Omaggio a Giorgio Melis, cronista ed interprete dei fenomeni sociali e politici della Sardegna nel nostro tempo, di Gianfranco Murtas
Dalle tribune della carta stampata ed on line (L’Unione Sarda e La Nuova Sardegna, Sardegna Autonomia, Il Giornale di Sardegna e L’altra voce) ai programmi di approfondimento e dibattito in televisione.
Stavo buttando giù qualche riga per richiamare la memoria, o una memoria tutta sarda, di Indro Montanelli ed ecco giungere la notizia della scomparsa dolorosa di Giorgio Melis (ed oggi, ho saputo, anche di Gianni Massa, altra eccellente personalità del giornalismo isolano). Ho quindi avvertito il crescente bisogno di portare anche io, per modesta che sia, una testimonianza personale, di aggiungere agli altri un altro fiore partecipativo. Sicché eccomi ad offrire adesso qualche flash su una vita intensa e impegnata, bella e combattuta lungo stagioni e in luoghi tanto diversi eppure tutti nostri, fra complessità da attraversare e comprendere per raccontarle, in una logica o con un obiettivo certo di avanzamento della coscienza sociale, dello spirito pubblico, della intelligenza politica, contro il qualunquismo e addirittura le barbarie sempre ritornanti.
Giorgio Melis: pianta spontanea, sincera e, per merito proprio, affinata, raffinata anzi, di quella Cagliari che negli anni ’30 inoltrati cresceva nel più dinamico dei quartieri cittadini – Villanova – e cercava ponti però con altre realtà che, dopo la guerra soprattutto e nei successivi anni ’50, prendevano consistenza: lui orientato verso la periferia est oltre Bonaria, verso quell’intrico rionale che allignava lungo la direttrice della via Milano, e teneva lo stadio Amsicora nella considerazione propria di una cattedrale. Negli anni di Piola allenatore del Cagliari, o subito dopo lui.
L’azienda di famiglia, un panificio nella via San Lucifero, nella parte più alta di quella strada che era un viottolo longitudinale che sbucava nella via Garibaldi e dava le spalle a «sa prazza ’e Piovanu» (da lì il nome della longitudine: «sa contonara ’e Piovanu», così ben descritta dal nostro Francesco Alziator il quale ne riassumeva l’umanità – da Bacaredda in qua – combinando popolani poverissimi, e direi anche capi della Guardiania di Sant’Efisio e giovani campioni di ciclismo, canotaggio e tiro a segno…), raddoppiava in via Arezzo e concedeva, o suggeriva, dunque al ragazzo migrazioni non soltanto d’esplorazione ma anche sociali, di consuetudini amicali, dialettiche e… predicatorie. Bisognerebbe riportare la mente visiva a quelle due porzioni cittadine, ed a quel tempo lontano da oggi ormai mezzo secolo e più. Direi anche agli odori di quella città di mezzo secolo fa, agli odori e ai tepori di quel pane ancora caldo di fuoco che i Melis fornivano alle rivendite di mezza città, e alle Opere pie, perfino al Conservatorio della Provvidenza a Castello, marcando, con l’effluvio più virtuoso che si potesse immaginare, i percorsi della distribuzione, oppure servivano al banco, di lato al forno, i bambini (come me) mandati dalla madre a «far la commissione» in vista del pranzo familiare.
