«Mischineddu Gianluca!»

Sul grave fatto di sangue avvenuto lo scorso 8 maggio ad Orune si propongono alcuni dei commenti usciti nei giorni successivi su  LA NUOVA SARDEGNA.

La nuova sardegna 10 maggio 2015

Fuori dalla chiesa tra gli amici, i familiari e i compaesani uniti nella condanna
«Una mamma può aspettarsi di tutto, ma non che gli ammazzino il figlio»

«Mischineddu Gianluca». Il dolore dei compagni

di Tiziana Simula wINVIATA A ORUNE Camminano con passo veloce verso la chiesa che di lì a poco sarà troppo piena per poterci entrare. Donne, uomini, anziani e tanti, tantissimi ragazzi. Tutti lì, raccolti tra la chiesa e il sagrato, con il loro dolore e il loro stupore per salutare Gianluca, ucciso a fucilate in una mattina di maggio. «Mischineddu…», bisbiglia un’anziana aggiustandosi il fazzoletto nero che le avvolge la testa, mentre varca la soglia della parrocchia di Santa Maria delle Neve. «Una mamma può aspettarsi di tutto, tante cose brutte: che suo figlio si faccia male, che abbia un incidente. Ma che glielo ammazzino, no. Questo, una mamma, non se lo aspetta», scuote la testa una donna, parlando a bassa a voce con alcune amiche, mentre tra le mura della chiesa risuonano forti le parole del vescovo che invoca i giovani a non farsi rubare la speranza. E di giovani ieri ce n’erano tanti: compagni di scuola di Gianluca, amici di svago, conoscenti. Di Orune, di Nuoro, e dei paesi vicini. Piangono, si abbracciano, si consolano a vicenda. Tanto il dolore per quell’amico che non c’è più. Per la sua fidanzata, a cui hanno rubato i sogni e spento il sorriso. Per la sua famiglia, a cui hanno strappato il cuore. Nessuno ha voglia di parlare. Nè tantomeno di provare a spiegare cosa ci sia dietro quell’inspiegabile assassinio, quale sgarbo così terribile possa aver armato la mano di una persona. Il giorno dopo il delitto di corso Repubblica, Orune è un paese sotto choc. Nessuno si sa dare una spiegazione. Ma con le storie del passato, quelle che hanno segnato drammaticamente la storia del paese, di questo ne sono convinti tutti, la morte di Gianluca Monni non c’entra nulla. «Non lo sappiamo perché è successo. Ma questa è un’altra storia, non è legata con le vicende del passato», dicono in dialetto alcuni anziani seduti al fresco, all’ingresso del paese. E mentre parlano, guardano là, verso la casa della nonna di Gianluca, in quella gradinata dove venerdì mattina il giovane diciannovenne è stato freddato dal suo assassino. Ora, a raccontare di quella morte, proprio su quei gradini ripuliti dal sangue, c’è un vaso di fiori bianco. Per Orune ieri è stato il giorno del lutto e del dolore. La lenta processione dei fedeli verso la chiesa parrocchiale è cominciata presto, sotto il sole caldo del pomeriggio. Tutto intorno, silenzio. Il carro funebre, partito dalla camera mortuaria dell’ospedale San Francesco, ha attraversato le strade del paese fino a raggiungere la chiesa, quand’era ormai affollata da centinaia di fedeli. Dietro il feretro, la mamma Rita, il papà Salvatore e il fratello Pasquale, e la sua amatissima fidanzata. Composti nel loro straziante dolore. Sul sagrato un tappeto di fiori. Centinaia i commenti che anche ieri si sono rincorsi sul web. Parole di dolore, cordoglio, angoscia e rabbia. Ma anche di riflessione. Come quelle di Francesco Berria, in passato sindaco per anni di Orune. «Sei un paese di donne e uomini valenti, di lucide intelligenze, di ragazze e ragazzi colti e generosi come lo era Gianluca. Ma ci sono anche, diciamocelo, uomini vinti. Sì, vinti dall’odio. E spesso di questo non si parla. Ma questa è la tua sfida di oggi: far vincere una nuova idea o tornare indietro. La puoi vincere perché hai gente che vale. E quella sfida la devi combattere». Tantissimi i pensieri lasciati dagli amici di Gianluca sul sito “Ammentos de Orune”. Tanti gli appelli all’omicida. «Auguriamoci che si penta e si consegni perché solo così avrà pace e darà sollievo anche alla sua cara famiglia. Rimedia al più presto e starai meglio. Non essere vigliacco o orgoglioso di quello che hai fatto, ma un uomo».

