La diocesi di Cagliari: la difficile via della ricostruzione, di Gianfranco Murtas

Ancora don Miglio: iniziata l’”opera di pulizia”? La terribile eredità del predecessore, Giuseppe Mani, nella gestione del clero e … non solo. L’autore dell’articolo rimise – era il 7 marzo 2012 – all’arcivescovo Miglio un corposo libro d’argomento ecclesiale ed ampio notiziario (Da Chorus a Cresia. Scritti di storia e d’impegno ecclesiale, 2008-2011).

La contrastata interpretazione delle dimissioni (offerte o imposte) del titolare della parrocchia di Santa Cecilia incardinata nella nostra cattedrale cagliaritana dedicata a Santa Maria, le indiscrezioni – non saprei quanto fondate – circa intromissioni ispettive vaticane  e altro ancora costituiscono nuovi episodi che si collocano in una situazione che pare annunciare problemi in cumulo a problemi rivelando la assoluta inadeguatezza di chi avrebbe dovuto prevederli (conoscendone tempestivamente le cause) e stornarli dalla testa dei molti che li stanno ingiustamente soffrendo.

Intendo tenermi lontano da ogni speculazione imbecille – fra breve avremo infatti più chiaro e forse completo il quadro che purtroppo si rivelerà, per l’economia morale complessiva della diocesi, assai, assai più grave di quella finora palesatasi, con intervento crescente di magistrati  e dispiegamento di avvocati – e nulla fare o dire che non sia sulla linea della collaborazione informativa  e correttiva di quanto vada meglio compreso e rettificato.

E debbo andare al personale. Alla vigilia del suo arrivo a Cagliari – era il 7 marzo 2012 – rimisi all’arcivescovo Miglio un corposo libro d’argomento ecclesiale ed ampio notiziario (Da Chorus a Cresia. Scritti di storia e d’impegno ecclesiale, 2008-2011) unitamente ad  un breve mio scritto sulla figura di un eporediese di gran nome, il cardinale Giuseppe Fietta (1883-1960). Questi trascorse quasi vent’anni, dal 1907, nella nostra Isola come segretario del vescovo-missionario di Alghero Ernesto Maria Piovella, seguendo il presule nelle successive sedi metropolitane di Oristano (1914, ma di fatto già dal 1909 per l’amministrazione apostolica affidata a Piovella data la grave malattia dell’arcivescovo Tolu) e di Cagliari (1920). Se ne partì nel 1924 chiamato dalla carriera diplomatica, riservando però alla Sardegna un costante affetto tradottosi nella cura delle amicizie personali ed ecclesiali, e nella relativa frequenza della visite, muovendo dalle legazioni via via affidategli (Centro-America, Haiti, Repubblica Domenicana, Argentina, dal 1953 al 1958 finalmente Italia ) fino al cardinalato cui lo associò il nuovo pontefice Giovanni XXIII.

Inviai questo scritto all’arcivescovo Miglio per dirgli, prima che prendesse possesso della archidiocesi nostra, che veniva – com’era venuto con altro ufficio Fietta – in terra amica, che egli doveva onorare restituendo alla cordialità della accoglienza la cordialità – proprio in senso etimologico – di un servizio, tanto più in termini di trasparenza e lealtà.

Allegai – ho detto – e non doveva essere dono da niente, un libro nel quale avevo raccolto, con molto altro, l’abbondante e fitta testimonianza-documentazione di episodi della vita recente diocesana, tanto più negli anni infelici dell’episcopato del suo predecessore – infelici non soltanto per le sciabolate e le vittime innocenti di tanto capriccio, ma soprattutto per le schiene curve dei confratelli della Conferenza Episcopale Sarda, che neppure per il santo orgoglio della propria firma sugli atti del Concilio Plenario Sardo seppero difendere le ragioni e gli adempimenti da questo imposti (incredibile, in tale contesto, il comportamento specialissimo dell’arcivescovo Sanna, arrivato ad irridere uomini del suo clero oristanese spesisi per il CPS e infischiandosi della gran fatica che al servizio della causa aveva prodigato il suo predecessore don Tiddia, metropolita emerito e presidente della CES stessa emerito!).

Eppure, essendo fra le materie nelle quali più si marcò il triste, penoso allineamento dei vescovi sardi agli imperiosi (o imperiali?) diktat dell’arcivescovo Mani, quella della sorte del Seminario Regionale – che Mani, in quanto presidente della CES e gran cancelliere della Facoltà Teologica della Sardegna, avrebbe dovuto tutelare e onorare – a don Miglio detti riconoscimento che, almeno negli anni in cui ebbe possibilità di intervento, bene operò per quella istituzione formativa. Ma si trattava dei tempi in cui egli era ordinario di Iglesias, e la CES era ancora a presidenza Alberti. Tutt’altro contesto dunque.