Acquistava nuova vitalità anche commerciale la piazza Gramsci – quel triangolo di aiuole alberate così ribattezzato dall’amministrazione Pintus, in sostituzione del titolo che il regime aveva riconosciuto a Babbu mannu, al generale Carlo Sanna, un grande della grande guerra persosi poi nella miserabile presidenza del Tribunale Speciale più ingiusto che potesse (e possa) immaginarsi; a scendere dalla via Eleonora , quasi in verticale dall’apice di «sa contonara ‘e Piovanu», erano allora soprattutto le abitazioni civili del cosiddetto quartiere Cappai, a far corona al palazzetto, poi abbattuto, dove aveva vissuto per oltre un anno, fino al matrimonio, Grazia Deledda; oltre la via Sonnino, oltre il macello e fino alla parrocchia secentesca ed alla casa del clero, dirimpetto alla piazza della chiesa che raggiungeva il monumento delle Rimembranze, era quel complesso immobiliare da cinquant’anni proprietà della curia con dentro il teatrino ormai consumato di don Mosè e la scuola già del circolo Giuseppe Manno, e ancora vitale la tipografia San Giuseppe con la redazione de Il Quotidiano Sardo diretto da don Giuseppe Lepori, erede indiretto della storica La Sardegna Cattolica del canonico Lai Pedroni, a sua volta rilancio, pur in regime già di dittatura, di quel Corriere di Sardegna la cui sede di via Cima era stata incendiata dai fascisti alla fine del 1926. Aria di giornale in via San Lucifero: chissà se e quanto avrà suggestionato le fantasie e i progetti del bambino, dell’adolescente vicino di casa, che avrebbe progressivamente messo a fuoco la sua vocazione di cronista.
Ma c’era allora, ho ricordato, il terminale domenicale, quello sportivo, che mobilitava in un sentire comune la città intera, attorno al Cagliari ancora in serie B, per due anni caduto in C, risalito poi di rango con Carlo Rigotti e portato da Silvestri-Sandokan, in soli tre altri campionati , ai fastigi della A. Il professor Giorgio Melis – voce bassa ma insistente – diceva la sua, ed era parola autorevole, quasi definitiva e quasi vangelo, sul prima e sul dopo di ogni partita giocata all’Amsicora, e anche di quelle giocate in continente. (Non sarà un caso che le vicende del Cagliari – non quelle strettamente agonistiche però – siano ritornate spesso negli scritti ultimi, on line, di Melis notista e interprete sociale: dai tormenti del parastadio di Is Arenas malamente benedetto dall’arcivescovo Miglio, o da quelli di Buoncammino e delle improprie visite al presidente Cellino, alla brillante proposta di qualificazione di Gigi Riva quale “sardus pater”).
I Melis avevano dunque aperto un secondo panificio proprio in via Arezzo, traversa della via Milano e sopra la nuova area fieristica, ed al bar Milano era consuetudine che gli amici – quindici o venti ventenni , poco più poco meno e il numero e l’età – dovessero ogni volta confrontare le opinioni, le analisi tecniche e spettacolari della partita. Per le gare giocate fuori casa, la scienza derivava dalle cronache della radio (dal 1959-60 «Tutto il calcio minuto per minuto», con Carosio, Ameri, Ciotti, ecc. che però doveva trattare soprattutto della A) e da quelle del gettonatissimo L’Informatore del lunedì a direzione Porru e, qualche non rara volta, dell’altra stampa specializzata, romana o milanese, Gazzetta o Corriere, ed anche Guerin Sportivo, il giornale di Gianni Brera che aveva dispaludato il linguaggio sportivo e avrebbe presto amato il Cagliari e san Gigi Riva con tutto il resto che la Sardegna offriva di autentico allora. Per gli incontri disputati all’Amsicora le ragioni e gli argomenti, certamente più abbondanti, venivano dalla diretta cognizione dello spettacolo goduto per intero dai muri di cinta,se impossibile era stato raggiungere le gradinate sui fianchi lunghi del campo. Perché ogni volta la banda dei portoghesi doveva misurarsi con se stessa, cercando di dribblare le difficoltà d’accesso ai cancelli, magari blandendo i cerberi del biglietto.