 

 

la nuova sardegna 10 maggio 2015

LA SPERANZA Sarebbe significativo se un importante segnale di cambiamento arrivasse dai giovani,

di EUGENIA TOGNOTTI Nell’agguato mortale che ha spezzato la vita di un ragazzo, piena di promesse e di sogni, alla vigilia di quel rito di passaggio che è l’esame di maturità, s’intrecciano, inestricabilmente, vecchio e nuovo. C’è il cordone ombelicale che lo collega in qualche moda al passato, ai codici di comportamento, ai modelli culturali di riferimento, alla violenza dell’antico mondo dei “padri” , in uno dei paesi più difficili della Barbagia, Orune, dilaniato da faide decennali e indicato dai giornali – in tempi che sembravano lontani – come il paese simbolo del malessere sociale delle zone interne dell’isola. E c’è, indiscutibilmente, il nuovo: l’età della vittima, la sua condizione di studente, la sua estraneità al mondo pastorale, il suo non aver avuto a che fare con la “giustizia”, come si dice. E, ancora, il contesto, l’ora, il luogo stesso – il centro del paese – in cui gli assassini hanno sorpreso la loro giovane vittima, in un mattino qualunque, mentre con altri ragazzi aspettava l’autobus per recarsi a scuola, a Nuoro. Le stesse immagini, pubblicate dai giornali o viste in TV, rimandano all’oggi: non pascoli, muri di cinta e cancelli di case di campagna, a fare da sfondo al corpo coperto da un lenzuolo, ma uno scorcio urbano e gruppi di studenti – abiti, scarpe, taglio di capelli – simili a quelli dei loro coetanei che aspettano il suono della campanella per entrare a scuola in qualsiasi piccolo e medio paese d’Italia. Ragazzi che hanno affidato messaggi e pensieri per il ragazzo morto – una sorta di moderno attitidu – ai social network, ai nuovi canali dell’informatica e della comunicazione virtuale . Si stenta a collocare, in questo contesto e tra queste vite così brevi, un odio antico come una cicatrice che non si rimargina, la messa a punto di una feroce resa dei conti, la meditata preparazione di una vendetta classica, di quelle che chiamano sangue. Ma se si scartano collegamenti del giovane assassinato con la criminalità comune e con faide che hanno lasciato una scia di sangue ad Orune , si fa davvero fatica ad accettare le possibili motivazioni riferite dalle cronache, che cioè all’origine di un fatto di sangue così spaventoso possa esserci una discussione con un gruppo di bulli-balentes che avevano preso di mira la sua ragazza. Occorrerà aspettare il lavoro degli inquirenti, cominciando però ad interrogarsi, in generale, su tematiche come l’emergenza di nuovi comportamenti legati a fenomeni di dipendenza, di dispersione scolastica, di devianza minorile, di bullismo. C’è da augurarsi che chi ha visto parli, che crolli quello che per tanto tempo è stato quasi un mito nella Sardegna profonda: il silenzio davanti alla giustizia. Sarebbe importante che un importante segnale arrivasse dai giovani. Perché è a loro che è affidato il compito di scrivere il futuro, di trasformare la realtà locale e di far entrare paesi ‘difficili’ in una nuova traiettoria storica. Quest’ultimo episodio di violenza non è “una maledizione divina”, come ha dichiarato il sindaco di Orune, comprensibilmente scosso da quel delitto che ha sconvolto la comunità paesana. Quell’espressione, usata nel Medioevo per darsi ragione di qualcosa di inspiegabile e di straordinario – la peste, un’inondazione, la siccità, un’epidemia, un terremoto, un’invasione di cavallette – non appartiene al nostro presente, in cui sono, devono essere, le persone di buona volontà, attingendo ad una riserva di energie nuove, nelle istituzioni e fuori, a cambiare le cose, investendo sulle politiche e le buone prassi per costruire gli “anticorpi’ e una nuova cultura, capace di contrastare la violenza in tutte le sue forme.