La questione del Seminario dimidiato dalla deportazione di tutti – tutti! – gli studenti dell’archidiocesi l’ebbi sempre presente e costituì il tema principale delle discussioni cui mi onorava di chiamarmi l’indimenticato, carissimo perduto amico mio Efisio Spettu, sia quando egli ricopriva la carica di rettore (dal 1992) sia quando, cigolando il rapporto con don Mani, egli fu estromesso da quella funzione apicale ogni giorno tradotta in esempio di nobile sentire e di servizio. In parte ne ho dato conto (anche riproducendo il testo della ultima lunga, lunghissima intervista-conversazione) nel quaderno Don Efisio Spettu e la Chiesa come progetto di comunione, steso e diffuso, come speciale omaggio all’amico meraviglioso, nell’occasione dei suoi cinquant’anni di messa, drammaticamente coincidente con l’exit amaro, amarissimo, e santo suo. Mi consegnò copia di quelle lettere riservate, da lui inviate alla CES e alla congregazione vaticana per i Seminari, con la denuncia delle picconate idiote rivolte, nel silenzio dei vescovi sardi – quando, con sprezzo anche della storia, neppure si pubblicavano i verbali-comunicati delle tornate della CES! –, appunto al Seminario da cui, insieme o in sinergia con la Facoltà, la Chiesa regionale si attendeva clero giovane, attento ai tempi, agli uomini e alle donne dei nuovi tempi, e pronto al grembiule secondo l’esempio di don Tonino Bello, non alle pianete e ai manipoli, alle dalmatiche ed ai tricorni, ed ai pizzi – al trionfo dei pizzi! – come poi, in crescendo, è capitato.

Nelle righe che avevo omesso riportando quella intervista, non volendo aggiungere altro sale, erano le battute dei colloqui che, proprio sulla adeguatezza o meno dei candidati al sacerdozio, l’allora rettore del Regionale intratteneva con l’ordinario diocesano: l’uno a dire i no e i perché no, l’altro a prescindere  dalle osservazioni critiche che pure competevano al responsabile della équipe educativa, e ad imporre il suo giudizio, perfino con forzature del codex . Sicché i piccoli Lefebvre sono allignati anche da noi, come in altre diocesi, arroganti e miscredenti, autoreferenziali e padroncini del lotto parrocchiale. Taluno perfino minacciando il suicidio in caso di trasferimento (!), talaltro combinandone per la smodata debolezza della mente ancor più che della carne. Tutto conosciuto. Il mix fra lefebvrismo (o retrocessioni ecclesiologiche ed anticonciliari) e fragilità identitarie personali è esplosivo forse ovunque, da noi lo è stato e lo è per certo.

Da anni viene riferito praticarsi nell’ordinario, cioè quotidianamente, e non autorizzato, nelle chiese di certe parrocchie isolane e diocesane (si pensi al Gerrei), il rito liturgico cosiddetto di San Pio V, pur nella rielaborazione del 1962. E la cosa si subisce, ogni parroco è generale nel proprio lotto, il popolo è un accidente, nulla di più: pubblico che per assistere alle solenni messe paludate neppure paga il biglietto… e soltanto deve ammirare la magnificenza degli apparati. Perché proprio quegli apparati, quei formulari e quelle azioni sceniche  costituiscono il simulacro, o la maschera di sfogo, delle più fragili identità.

Certo la cosa non è nata negli anni dell’episcopato Mani – che certe manifestazioni anzi contrastò, fra esse il convegno liturgista, ispirato all’antico papa dell’Inquisizione domenicana, convocato a Mandas  nel 2009 –, anche se in quegli anni tutto è degenerato. Non è mai stata affrontata, lungo gli anni ’90 e nel decennio successivo, la questione del cosiddetto “seminario parallelo” impropriamente istauratosi in una delle più antiche e gloriose parrocchiali cagliaritane, con lo scopo di recuperare (con modalità assolutamente improprie) elementi allontanati dal Seminario Regionale e purtroppo carichi di irrisolte problematiche identitarie. Materia della quale discussi tante volte con l’arcivescovo Alberti, e tante volte gli scrissi, dopo anni di tensioni e distacco. Allargando le braccia, mi rispondeva: «Abbiamo bisogno di preti!».

Neppure il problema del Seminario maggiore diocesano, sostanziale anomalia – dato che Cagliari non è Milano – per la compresenza appunto del Regionale, e anomalia formalizzatasi degli anni successivi alla rinuncia di Alberti, è stato affrontato nei termini più utili (spiegando perché andasse eliminato, come mi pare sia sostanzialmente avvenuto). Anzi, la Curia romana ha, a suo tempo, approvato, come ha approvato – soltanto mettendo in non cale le segnalazioni  di don Spettu (che se sarà opportuno pubblicherò) – la mortificazione del Regionale privato dei venti studenti cagliaritani. Come se gli alunni delle altre diocesi fossero di serie B – tali riconosciuti dagli stessi loro vescovi! – e soltanto i cagliaritani meritassero le grandi aule universitarie dell’Urbe, dalla Gregoriana alla Lateranense ecc., tanto da ambire in blocco grossolano, non certo al servizio delle comunità periferiche (a loro ignote), ma a rapide promozioni negli staff docenti, in grado di sostituire i (forse rinunciatari) padri gesuiti titolari delle cattedre di via Sanjust!