Nessuna consumazione, o qualche rara bibita nella stagione migliore, al bar Milano, l’agora pressoché quotidiana s’accendeva per la gloria (o la… vergogna) di Pantaleoni e Santarelli, Reverechon e Ghersetich, Persico e Simeoli… e magari di Bertola (e poi Colombo) e Serradimigni, Congiu e Crovi, Tiddia e Longo, Gagliardi ed Hellies, Torriglia e Vescovi… insomma, per il giudizio passionale, e invero sempre parziale, che investiva le prestazioni di giocatori locali e “stranieri” sopra quel rettangolo di terra battuta amata come poche altre in una città dalle strade non tutte ancora… asfaltate. Richiamati dalla concitazione del dibattito, ma certo anche dall’intelligenza dei ragionamenti e delle sentenze che ne zampillavano, i residenti della zona facevano essi, allora, da spettatori a questi altri giocatori-tribuni, avvocati e pubblici ministeri d’una corte priva di presidente. Pensavano loro alle consumazioni nel frattempo, per la soddisfazione finale del barista che incassava per aver ospitato il processo.
Né, in verità, soltanto del Cagliari si discuteva, ma anche del maggior campionato ancora non conquistato dai rossoblu,e degli squadroni delle grandi città, dei supergiocatori della Juventus e del Milan, o dell’Inter e del Bologna o della Nazionale… Il calcio unisce e divide, ma nell’agora i motivi di divisione erano certamente minori di quelli che compattavano, che materializzavano il cor unum identitario della tifoseria, quello che integrava il senso di appartenenza alla città che sboccia già, naturale e per infantile imitazione, nella prima età di tutti quanti noi…
Col tempo era divenuta, la via Milano, sempre più il luogo di elezione di Giorgio Melis, che ascoltava e parlava in doppio registro, concedendosi agli amici, nella occasionale conversazione senza tema e fuori calendario calcistico, sempre più e meglio rivelandosi anche in una gamma sorprendente di attitudini che forse iniziavano a far presagire quel certo suo futuro al giornale. Curioso perfino dei dettagli, capace di risalire, per processo induttivo, da un particolare a un’idea complessiva dell’evento, soggetto o luogo chiamato all’esame.
Anche altro entrava, naturalmente, nella consuetudine degli amici. I quiz giocati, come a replicare Lascia o raddoppia?, sui gradini di Bonaria, con tanto di presentatore/interrogatore e di squadre in competizione. E lì chi a preferire di misurarsi sulla storia o la letteratura, chi – come Giorgio – a puntare su altro, magari sul vocabolario ed i dettagli semantici dei lemmi, le pertinenze o meno dei sinonimi. E d’altronde l’appassionata lettura delle opere di Hemingway – citatissimo dal futuro columnist che si caratterizzerà per la nitidezza e linearità della sua scrittura – proponeva, ad ogni titolo, la questione del linguaggio semplificato e rapido, capace però insieme di prendere il lettore e portarlo, con l’autore, nello sviluppo graduale del fatto o della emozione trionfante nella pagina.
Quel ragazzo sedici-diciottenne, ventenne e più, soltanto con gli amici della partita pareva rispondere con gusto , maturando con l’età (e al netto delle simpatie e frequentazioni sentimentali, amministrate con una signorilità da manuale), al suo crescente bisogno di protagonismo civico, chiamalo così: perché le materie di conversazione erano svariate e non si limitavano allo sport, benché poi lo sport non sia mai cosa da ritenersi avulsa dalla vita, tanto più non lo era in una città di provincia quale si presentava la Cagliari degli anni ’50. Sindaco Mario Palomba, dopo il settennio di Pietro Leo, nell’amministrazione uomini come il professor Mario Floris, come Brunello Massazza, come Luigi Fantola, come Bonaccorso Fontana, totem della Democrazia cristiana a patrocinio vescovile, nella lunga e feconda e discussa stagione di monsignor Paolo Botto.
