Cari ricordi, don Giovanni Canestri! di Gianfranco Murtas

I media hanno diffuso ieri la notizia della morte, alla bella età di 97 anni, del cardinale Giovanni Canestri, arcivescovo di Cagliari dal 1984 al 1987. Nonostante i quasi trent’anni dal suo congedo isolano i rapporti con la Sardegna restarono intensi, coltivati da preti e laici che, avendolo conosciuto nella sua intimità, gli rimasero affezionati.

E’ giunta non inattesa ma certo è dolorosa la notizia della scomparsa del caro cardinale Giovanni Canestri, prete buono e sapiente, dotto e umile. Era stato da noi soltanto per mille giorni, pochi di più, ma aveva lasciato il segno. Può dirsi: la signorilità, la dottrina offerta senza pretese cattedratiche e la capacità di ascolto, e anzi di più, l’intelligenza evangelica di stimolare la collaborazione e la fraternità. Ecco la sua cifra.

Alessandrino di Castelspina, don Giovanni, per lunghi anni in serena quiescenza (nonostante l’indebolimento di vista e udito, prezzo dell’età!) nell’amata Roma dove aveva risieduto e lavorato come vicegerente della diocesi pontificia prima di essere trasferito – promosso! nel servizio ecclesiale – all’archidiocesi di Cagliari e quindi in quella di Genova, era nato pochi giorni prima dell’epilogo santo di Vittorio Veneto, nel gran massacro della grande guerra. Aveva detto messa 74 anni or sono, nella solennità dell’aula della cattedrale di Roma, San Giovanni in Laterano, nel 1941, in anno di guerra, ancora guerra. Era poi stato consacrato vescovo dopo giusto vent’anni di presbiterato – seguendo e servendo parrocati e direzioni spirituali tutti nella capitale, all’Alberone come al Seminario Romano –, e dallo stesso consacrante l’arcivescovo-cardinale Luigi Traglia, vicario generale del papa.

Di Traglia fu allora uno degli ausiliari, con il titolo di Tenedo, antichissima diocesi radicata su un’isola turca e governata nei primi secoli cristiani da vescovi greci. (Una curiosità al riguardo, perché la circostanza sembra idealmente anticipare una prossimità sarda che sarebbe venuta anni dopo: fra i primi titolari della diocesi, all’inizio del Novecento, fu don Eugenio Cano, vescovo di Bosa e costretto dalla malattia a ritirarsi, dopo trenta e passa anni di fecondo ministero, nel 1905, ricevendo allora dalla Santa Sede appunto il titolo onorifico di Tenedo).

La consacrazione episcopale di don Canestri avvenne nel 1961, anno di vigilia del Concilio. Ed al Concilio partecipò dalla prima all’ultima sessione, fra l’ottobre 1962 e il dicembre 1965, sotto le presidenze di Giovanni XXIII e Paolo VI. Di recente, il professor Tonino Cabizzosu ha pubblicato uno studio molto articolato di documentazione (in due volumi) circa i contributi offerti ai lavori conciliari dai vescovi sardi di nascita o di prossima elezione (cf. I vescovi sardi al Concilio Vaticano II. Fonti. Protagonisti). Fra essi proprio don Canestri e le diciotto pagine del report di Cabizzosu danno conto particolareggiato della intensità e del rilievo di quella partecipazione – il che è giudizio che prescinde evidentemente dalla condivisione o meno delle tesi da lui sostenute –, fra documenti scritti, citazioni, sottoscrizioni di interventi in aula di confratelli, suoi discorsi, ecc. La sua firma compare in coda a quattro costituzioni ora dogmatiche ora pastorali, a tre dichiarazioni, a nove decreti. Fra i testi di maggior peso la Dei Verbum, sulla divina Rivelazione, la Gaudium et spes, sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, la Unitatis redintegratio, sull’ecumenismo, la Nostra aetate, sulle relazioni con le religioni non cristiane, la Dignitatis humanae, sulla libertà religiosa.

Egli, presule allora poco più che quarantenne, credette molto al Concilio come svolta, o accelerazione di dialogo pastorale, sul piano della fraternità non del paternalismo. Subito dopo la conclusione di quella lunghe e faticose sedute di lavoro si dette a mettere in pratica le nuove direttive, il nuovo stile. Appunto da vescovo ausiliare nella diocesi del papa (l’altro ausiliare era don Filippo Pocci, cui si aggiunsero nel 1966, essendo stato il territorio diviso per settori o zone, altri tre colleghi: Oscar Zanera, Dino Tribalzini e Plinio Pascoli, mentre il vicegerente/coordinatore era Ettore Cunial, cui successe Ugo Poletti). Promosse il centro diocesano di teologia per i laici e raccolse energie e idee per attuare appena possibile – sarebbe avvenuto anche a Cagliari – il disegno partecipativo del clero al governo della Chiesa locale attraverso il Consiglio presbiterale.