A dirla in altre parole: la formazione del clero isolano e cagliaritano in particolare costituisce da molto tempo il problema forse principale della Chiesa isolana che peraltro ne soffre perché essa è ancora affetta da ipertrofia clericale, e purtroppo castale. Nelle pagine de Lo specchio del Vescovo – che puntava a ricostruire molto della vicenda oscura che ebbe vittima innocente, nel dicembre 1988, don Tonio Pittau – diversi di questi temi sono affacciati e anche scopertamente trattati: con riferimento all’ambiente diocesano cagliaritano nella sua materialità, alle molte anime malate non da respingere o condannare, ma certo da disarmare delle pistole. E qui parlo di pagine vecchie ormai di quasi tre lustri.

Non la voglio far lunga: questa stessa materia, insieme con altre tre o quattro, costituì il grosso di un carteggio intrattenuto da un certo numero di poveri battezzati (e cresimati), di coscienza libera e di esperienze varie fra studio, professione e volontariato sui fianchi estremi e miseri della società, con alcune importanti istanze della Curia romana. Per segnalare i disastri generali e quelli particolari del governo pastorale di don Mani – in diverse lettere a lui personalmente indirizzate mi permisi di chiamarlo come lo sentivo e ancora lo sento, cioè «cattivo maestro» -, la schiena curva dei vescovi sardi proni ad ogni suo comando. Una comunicazione (o più di una, se considero anche quelle mie personali) fu rimessa allo stesso pontefice Benedetto XVI, cui venne anche trasmessa una ulteriore informativa riservatissima, in busta chiusa, alla sua esclusiva attenzione. In attesa di decisioni che forse vedremo fra breve, a cinque anni di distanza da quando esse s’aspettavano. In ritardo per le omissioni – per i peccati di omissione – dei molti che, dalla Santa Sede alla archidiocesi, avrebbero dovuto provvedere.

Zampillò invece il contrario: e quanta parte del presbiterio diocesano consentì con il giovane parroco della cattedrale nella liturgia… riparatoria della “offesa” recata all’arcivescovo Mani la volta che egli, come un feudatario irato, definì la comunità di Sant’Eulalia in assemblea una baracca?! Don Cugusi restò in una umiliante sospensione di ruolo per due anni, i migliori riconoscimenti andarono ad altri di dubbio maggior valore.

Molto di tutto questo lo riportai, con fatica narrativa ma copioso supporto documentario, ed assumendomene la responsabilità, nella memoria che, appunto nella primavera 2012 trasmisi al nuovo arcivescovo di Cagliari Arrigo Miglio. Il quale, con la signorilità di cui ha dato prova anche in tante successive occasioni, manco ringraziò per il pensiero. Né dette risposta a me quando gli segnalai una bestemmia sfuggita al giornale diocesano e la censura che colpì chi l’aveva rilevata; né mi risulta dette mai risposta all’amico don Cannavera quando segnalò l’assurdo della espunzione dei nomi di cinque ragazzi del carcere minorile che pure il papa avrebbe voluto incontrare nella sua visita cagliaritana, per far posto invece al milionario presidente del Cagliari e ai pensionati dell’amministrazione penitenziaria! Povero don Arrigo, prigioniero di una abulia sconfortante. E, mi si dice, disposto in queste stesse settimane al placet di un pur problematico (!) ricambio nella parrocchia salesiana di Selargius!

Conclusione. Attorniato da collaboratori che con lui non collaborano, non frenandolo negli errori che uno dopo l’altro si dà a commettere con danno rovinoso della diocesi a lui finora affidata (incluso l’avvicendamento alla direzione dell’ Archivio Storico Diocesano), egli non riesce a prendere il controllo della situazione, il che significa in primo luogo – oggi – dare l’esempio di un’alta dignità, quella propria del suo ufficio apostolico. In primo luogo parlando chiaro e a tutti – se i cristiani quidam non sono per lui un sovrappiù e se vuole davvero onorare il suo pastorale di legno – ed attivandosi per un recupero di armonia e fiducia appunto nel complesso corpo ecclesiale del nostro territorio. Certo i guai vanno addensandosi nelle stanze dell’episcopio, fra Castello e via Cadello. Ma intanto potrebbe immediatamente cominciare: presentandosi parroco a tempo pieno, e sia pure a termine – fino alle feste patronali del 24 giugno e del 25 luglio rispettivamente – e comunque per il meglio, nelle due comunità oggi gemellate da una medesima tensione: Villamar e Mandas. Dove lo attendono ogni giorno – non tutti forse, ma molti sì – all’arrivo dell’autobus da Cagliari, ma dove non scende.

 

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