La vita minima nella massima storia, fra grande guerra e montante fascismo di Gianfranco Murtas

Alle ore 18 di oggi lunedì 27 aprile 2015, Federico Lo Bianco presenta alla Libreria Il Bastione l’opera prima di Franco Arba “Dicono che domani ci sarà la guerra”. Ecco, a proposito di questo interessante lavoro fra letteratura e storia, una nota di Gianfranco Murtas.


«A Cagliari, il giorno dell’imbarco del mio reggimento, le dimostrazioni di giubilo e di patriottismo di centinaia di cittadini mi esaltarono. La convinzione di poter fare la mia parte per la grandezza della patria si univa all’entusiasmo per le nuove opportunità che la divisa mi avrebbe offerto. Quel giorno conobbi chi aveva una visione più realistica della guerra e della vita: era un commilitone del mio stesso battaglione. Lo notai che sfogliava “L’Unione Sarda”. Mi misi alle sue spalle e lessi a fatica il titolo della prima pagina…».

La guerra, la bella guerra per vendicare, anche se a molti anni di distanza, la sovrana dignità dei Savoia, sì proprio cominciando dalla ingiusta morte del re Umberto, ucciso a Monza nel 1900, ed ora proseguendo con quella non meno ingiusta del cugino del nuovo re, e per mano di un principe sardo senza cervello e senza cuore: l’infausto principe Gavino («principe di chissà cosa»).  Quindici, sedici anni di pianto morale, di rabbia e vergogna per quel lutto dei magni Savoia, ora rinnovato dal nuovo delitto. Ecco però venuto adesso il momento della riparazione…

Enrico ha vissuto nella sua infanzia e adolescenza un misto di emozioni grandi e piccole provocategli le une dalla grande storia e le altre dalle piccole vicende domestiche: la morte prematura della madre, le nuove nozze del padre, il disagio per una nuova presenza in casa con la quale le comunicazioni riassuntive sono passate per essenziali monosillabi: «eja, no, boh, ita ‘ndi sciu eu». Altra nidiata – Mario, Luciana e Virginia –, cinque con lui e il primogenito Giovanni, gallonato vicepadre, e ogni giorno mungiture e pasture, dopo l’abbandono della scuola, il sogno del continente, del luogo beato in cui la gente mangia sempre e non corre dietro agli animali. Per questo la guerra non è una disgrazia, è una opportunità nuova anche di vita. Anche Lussu, il capitano, dapprincipio, era di questa opinione…

«Il Ministero Salandra-Sonnino si è dimesso», recita il titolo a caratteri di scatola del giornale di Cagliari. Enrico ha sì poca scuola alle spalle, e però una intelligenza viva e i sentimenti aperti d’un ventenne, combinati ad una certa ingenuità, o meglio a una innocenza morale che gli viene dalla semplicità del suo mondo. Legge quel titolo e le prime righe del pastone politico-militare nel giorno stesso in cui incontra Paska, giovane sorella – ancora quasi una bambina, quattordici anni –  di Cosima e Simone Malanima il commilitone.

«-Io penso che finirà subito [la guerra], invece. Noi sardi combatteremo sino alla morte per lavare l’onta e la vergogna.

«Paska, con tono duro e inconsueto per la sua età, chiese: – E di cosa ci dobbiamo vergognare noi sardi?

«-Dell’uccisione del cugino del re.

«-Quale uccisione? Quale cugino?

«Non potevo credere che loro non sapessero perché l’Italia stesse entrando in guerra.

«Ajò, e mi volete dire che non sapere perché stiamo andando a combattere?

«Cosima, con molto garbo, chiese maggiori chiarimenti sulla mia tronfia sparata. – Scusaci, ma magari noi sappiamo cose diverse da quelle che sai tu. A te cosa hanno detto?

«Che un principe sardo, tale Gavino, ha ucciso il cugino del Re, che ha sparato a sua moglie e che diventerà Re anche lui, un giorno. Che questo principe Gavino è stato pagato dai tedeschi e allora noi italiani dobbiamo vendicare il cugino del Re e riprenderci anche le terre che i crucchi ci hanno rubato per tanti anni.

«La mia risposta tutta d’un fiato li ammutolì. Fu Paska a esprimere il pensiero di tutt’e tre: – Arratza tontidaddisi.