Ricordando molti anni dopo quella esperienza, in una intervista concessa nell’ottobre 2012 al direttore de Il Portico Sergio Nuvoli, egli si soffermò sulla svolta/accelerazione ecumenica e su quella che papa Roncalli avrebbe chiamato «della fiducia verso il mondo moderno»: «i tempi erano ben diversi da quelli di adesso. Si respirava ancora un clima di diffidenza nei confronti delle altre confessioni cristiane o delle altre religioni e soprattutto si evidenziavano formazione, mentalità ed esperienze diverse. Ma anche quella libertà di discussione è servita a condurre al dialogo, prima nei gruppi e allargato poi a tutta la Chiesa e al mondo». Evocò in particolare, dei padri italiani, la dottrina e la sapientia cordis del cardinale Lercaro, arcivescovo di Bologna – il cui ausiliare era Luigi Bettazzi – che «contribuì in maniera determinante con le sue riflessioni sulla liturgia sottolineando la necessità di partecipare anche alla liturgia della Parola durante la santa messa: sulla Chiesa evidenziando il concetto di mysterium sacramentum che proponeva già come idea guida della sua visione pastorale; sull’ecumenismo con il riconoscimento del pluralismo dei riti; con l’affermazione del primato dello spirituale sugli aspetti strutturali; sulla povertà, tema caro a Lercaro, per lui indispensabile per una vita veramente evangelica».

Promosso nel 1971 vescovo di Tortona, nel Genovese, rimase in Liguria meno d’un lustro. Il suo percorso ecclesiale da lì forse fu segnato: doveva tornare in Liguria, ma nella maggiore (e complessa e complicata) archidiocesi metropolitana, dopo aver maturato altre esperienze: da arcivescovo vicegerente a Roma per un decennio circa (dal 1975 al 1984), da arcivescovo metropolita a Cagliari (e qui presidente della CES, dopo la rinuncia di monsignor Spanedda, altro vescovo conciliare) per un triennio pieno, fino all’estate 1987, contando da noi per la gran parte del periodo sulla collaborazione diretta del già esperto vescovo Pier Giuliano Tiddia, e quindi – dopo la nomina di questi alla sede di Oristano, ai primi del 1986 – su quella del vicario generale e poi anche vescovo ausiliare pure lui (dal giugno 1986) Tarcisio Pillolla.

 

Da noi egli legò il suo nome al progetto pastorale cosiddetto delle “microrealizzazioni della carità”, in parte realizzato da lui e in parte dal suo successore Ottorino Pietro Alberti. Esso voleva essere, nel concretissimo territorio cagliaritano e del suo hinterland, quel che Nostro Signore diceva del lievito nella pasta: esempio e testimonianza per la… rivoluzione, senza astrattismi teoretici.

Il libretto contenente le linee della Programmazione diocesana e visita pastorale porta la data del 20 ottobre 1986 – data anniversaria della visita di Giovanni Paolo II a Cagliari – e racconta bene la pastoralità di un presule straordinariamente colto. Anche le note di bibliografia sono il riflesso diretto del suo profilo intellettuale e sacerdotale: per metà sono magistero (iniziando da quello conciliare), per l’altra metà rimandano alla “fonte” prima, le Scritture e la Patristica.

E anche i saluti, nella lettera di chiusura, valgono molto per i verbi, i sostantivi e gli aggettivi: «invoco sopra tutti la benedizione del Signore e mi professo, con tanto affetto, vostro». Uno che accompagna, presente per grato piacere e dovere, non che ordina o strilla l’attenti.

I titoli dei documenti: “Conversione, riconciliazione, preghiera”; “Scuole per la formazione dei catechisti”; “Carità, microrealizzazioni”; “Vocazioni di speciale consacrazione”, “Visita pastorale” (Visita che avrebbe iniziato nella prima domenica di Quaresima del 1987, appena tre mesi prima che dal Vaticano giungesse, dai più imprevista, la decisione di togliercelo per traslarlo a Genova).