 

La nuova sardegna 10 maggio 2015,

ORA BASTA CON I SILENZI COMPLICI

di GIAMPAOLO CASSITTA Quando tutto questo sarà concluso, quando saremo passati tutti dal cancello del dolore, potremo provare a capire, potremo cominciare ad analizzare perché si uccide un ragazzino. Nel mondo animale siamo gli unici a non rispettare i propri cuccioli e questo la dice lunga sul tasso di appiattimento e di degrado sociale nel quale siamo sprofondati, quasi senza rendercene conto. Ormai siamo immuni a qualsiasi tragedia, riusciamo ad assorbire tutto ma, soprattutto, qualcuno di noi, del nostro recinto sociale, tranquillamente uccide con apparente spavalderia, con terribile facilità, un ragazzo che si è appena affacciato alla vita. Il problema non è Orune e i suoi abitanti, sarebbe fuorviante e semplicistico, il problema è l’ostentazione della forza bruta, volere a tutti i costi uccidere le parole, il dialogo, la possibilità di poter discutere, anche animatamente, come dovrebbe essere normale tra uomini, ragazzi compresi. Perché non è pensabile, davvero, che tutto nasca da una vendetta ai fini passionali, peraltro labile e insulsa: Gianluca pare abbia difeso la sua ragazza da qualche stupido giovanotto, in maniera anche veemente. La passione però, in questo caso, è di Gianluca e non di chi ha sparato a bruciapelo senza neppure guardarlo negli occhi, senza neppure concedere una minima possibilità. In questa società, dove tutto corre veloce, c’è sempre posto per i vigliacchi, per chi non ha argomenti, per chi, per avere ragione e per ottenere giustizia, usa la forza bruta e uccide. Non è caduto inerme solo Gianluca ieri. Sarebbe troppo semplice. Sopra quell’asfalto ci sono anche i nostri occhi, c’è l’atavico silenzio di chi è abituato a sopportare, ci sono le stupide giustificazioni legate al fato o al destino o, ancora, alla malasorte. Come se Orune fosse Macondo. Ci sono passaggi difficili da raccontare e da analizzare. Un omicidio, poi, non è un tema semplice seppure, a volte, si uccide per motivi banali. Ecco, la domanda che tutti ci poniamo sempre, davanti all’assassinio, è: perché lo ha fatto? La risposta però non ci può tranquillizzare, non possiamo mai assolvere quel reato, qualunque sia il movente. È un gesto estremo, senza speranza e senza possibilità di recupero. Chi ha commesso un omicidio, quando poi finisce in carcere e nel tempo elabora, si rende conto dell’enormità, dell’impossibilità di poter riparare. Quando ritorna all’atto, nella maggior parte dei casi riesce a dire: «E’ stato un attimo, dove il cervello non rispondeva». Il problema è un altro: chiedersi perché si è arrivati a quell’attimo, a quel punto di non ritorno e cosa è stato costruito affinché non si giungesse a distruggere la vita di un uomo. È stato distrutto, da tempo, lo spazio per la mediazione sociale. Ci si insulta per una precedenza non data, ci si strattona se si salta una fila. Lo viviamo quotidianamente: è una società che corre verso qualcosa che non conosce, che non ha pianificato. È una società che ha dimenticato il dialogo, le ragioni dell’altro, la civica convivenza. Si interrompe una storia d’amore con un messaggio o, semplicemente, annunciandolo sul social network, la piazza dove tutti urlano e nessuno ascolta. C’è un ultimo passaggio che occorre fare, per Gianluca e per l’intera comunità: provare a restituire il peso alle parole, provare a rimettere al centro la vita e la dignità. Non è più tempo di silenzi complici. Quel corpo sulla strada, quel supplizio assurdo, quelle anime pietrificate davanti a una vita distrutta, non ci permettono altre pause. La parola deve riprendere a disegnare le storie della nostra comunità e cancellare il fucile. Questo dobbiamo fare. Semplicemente.