«Simone ricordò che dovevamo sbrigarci per l’adunata prima dell’imbarco, salutò le sorelle e ci dirigemmo verso l’America. Per noi, nuovi soldati in grigioverde, l’America non era il grande paese dove molti avevano fatto fortuna, bensì la nave che vi avrebbe fatto attraversare il mare».

Un tuffo nella letteratura sardo-italiana di nuova proposta può sembrare utile e gradevole a ridosso delle settantennali celebrazioni del 25 aprile ed alla vigilia ormai del centenario della entrata in guerra dell’Italia finalizzata non a vendicare un Savoia ma a compiere – nella visione degli interventisti democratici – il suo risorgimento unitario, portando nei confini dello stato quelle porzioni di nazionalità italiana, fra giuliani e trentini, troppo a lungo costretta nei domini austro-ungarici. Direi così: c’è un libro che merita di essere consigliato o donato a un amico/a per tanto rigoglio di sentimento universale e insieme nostro, tutto sardo, ed è opera (quasi) prima di un giovane-exgiovane scrittore di molto talento, che ci fa inorgoglire come isolani glocalisti. Si tratta di Dicono che domani ci sarà la guerra – il riferimento è appunto alla grande guerra di cento anni fa – e l’autore è un nuorese-campidanese (di Serramanna) di molte ascendenze isolane (Bonorva sopra tutte) che le circostanze hanno portato già da ragazzo a guadagnarsi la vita  nel mondo largo dei meridiani e paralleli.

Qualche parola sull’autore. Radici tutte isolane, ho detto, con persistenti orgogli comunitari – della comunità regionale come la intendono Michela Murgia e il suo movimento chiamalo anche indipendentista – e con esperienze faticose di lavoro a Londra – per imparare la lingua e provarsi in socialità nei servizi di ristorazione – e quindi, in patria, in diverse città o metropoli della penisola: Franco Arba è un mite ambasciatore di quelle tante cose che noi sardi siamo in una Italia vissuta, da lui come da me, come comunità delle comunità regionali, originali e irriducibili nei tratti di storia e lingua, e però aperte alle relazioni, in quello strano mix in cui giocano fierezze morali non mercanteggiabili per prezzi venali e tensione umanistica al fare insieme per il progresso e la giustizia, associati come siamo nei/dai valori universali. Un indipendentista di forte consapevolezza delle complessità della nostra vicenda nazionale – nazionale sarda e nazionale italiana –, analista di storia contemporanea, materia su cui si è laureato all’Alma felsinea, combinando nella sua giornata lo studio a mille letture di vasta gamma – fumetti compresi –, il mestiere competente (come operatore di negoziazioni import/export) a cadute dolorose – figlie dei tempi – nella precarietà lavorativa, fino ai ricicli professionali adesso nell’area siderurgica, ed alla partecipazione ora ai blog intelligenti o alla redazione dell’aperiodico ”Su Bandu” (Reports in ProgReS) ora alla testimonianza civile e umanitaria nelle attività di Amnesty International, ora ai salutari dibattiti di approfondimento e confronto sui temi dell’identità fuori dalle asfissie salottiere dello sterile compiacimento nazionalitario. Nel mezzo delle traversate, anche un master in archivistica e biblioteconomia, ed uno più recente, un master faticoso e gioioso in paternità domestica: «Vorrei che un giorno mia figlia potesse attraversar la Sardegna in lungo e in largo sentendo nelle orecchie le storie che il babbo le avrà raccontato da bambina e che fosse investita dalle emozioni che la nostra terra sa far provare», mi ha confidato alla vigilia della nascita della piccolina, in coincidenza con l’uscita del… terzo numero di “Su Bandu”…

Pressoché in quello stesso periodo mi ha scritto: «Noi disterrati siamo un’isola felice perché pur discutendo troviamo sempre una linea comune e accettata dalla maggior parte di noi».

