La liberazione del 25 aprile 1945 e la Massoneria sarda, di Gianfranco Murtas

Si materializza nella data del 25 aprile lo spirito pubblico dell’Italia che aveva sperato nel rovesciamento del destino che la guerra nazi-fascista prefigurava per essa: perché se ci fu possibilità di un nostro riaccredito – e fu impresa difficile – nel complesso gioco politico internazionale dei finali anni ‘40, ciò fu reso possibile dalla dignità e dal sacrificio di quei tanti, progressisti e moderati, monarchici e repubblicani, civili e militari che dalle classi sociali più diverse parteciparono, con iniziativa spontanea o concordata con gli eserciti alleati, al moto di liberazione, pensando a sé e al futuro delle nuove generazioni, forse taluno pensando anche al passato, all’onore da restituire all’idea patriottica non patriottarda, nazionale non nazionalistica, dell’Italia com’era stata disegnata nel risorgimento, e pur mai compitamente realizzata negli istituti di libertà e democrazia partecipativa.

Nel 70° anniversario di quella che fu una conquista popolare e gettò le basi per la repubblica e la costituzione, può essere interessante scoprire – attingendo ai documenti – come visse quell’evento o quella stagione un corpo morale e di dottrina umanistica come la Massoneria giustinianea, che era passato per i rigori della dittatura dopo che per gli incendi e le devastazioni delle sue sedi da parte degli squadristi nel 1923-24, e anche per  gli assassini in quella stagione di preparazione del peggio, patendo il confino di polizia per l’ultimo suo gran maestro (fino quasi alla morte precoce, intervenuta nella pena supplementare della cecità assoluta) e che anche in Sardegna aveva subito offese e persecuzioni dei suoi migliori.

Il 25 aprile 1945 funzionavano nell’Isola due sole logge, a Cagliari la Risorgimento – che aveva riunito artieri già giustinianei e artieri provenienti dall’Obbedienza scozzese di Piazza del Gesù – ed a Sassari la Gio.Maria Angioy: piuttosto ecumenica, sotto il profilo della sensibilità (anche civica e culturale) diffusa fra le Colonne del Tempio, la Fratellanza del capo di sotto – Valle del Mannu e del Flumendosa –, piuttosto radicata su una pianta ideale democratica e mazziniana (con molte espansioni nella militanza sardista) quella settentrionale nella Valle del  Bunnari e del Turritano (queste le dizioni formali di rimando geografico).

I ritrovamenti degli archivi della ormai demolita Risorgimento e la generosa disponibilità della ancora vitale loggia Angioy ad offrire i materiali per il riordino e la pubblica fruizione (all’interno delle sacrosante regole affermate dalla vigente legislazione sulla privacy personale nelle aziende e nelle associazioni), consentono  di guardare nel concreto documentato al sentimento della Libera Muratoria sarda là al capolinea della dittatura e della divisione anche territoriale della patria.

A Cagliari la tornata del 26 aprile 1945 non ebbe ancora modo di affrontare la questione, per la parzialità delle notizie che – dai giornali o dalla radio – giungevano circa la liberazione delle maggiori città del nord padano. Trattò ancora infatti di questioni interne, del rapporto che si cercava di instaurare con l’autorità massonica nazionale, di quanto andava profilandosi circa la ricomposizione della frattura registratasi nel 1908 (quando una parte del Supremo Consiglio del Rito Scozzese Antico e Accettato aveva affermato la propria esclusiva autorità “apolitica” promuovendo un circuito nazionale di logge alternativo dettosi poi di Piazza del Gesù), di modalità di proselitismo ecc.

Può essere interessante aggiungere che fra i nuovi partecipanti, quel giorno, furono anche due Fratelli militari con molte stellette , Francesco Sanna della Guardia di Finanza e Domenico Salvago del Regio Esercito (grande invalido, sarà a lungo direttore del distretto militare cagliaritano e Venerabile della loggia), e un terzo artiere della generazione prefascista – l’enotecnico Enrico Zedda Cocco, figlio di massone e fratello di massone: meglio di un massone ancora detenuto nel campo burgundo di Flossenburg e prossimo alla morte (ne abbiamo ora le spoglie nel nostro monumentale di Bonaria).