 

 

La nuova sardegna, 11 maggio 2015

I DEMONI DI UNA GENERAZIONE PRIGIONIERA DI ORIZZONTI VUOTI

di PIERO MANNIRONI Orune sconta fatalmente la condanna del suo passato. Paese simbolo del “malessere”, resta incatenato a un luogo comune che banalizza perfino le tragedie. Per questo motivo, quando un assassino mascherato ha spento a fucilate i 19 anni di Gianluca Monni, è stato quasi normale pensare che quella fiammata di odio incandescente avesse la sua origine nel ventre oscuro di Orune. È stato cioè naturale pensare ancora una volta a un paese perennemente sospeso sull’abisso, dove il futuro fa paura perché gli orizzonti appaiono vuoti di senso, con l’eterno ritorno di un demone antico che crea un grumo oscuro che nessuna pietà può sciogliere. Come una dannazione, una condanna infinita. Si è perfino rinnovata la falsa convinzione che in nessun altro paese della Barbagia sia possibile, come a Orune, morire per nulla. Per un gesto, uno sgarbo al bar, uno sconfinamento di bestiame, un banale litigio. Un’incomprensibile follia nella quale l’ira diventa furia, la rabbia diventa impeto incontenibile e distruttivo. E invece, ora che con il passare delle ore le indagini stanno lentamente diradando la nebbia che avvolge la morte di Gianluca Monni, si intuisce una realtà diversa. Non è Orune che deve espiare ancora una volta le sue colpe antiche perché questa volta il paese è una vittima. Luogo di morte sì, ma di una morte arrivata da altrove. E si profila uno scenario nel quale le radici della violenza non affondano nelle ombre del passato di un luogo, ma in una generazione smarrita. Di giovani e giovanissimi che inseguono il mito di una malintesa “balentia” e per i quali le armi riempiono il vuoto della parola. L’arma, dunque, come emozione e fascinazione, come mezzo per l’affermazione di presunte ragioni. Come affermazione di esistere. I bar e l’alcol diventano poi i luoghi e i catalizzatori di un rito nel quale il baccano uccide la parola e diventa parodia di un grido d’angoscia che desertifica praterie di speranza. E, come dice il filosofo Umberto Galimberti, «dietro questa catastrofe culturale e di sentimenti c’è un’intera generazione che non ha saputo capire che i giovani, i figli, sono legati ai padri e alle madri dal “colloquio”. Che è fatto, è vero, solo di parole. Ma le parole non si dicono solo, si ascoltano anche. È cioè il farsi condurre là dove la parola dell’altro ti conduce. Se poi, invece della parola c’è il silenzio, allora ci si deve far condurre da quel silenzio, perché anche l’assenza della parola dice qualcosa. Spesso è la voce di una disperazione». Nel gennaio 1992, dopo il drammatico ferimento di due carabinieri nella notte di Capodanno, Bachisio Zizi, intellettuale raffinato e sensibile, scrisse che in Orune leggeva i sintomi di una comunità rotta, nella quale gli anziani avevano perso l’autorevolezza e l’influenza sui giovani: «Ora sono ridotti a fare la guardia al focolare spento, che è la disgrazia più grande per gli uomini del mio paese. Ciò che annienta è il tempo vuoto che i giovani tentano di riempire con le loro scelleratezze». Parole che oggi non possono essere riferite a Orune. O meglio, non solo. Perché descrivono la crisi generale di una generazione. E a questo punto è inutile, anzi, è sbagliato andare a evocare temuti fantasmi. Dire cioè che Orune è Barbagia, ma la Barbagia non è Orune. Una contraddizione solo apparente. Quando Bachisio Zizi sintetizzò con queste parole l’anima profonda del suo paese tormentato intendeva dire che Orune porta dentro di sé lo spirito della Sardegna profonda, ma lo interpreta e lo declina in un modo originale. Perfino unico. «Se è vero che siamo gente di eccessi – diceva Zizi – le nostre passioni spesso sono una rivolta contro la mediocrità e contro la caduta degli slanci generosi. Non intendo fare l’elogio della dissennatezza orunese, che tanto ci ha segnato: sto cercando ragioni di vita e non di morte nei nostri traboccamenti». Eccola, dunque, la “diversità” orunese: la convivenza impossibile di intelligenze solari e di straordinarie generosità con un’anima buia, capace di manifestarsi in straripanti esplosioni di violenza che alimentano un vento cattivo, avido di morte. E la prova di questa anima divisa è nell’alta percentuale di laureati e nell’altrettanto alta percentuale di croci di morti ammazzati in camposanto. E in questa equazione apparentemente illogica Orune mostra la sua natura di paese tragico, dove le stagioni della speranza vengono continuamente interrotte e umiliate dall’atteso inverno della ragione. Dopo gli infiniti e sanguinosi anni delle faide e delle guerre all’interno del mondo della malavita, questo paese triste, appollaiato su un costone roccioso che si affaccia sulla dolce vallata di Marreri, sembrava aver trovato una strada nuova, un desiderio di riscatto e di liberazione. Anche e soprattutto attraverso i giovani. E che oggi ci siano giovani che parlano, aiutando a fare luce sulla morte di Gianluca, significa che forse qualcosa sta cambiando.