Insisto un attimo ancora sull’autore per arrivare al libro: lui figlio di un sottufficiale dell’Arma morto ancora giovane, scelse di emigrare – come altri familiari ha fiondati fra meridiani e paralleli (Africa equatoriale compresa) – che era ancora un adolescente: prima destinazione, come ho accennato, il bagno cosmopolita nella grande Isola per lunghi secoli ombelico del mondo – dalla piccola Sardegna alla Gran Bretagna – e campo di lavoro uno utile a consentirgli di costruire un profilo relazionale, ambizione ed arte insieme, e di macinare esperienza d’adulto da maturare poi in alcuna fra le maggiori città d’Italia – la capitale, soprattutto Milano – a contatto per lunghi anni con i continenti, operatore di import/export – e anche Bologna la dotta. Una università di lungo corso, tutta materiata di relazioni, di interfaccia stimolanti come pochi, con i docenti dell’Alma, infine la tesi di storia contemporanea sul caso P2 e la Sardegna. La militanza, con altri giovani sardi di residenza (di studio e di lavoro) a Bologna e in altre città del centro e del nord Italia, nelle formazioni indipendentiste, ma – debbo ripeterlo perché fa la differenza – nel respiro arioso dei valori universali di democrazia, giustizia e libertà, quelli che sono stati anche della resistenza antifascista, non nelle chiusure nazionalitarie a rischio sempre di sprofondamenti nella reazione sciovinista per contabilizzare le differenze e le distanze invece che le prossimità ed i ponti. Il gusto per la letteratura italiana e straniera di filone americano ed europeo, coltivato sempre anche nella condivisione di sperimentazioni scrittorie, brillanti a mio avviso, efficace espressione non soltanto di un background fantastico ma anche di un’abilità miscelatrice di quadri di vita zampillati da luoghi e tempi assortiti che di più non potresti . Gioca in questo il suo rimando identitario, già da venti e quasi trent’anni, il giudice bandito, quell’Itzoccor Gunale, il sardo resistente dell’Apologo di Sergio Atzeni, così ben studiato e trattato anche in un convegno, or non è molto, di critici italianisti.

Belle recensioni ho letto – e non mi aggiungo oggi (il mio avendolo fatto a suo tempo, quando provava, l’autore, a trovare personaggi e modalità narrativa, e semmai riservandomi di intervenire in altro momento) – su questo libro di Franco Arba: Dicono che domani ci sarà la guerra recupera motivi da un vasto arco di opere di scrittori italiani – il Lussu di Un anno sull’altipiano per primo – e continentali europei. Inserisce le vicende personali e familiari del protagonista nella successione dei quadri che dalla guerra combattuta vanno alla smobilitazione e/o all’impresa dannunziana di Fiume, al primo fascismo delle squadre, e al secondo del regime preparato dall’assassinio di Giacomo Matteotti.

Compaiono nella scena minima anche i protagonisti delle scene grandi: il Capitano, arrestato e mandato al confino, e Babbu mannu, orientato ad altro ufficio, purtroppo, negli anni della dittatura, come a demolire ogni sua autorevolezza morale conquista in guerra. S’affacciano le operazioni di clandestino contrasto alla dittatura, anche in paese, nel piccolo paese, e s’affacciano gli eroismi e gli opportunismi, i calcoli di convenienza e le miserie più assolute dell’anima umana che non crede a nulla: ne è emblematica rappresentazione la figura di Fabio Guerrini, podestà sempre fedele al regime, “su malaittu” rovina famiglie e ingordo di violenza …

Fugge il Capitano dal confino, sceglie l’esilio dalla patria al confino nella patria… «Lo venni a sapere da un sardista di Cagliari, un portuale con cui avevo partecipato a diversi scontri contro i fascisti. Lo incrociavo spesso la domenica, ma per evitare ogni ritorsione non ci rivolgevamo la parola»… Ucciso Salvatore Cugurra il resistente, lui Enrico che tenta anche lui l’espatrio, che si congeda dalla donna che lo ha reso padre ma gli è stata poi rubata, in conto di futuro, proprio dal suo peggior nemico. L’epilogo fisico nel 1931. Un altro epilogo – questo morale – nel 1943, fra il 25 luglio e l’armistizio settembrino. Ormai ventenne, il figlio di Enrico conosce allora, dalle pagine del quaderno di appunti del padre, un’altra storia, diversa da quella che gli era parso di aver vissuto fino ad allora.

Ci riporta, il libro di Franco Arba, dentro il nostro vissuto nazionale del quale si va perdendo memoria. Purtroppo le giovani generazioni non sembrano esser messe in condizione di conoscere e tanto meno di comprendere la storia dei loro avi, perfino degli avi più recenti, la storia delle comunità da cui anche le loro famiglie vengono. Famiglie che godono, e tante volte sprecano, i risultati del lavoro morale e materiale di quelle trascorse genealogie morali, non soltanto sociali.

 

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