Ebbi ripetuti contatti con il cardinale anche negli anni genovesi (e nei più recenti, della sua quarta o quinta età, a Roma): rapporti e telefonici e scritti e con scambio di doni. Il che mi porta a rendergli una pubblica testimonianza, frugando fra il meglio. Mi riferisco qui a un invito che mi rivolse, per il tramite di un comune e illustre amico, in una certa tarda mattinata dell’autunno 1986. Voleva dirmi e dimostrarmi che certe critiche da me a lui rivolte dalle colonne dell’Unione Sarda per la mancanza, a quel momento, di interventismo sociale – si era da poco ucciso (?) a Buoncammino, a un chilometro soltanto dall’episcopio, il giovane Aldo Scardella, per colpa esclusiva dei magistrati che non lo interrogavano e lo lasciavano marcire nell’isolamento della detenzione preventiva – non lo offendevano.

I chierichetti di trenta e cinquant’anni, che non mancano mai in queste occasioni, loro sì che si erano offesi, monsignore no. E volle dichiararmelo e dimostrarmelo, interessato alla conversazione e alle critiche, trattenendomi non nello studio dell’arcivescovado, ma nella biblioteca personale della sua abitazione. Mi raccontò – per mezz’ora, un’ora? – per filo e per segno la sequenza degli autori che erano entrati nella sua formazione di studio e spirituale fin dalla prima adolescenza. Passammo davanti a quei libri, me li raccontò con sobrietà, allargando alle sue fasi di vita ecclesiale, senza guardare l’orologio. Mi raccontò di sé attraverso le sue letture, le sue passioni culturali ed umanistiche che infine trovavano senso soltanto nella adesione evangelica e nella apertura all’incontro.

Di più. Mi chiese un contributo, un’altra volta critico, alle bozze del suo piano pastorale. E glielo diedi quel contributo, e fu accolto, e sul terreno direttamente programmatico (l’impegno parrocchiale per la raccolta del sangue a favore dei nostri microcitemici) e su quello… lessicale, quando lo invitai ad “alleggerire” la metafora del pastore e del gregge: perché mai si pensasse che noi cristiani quidam siamo pecore del vescovo, invece che dell’unico Pastore, che ci dona, più ancora del respiro, il senso stesso della nostra vita. I vescovi sono soltanto dei servi pastori, dei pastori delegati, obbligati all’affiancamento, obbligati all’ascolto, obbligati alla mitezza.

Lettere – mie: per protestare contro certo squalificato e censorio giornalismo diocesano –, biglietti e doni reciproci con le dediche dell’amicizia mutuamente conquistata. Nel novero, una robusta biografia di Sant’Agostino da lui offerta come luce alla mia inquietudine, nel novero anche il mio Papa Roncalli e la Sardegna e, di più, la dedica, in epigrafe a stampa, di quel Partenia, la Comunità, per ricordare il quarto di secolo di Mondo X Sardegna, circuito di volontariato sociale del quale egli aveva tenuto a battesimo il terzo tempo: quello di Campu’e Luas, nel 1985, e che per lunghi anni ho anch’io accompagnato, per come ho potuto, unitamente alla divisione Infettivi dell’ospedale di Is Mirrionis. Nel novero anche qualche chiamata telefonica, da Roma, al rientro da Genova, a missione compiuta anche a Genova. Che squisitezza!

Otto anni a Genova, successore del cardinale Siri. Cardinale lui stesso con il titolo, proprio del clero un’altra volta romano (e già del suo mentore Luigi Traglia), di Sant’Andrea della Valle, una delle chiese barocche più belle dell’urbe. Poi la cessione del pastorale ad un presule dai tratti certamente opposti a quelli di Siri: Dionigi Tettamanzi (destinato successivamente alla sede ambrosiana, degno continuatore della semina del cardinale Martini). Grandi cose, mai eclatanti però per la stampa banale dei tempi attuali, nella pastorale genovese, tanto nella pratica educativa quanto in quella sociale e missionaria. Le sue omelie continuavano ad essere di sette minuti.

Cara Eminenza, lo so esser rimasta in lei, per lunghi anni, soltanto affievolita nel tempo e dalle maggiori responsabilità del presente ineunte, ancora un po’ di nostalgia, e anche più di un po’, «per la “nostra” Isola». Recupero le sue parole. E peraltro le visite, a invito mai mancato, e ad assistenza piena e cordiale, affettuosamente filiale, di don Sergio Manunza, si sono susseguite lungo forse due decenni dal congedo, quel giorno, nella grande basilica di Bonaria. Come avrebbe fatto anche il suo successore, un altro generoso servo pastore che, alla semplice richiesta di tendere l’orecchio, offriva orecchio e cuore, per ascoltare e capire.

 

 

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