Fu invece venerdì 4 maggio che la Fratellanza locale ebbe possibilità di esprimersi sullo stato politico-militare del paese, derogando evidentemente – né sarebbe potuto essere diversamente – dall’obbligo costituzionale di non trattare, in occasione di lavori rituali, materie né politiche né religiose in quanto suscettive di produrre, nella contingenza data, divisioni e opposizioni. I Fratelli si dettero convegno nella villetta di Umberto Campagnolo – altro massone figlio di massone, lui anche impegnato in politica fra i liberali del PLI crociano – nel viale Trento, finestre verso il teatro Massimo da una parte, sul campo sportivo di via Pola dall’altro.  Anche stavolta si trattò di sistemazioni interne, di ipotizzati ampliamenti dell’organico con l’affiliazione di diversi bosani , fra i quali il Fratello Melkiorre Melis, il celebre pittore/incisore che da giovane ancora fresco di iniziazione aveva montato la guardia armata a palazzo Giustiniani, nel 1923, contro i periodici attacchi fascisti. Altri furono proposti – fra cui il professor Sebastiano Atzeni, altra eccellenza della scuola sarda – per la iniziazione. Una decina i partecipanti.

Presiedete l’anziano Venerabile Federico Canepa Flandin (sarebbe passato presto all’Oriente Eterno e sarebbe stato  sostituito da Alberto Silicani, il giornalista di radici social-riformiste e fede evangelica che aveva firmato sull’Unione Sarda del gennaio 1921 la cronaca della scissione comunista di Livorno e poi le aveva patite tutte dal regime per venti anni interi, a cominciare dal licenziamento dal giornale fattosi intanto fascista). Anch’egli – Canepa – aveva dovuto contabilizzare, negli anni ’20, le opportunistiche diserzioni dalla loggia, come altre ce n’erano state, di diserzioni e conversioni, dai partiti e dai sindacati, dalle associazioni e dalle cattedre, dalle stesse parrocchie, e aveva mantenuto negli anni delladittatura una personale posizione riservata, unendosi all’indomani dell’armistizio a Gavino Dessì Deliperi nella amministrazione cittadina.

Questo il suo discorso come riferito dal Verbale(«tavola architettonica») manoscritto:

«Fratelli! Non con l’idea di trattenervi con un discorso, oggi vi parlo, ma col proposito unico di lasciare segno nelle Tavole di questa Officina del grandioso evento che si è maturato alla fine di aprile. L’Italia è liberata tutta: Mussolini ed i suoi accoliti trucidati; il fascismo termina rivelandosi per quello che era: una immane vescica gonfia di sicumera e di prosopopea. Non c’è stata scintilla di eroismo o trasporto epico nella figura d questo dittatore da operetta, il quale, dopo aver tenuto sotto il proprio tallone l’Italia tutta per oltre un ventennio, dopo aver assunto atteggiamenti da palcoscenico, dopo aver fondato un foro ed intitolata una città al suo nome, dopo essersi illuso di aver creato un Impero, un modo di vivere e persino un’era della storia, pervenuto all’ultimo atto della tragedia, quando tutto crolla, quando il mondo intero lancia il suo terribile atto d’accusa, non va a spararsi il classico colpo alla tempia ma si fa catturare come un volgare malandrino.

«Esaminando la fine di quest’uomo, noi massoni dobbiamo trovar una ragione di compiacimento nel fatto che giustizia sia stata compiuta in maniera così rapida e sbrigativa. I patrioti del Comasco hanno reso un servizio all’Italia condannandolo per direttissima ed evitando un processo lungo, penoso, asfissiante, che non ci avrebbe in nessun modo avvantaggiato, suscitando magari nel popolo un forte risentimento per la nostra proverbiale lentezza.

«Troviamo altresì motivo di compiacimento nel fatto che il sacrificio dei nostri più illustri Fratelli Capello, Zaniboni, Torrigiani, Bacchetti, Bacci, Ballori e gli assassinati di Firenze nella famosa nuova notte di San Bartolomeo, sezionati e gettati nelle fogne, stanno a dimostrare al mondo che l’avversione della Massoneria al fascismo era visione lampante della umiliazione della personalità umana degli italiani, della coartazione della tradizionale libertà, della offesa ai nostri più puri sentimenti. Intuiva, l’Ordine, il gioco d’azzardo del fascismo ed intuiva il sicuro disastro avvenire. I fatti l’hanno dimostrato. Giustizia è stata resa ed al momento opportuno, dalle massime Autorità dell’Ordine tutta la procedura sarà messa in rilievo e portata a conoscenza di tutto il popolo italiano.

«La fine di Mussolini e dei suoi accoliti costituisce un monito ed un avvertimento:k ricorderà a chiunque nutrisse velleità sopraffattrici che la dittatura è un pericoloso esperimento, specie in suolo italiano, dove gli abitanti possiedono una personalità ed un giudizio critico troppo marcati ed ove la libertà vanta una secolare tradizione, perché sempre fu scuola e campo d’azione della Carboniera prima, e della Massoneria in prosieguo.