 

UN DELITTO LONTANO DAI CODICI DELLA BARBAGIA di Marcello Fois,

la nuova sardegna 12 maggio 2015

di MARCELLO FOIS La trafila è sempre la stessa: succede un fatto di sangue in Barbagia e finalmente la stampa nazionale si ricorda della Barbagia. I caporedattori dei più importanti quotidiani nazionali setacciano le proprie agende alla ricerca di qualche amico sardo, meglio se scrittore, meglio se scrittore con una certa visibilità, perché spieghi a tutti secondo quale secolare meccanismo avvengono degli omicidi in Barbagia. La risposta più ovvia sarebbe chiarire che gli omicidi barbaricini non sono in nulla diversi dagli omicidi in generale, ma questa risposta non viene considerata abbastanza giornalistica. Da un agguato barbaricino, infatti, ancora oggi, ci si aspetta il sapore ferroso dell’odio millenario, lo sguardo sghimbescio della vendetta a freddo, il respiro trattenuto dell’appostamento dietro al muretto a secco. Una paranarrazione sulla quale non ci sarebbe nulla da dire: è il lievito di tutte le paranarrazioni sulla Barbagia, il palcoscenico su cui si recitano i cascami folk di questa ormai asfittica coscienza di sé, che ancora insistiamo a definire identità. Ai giornali nazionali piace perché è esotica, ai barbaricini piace perché è consolatoria. In Continente illustra un rustico territorio d’avventura per lettori urbanizzati. In Sardegna racconta un sé posticcio, e quindi nobilitato dalla distanza, per lettori antropologicamente depressi. Attraverso quello che crediamo di sapere di un posto, fingiamo di interpretare quanto in quel posto accade. E se si azzoppa una capra in Barbagia non c’è dubbio che si debba ricorrere al Codice Barbaricino piuttosto che al più consono veterinario. Ora vai spiegare all’amico Caporedattore in questione, che lavora in una grande testata nazionale, che il Codice Barbaricino è un materiale culturalmente delicatissimo, di cui non bisogna abusare se non si vuole giustificare anziché condannare senza sé e senza ma. Il recente delitto di Orune, per esempio, non è una di quelle faccende per cui occorra scomodare il Codice Barbaricino, proprio perché questo richiamo può far sembrare questo orrore diverso da quello che è. Può trasformare, nello specifico, una manica di delinquenti, in eroi ammantati di chissà quale aura epica. E questo sgarbo ulteriore a quella vittima innocente e giovanissima, proprio non lo possiamo fare. La narrazione corretta sarebbe quella dei tempi grami in cui stiamo vivendo, dell’abisso in cui questo territorio sta versando, dello stillicidio che giorno per giorno sta spopolando la Barbagia. La narrazione corretta sarebbe l’esatto opposto del Codice Barbaricino, perché per applicare un codice ci vorrebbe coscienza di sé e della propria storia. E invece chi ha ucciso Gianluca Monni è solo un assassino senza codici, senza prospettive, senza quella coscienza di sé che non sia la farsa del prepotente, del balente falsamente inteso, dell’orgoglioso a parole, che, nei fatti, è talmente vigliacco da risolvere una disputa col fucile e il capo coperto. Niente di particolarmente barbaricino in tutto ciò, anzi l’esatto opposto. Li conosciamo bene, a tutte le latitudini, questi campioni che ritengono di avere solo diritti e nessun dovere, che guardano coloro che reagiscono, e agiscono, con civiltà come imbelli da punire; che marcano il territorio su cui pascolano, campando del lavoro altrui, e guardando con sospetto chiunque dimostri che si può uscire dalla commiserazione rabbiosa di sé. I nemici di costoro si chiamano civiltà, legalità, cultura. Gli alleati sono: autocommiserazione, pigrizia, invidia. In Barbagia e nel mondo: sempre gli stessi.

 

 

 

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