia, o l’area Torino-Genova-Milano…
Chi rimane presenta domanda per l’acquisto dei poderi disponibili, sovente i più redditizi. E non mancano le raccomandazioni dei politici, a sostegno di questo o di quello. La lobby democristiana allarga e consolida l’area di influenza. Né mancheranno le difficoltà in quanto a sostenere l’entità delle rate. Gli assegnatari morosi nel 1961 sono 74, dei quali 21 «in posizione molto critica»: per alcuni di essi si propone addirittura l’escomio, ma saranno le rinunce volontarie a risolvere più pacificamente il problema.
«La fuga sarà significativa», rileva Medda Costella citando la preoccupazione manifestata da Antonio Marras,«uno dei principali artefici del passaggio della Società all’ETFAS», il quale confida di temere la inarrestabilità di «questo stillicidio di coloni verso il nord» e l’incapacità dei subentranti di «gestire e portare avanti un podere». E infatti per qualche tempo svariati fondi rimangono completamente abbandonati. «Saranno i contadini sardi e qualche continentale di ritorno (pentito del lavoro in fabbrica e della vita di città) a riprenderne la coltivazione».
Formidabilmente interessante la relazione che il 1° luglio 1964 stende una assistente sociale fotografando la reale situazione sociale e demografica nelle campagne locali. Il documento è stato scovato nell’archivio storico dell’ETFAS. Eccone alcuni passaggi: «dei 270 poderi che esistono nel Centro di Arborea, 234 sono assegnati, i rimanenti sono vuoti. Delle 234 famiglie insediate, 144 provengono dalla mezzadria e sono di origine veneta, romagnola, in minima parte sarda; 90 di origine sarda insediate dal 1958 [soltanto 10 prima dell’inizio dell’esodo]… le vecchie famiglie assegnatarie conducono tutte un tenore di vita molto buono. Sono famiglie di agricoltori per tradizione, volenterosi ed autosufficienti, non presentano problemi di sorta. Di queste famiglie soltanto 11 versano in condizioni economiche disagiate, dovute alla poca volontà di lavorare, alla scarsa organizzazione del lavoro e poco senso imprenditoriale.
«Le famiglie sarde vengono da più parti della Sardegna. In genere non sono famiglie di agricoltori, infatti, i capo famiglia si occupano in prevalenza di pastorizia, lavoravano la terra per conto terzi, svolgevano lavori nell’industria. Non hanno quindi una capacità tecnica specifica, né le mogli, esclusi alcuni casi, sanno occuparsi dell’allevamento degli animali da bassa corte o di altri lavori agricoli nei quali potrebbero essere di aiuto al marito ed ai figli. Per queste famiglie il nuovo lavoro costituisce una esperienza completamente nuova. […] A volte il lavoro degli stessi viene ad essere complicato dall’aver avuto in assegnazione un podere in disordine e trascurato, poiché abbandonato da anni o lasciato in cattive condizioni.
«Alle difficoltà presentate dal nuovo lavoro si aggiungono quelle di ambientamento. […] Mentre i capo famiglia ed i figli si adattano o accettano con facilità il nuovo ambiente, le donne, specialmente nei primi tempi, difficilmente affermano di trovarsi bene in azienda. Rimpiangono la vita di paese che permetteva loro tante piccole distrazioni alle quali in campagna devono rinunziare, risentono del senso di isolamento nel quale vengono a trovarsi finché non fanno conoscenza di altre famiglie.
«A questi altri fattori si aggiunge quello economico che è senza dubbio anch’esso determinante. Infatti chi può iniziare la vita in azienda avendo un capitale proprio a disposizione, riesce a sistemarsi prima e meglio di quanto non possa fare un’altra famiglia che non ha mezzi. In quest’ultimo caso non solo la famiglia sarà costretta ad indebitarsi e le costerà più fatica e più tempo raggiungere un bilancio economico attivo, ma dovrà affrontare stati di depressione e scoraggiamento che le renderanno senz’altro più arduo superare le inevitabili difficoltà che la nuova vita comporta».
Sembrerebbe dunque confermarsi, un’altra volta ancora, il giudizio di Dolcetta, circa la scarsa attitudine del contadino sardo a questa nuova tipologia di agricoltura. E invece «a distanza di pochissimi anni» i miglioramenti sono già evidenti. Tra le prime famiglie arrivate nel 1958 e quelle giunte quattro anni dopo si possono rilevare notevoli differenze nella gestione del podere, anche se non tutto è trionfo. Infatti: «delle prime, circa 60, sono in fase di assestamento ed alcune vanno avviandosi verso una situazione economica tranquilla, le altre purtroppo versano in condizioni economiche precarie trovandosi ad affrontare i vari problemi. […] Non sempre le cause dipendono dagli stessi poiché diversi sono i fattori che intervengono ad agevolare o ritardare una fase di assestamento ed in seguito di benessere economico».
E circa la cooperazione? I tentennamenti iniziali dei coloni anche di provenienza veneta o romagnola sono assorbiti relativamente presto, smentendo tutti i dubbi sollevati dalla stampa e da alcuni tecnici prima del passaggio della SBS all’ETFAS. «L’assunzione di responsabilità collettiva per mezzo delle cooperative dimostrerà tutta la fondatezza delle rivendicazioni esplose già nei primi anni del dopoguerra», scrive Medda Costella che aggiunge a mo’ di chiosa: «il passaggio dei contadini da mezzadri ad assegnatari fu foriero, non solo di un cambio di mentalità, segnando una cesura profonda nella storia di Arborea da un punto di vista organizzativo e produttivo. Quel cambiamento così radicale che portò all’allontanamento della vecchia guardia SBS, segnò anche la fine dell’Arborea enclave veneta in territorio sardo. Il “boom economico” portò all’esodo dalla Sardegna numerosissime famiglie continentali, lasciando spazio a quella contaminazione sarda dovuta all’innesto dei contadini, che seppero dimostrare in certi casi, quanto se non più, di essere all’altezza del compito che era stato loro affidato».
Conclusione: il riscatto sardo di Arborea combina, operativamente, i dati della impresa autosufficiente e quelli della integrazione cooperativistica. Città meticcia, in un più equilibrato rapporto di radici storiche, Arborea si propone come moderno modello di organizzazione economica, insieme efficiente e sociale, che meriterebbe più larghe applicazioni. Essa è, ben più del resto isolano, una città anagraficamente giovane: se gli over 65 sono pareggiati numericamente dai giovani fra i 18 e 35 anni – nell’avvio cioè dell’età lavorativa (nell’ordine di 750 sui due fronti), superano i 1.800 gli adulti a cui sono affidati gli oneri della conduzione di famiglie e aziende. Ma resta una riserva di quasi 600 minori, che in rapporto al dato globale, forse nessun altro centro isolano può vantare, e su cui può contare per costruirsi un buon futuro.
Per quant’altro: i focus del bel testo di Medda Costella possono suggerire approfondimenti e aggiornamenti, e confronti, ad esempio sulla lobbistica clericale o, genericamente, ecclesiale, che ovviamente in tempi di caduta del collateralismo assume nuove forme; così sulla capacità della stampa – o banalmente bisognerebbe dire dei giornalisti (o presunti tali) – a sostenere, da posizioni di indipendenza, non di neutralità, valori e interessi che davvero intercettano il bene generale e non quello di parte… Oggi si parla di trivelle…