«Termino il mio dire con un augurio: che il popolo italiano comprenda che deve ora seguire la strada maestra, cioè quella del lavoro, della libertà, della giustizia, col concorde contributo di tutti indistintamente i cittadini. Così operando non vi è dubbio che l’Italia potrà riguadagnare nel mondo il posto perduto. Questa, o Fratelli, dovrà essere l’opera e lo sforzo che noi massoni dobbiamo compiere in questo momento…».

Sarebbe interessante – affaccio qui una idea flash per chi avesse interesse allo studio della formazione dello spirito pubblico – compulsare la stampa del ventennio, metti anche L’Unione Sarda dei Sorcinelli a dominio pieno del PNF, e vedere quante volte e in quali circostanze, e in quale modo, il dileggio della soppressa Massoneria “Sinagoga di Satana” è tornato, con evocazioni di pericoli dichiarati incombenti sull’ordine costituito. Ne ricordo (magari soprattutto ai dogmatici della dietrologia) un caso degli ultimi, nel pieno della guerra. Il 5 settembre 1942, in chiave di ridimensionamento dei meriti storici risorgimentali: «la Massoneria cercò d’intrufolarsi da per tutto e, per piantare più profonde basi nel nostro Paese, assunse una maschera patriottica, cercando con tutti i mezzi di amalgamare le sue continue rivoluzioni settarie europee per raggiungere scopi internazionali giudaici, anticristiani, con i nostri sforzi patriottici…».

Il calendario delle tornate rituali della sassarese Gio.Maria Angioy fissò al 6 aprile 1945 la ripresa dell’attività e soltanto in autunno il ritorno alla ordinarietà dei lavori. E dunque il sentimento democratico (e antifascista) sarebbe da cogliersi nel documento  di «risveglio» e «ricostituzione» ad iniziativa di una decina di artieri: Annibale Rovasio, Giovanni Boeddu, Menotti Campra, Renato Lay, Gavino Dore, Giovanni Manazzu, Giuseppe Masala, Paolo Camboni, Paolo Lombardi, Lodovico Congiatu. Chi conosce la storia civile, amministrativa, professionale di Sassari ben può collocare ciascuno di questi nomi in un ambito preciso del mosaico pubblico cittadino e provinciale .

Dalle unità d’archivio, ma anche soltanto dalle più accessibili collezioni dei giornali è possibile recuperare traccia del progressivo antimassonismo presente nella vita sassarese e nella voce dei nuovi padroni (o candidati padroni) della scena che un quarto di secolo dopo avrebbe conosciuto il contrappasso. Fra il molto, anzi moltissimo altro, citerei al riguardo quattro righe de Il Giornale di Sardegna – organo dei fasciomori (cioè dei sardisti passati al fascismo) – del 30 dicembre 1923: «Certo sor Rovasio, noto capoccione della Loggia Massoneria di Sassari, il quale da qualche tempo a questa parte si è baldanzosamente collocato capintesta dell’antifascismo sassarese, va travasando ora su La Voce Repubblicana ora su La Nuova Sardegna il sugo di certe sue trovate filosofiche… che levati!»: propostosi come l’anti-Pili  del capo di sopra, «padre spirituale dei combattenti di Sardegna e spazza camorre infaticabile», «queste cose il sor Rovasio potrebbe contentarsi di contarle ai Venerabili fratelli nel segreto del Tempio, chissà che quei maestri del ben vivere non finiscano per crederci davvero! A noi no!».

Ventidue anni dopo il Venerabile Rovasio – medico psichiatra nella vita civile – presiede il rinnovato incontro dei massoni sassaresi, o di alcuni d’essi, e mette in votazione il documento che vale come carta identitaria della Libera Muratoria . Eccolo:

«La R.L. Giommaria Angioy di Sassari nell’atto della sua ricostituzione mentre riafferma i principi di libertà-Fratellanza ed Uguaglianza universale, e ricorda con orgoglio di avere sempre durante tutti i venti anni di vergognosa Tirannide fascista mantenuto intatta la propria compagine ed il collegamento con la maggiore parte di FFrr. di loggia con le forze antifasciste clandestine, ed i avere sempre tenuto viva la lotta contro il fascismo, deplora che in questo momento l’unità Massonica Italiana non sia stata raggiunta nella comunione di una unica Famiglia, e fa voti perché ciò avvenga al più presto, nell’interesse dell’Ordine…

«La R.L. Giommaria Angioy proclama che ormai per la ricostituzione e l’avvenire di una Nuova Italia veramente Democratica, non vi possa essere che la forma di Governo Democratico Repubblicano. In obbedienza a questo principio ad unanimità stabilisce che ogni nuovo iniziando alla Fratellanza Massonica debba fare una dichiarazione di Fede Repubblicana…».

 

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