Proprio in quel territorio da Bonaria o dai costoni di Monte Urpinu declinanti dal sanatorio verso i capannoni fieristici, Monte Mixi e lo stadio, e proprio allora, molto era stato messo in movimento, giusto dall’arcivescovo onnipresente e onnipotente, con il lancio della nuova parrocchia di San Pio X, affidata a un grande prete quale è stato don Ottavio Cauli, colto, determinato ed organizzatore… L’assemblea del bar Milano fu allora tutta presa anche da quest’altra novità, che intersecava il sacro col profano: sì, mischiava il giudizio sul modulo di gioco all’Amsicora con le intese, più o meno convinte, circa il graduale distacco dai circoli di Azione cattolica ben combinati, coi tavoli da gioco e la filodrammatica, dai padri mercedari in vista del trapasso canonico verso la collina calcarea allora ad alto sviluppo edilizio, fra le palazzine del cosiddetto Piano Fanfani (dette poi INA casa) e le aule della Randaccio, fino agli ineunti cantieri della nuova scuola media (che, derivando da quella di via Eleonora – a un passo da «sa contonara ’e Piovanu» – , sarebbe stata infine inaugurata nel 1963) e la sede provvisoria della nuova parrocchia…
A proposito di Chiesa e chiese. Non so se sbaglio, ma da piccolo cagliaritano/villanovese Giorgio dovrebbe aver frequentato, negli anni delle elementari, l’Opera parrocchiale di San Giacomo, al tempo sotto il grande mantello di monsignor Ignazio Piras, venerata tempra di sacerdote all’antica. Forse lì aveva esercitato da chierichetto e s’era coinvolto nel teatrino o nei campi da gioco che, più gettonati per la pallacanestro o la pallavolo, cedevano di tanto in tanto ai bussi del calcio. Tutto era in preparazione – come nella vita sempre tutto è in preparazione a quello che viene dopo – agli slanci adolescenziali che avrebbero significato per lui la “conquista” del territorio nuovo e quella delle nuove relazioni sociali, amicali, molte delle quali destinate a durare una vita.
Insisto che bisogna vederla così, per capirla, la città o quella porzione di città nella quale Giorgio Melis aveva messo la residenza delle sue passioni, muovendo dal panificio-bis della via Arezzo e allargando in zona alla rete delle nuove parentele o delle nuove attività lavorative dei grandi di casa, alle relazioni pur mediate con gli Zanolla e i Casula e altre dinastie benemerite, con tutt’attorno l’ecumene dei Calabresu, dei Savastano, dei Sessego, ecc. bella gioventù del capoluogo in rigoglio. La città, o il pezzo di città in trasformazione continua ed accelerata, sia fisica che sociale, fra quegli umori urbani e popolari e… corporativi (anche di ferrovieri o dipendenti municipali), e piccolo borghesi di via Milano e via della Pineta, costituiva l’ambiente ideale per la maturazione di un carattere meditativo ma bisognoso anche di concludere, di scegliere il campo, o di fare il campo: un muso indagatore, come altri ce n’erano in quella porzione di città, nella nuova generazione venuta su nel drammatico ridosso della guerra perduta, ma con un obiettivo – il giornalismo – che in Giorgio andava facendosi sempre più chiaro come una vocazione vera. Perché sarebbe ancora maturato quello spirito esplorativo capace sempre di avviarsi alle sintesi, a capire la sostanza delle cose, negli umili e faticosi anni della ricostruzione, lungo quel decennio cui non si sono mai dati i riguardi concessi invece ai luminosi anni ’60 del consumismo domestico e della prima secolarizzazione del costume. Un capoluogo-fisarmonica, il nostro, che aveva perso tutti i suoi abitanti e poi li aveva ripresi a flussi graduali e a tratti però incontenibili, allestendo dentro il suo perimetro micro città d’emergenza,a macchie di leopardo, meraviglie per un film neorealista, ora a San Bartolomeo o all’Ausonia, ora a San Benedetto o a su Baroni, a Is Mirrionis o perfino a Tuvixeddu… e inventando poi i quartieri nuovi – da San Paolo alla Fonsarda (Is Stelladas), dall’Amsicora stesso a La Palma – chiamati a riempire progressivamente le grandi direttrici urbane.
Di quella città che prendeva nuovi assetti, in parte replicando quelli precedenti i bombardamenti, in parte osando il nuovo, le possibili espansioni moderniste, Giorgio Melis adolescente o giovanissimo, pendolare fra la via San Lucifero e la via Arezzo, fra Villanova e Bonaria, Monte Urpinu o l’Amsicora, era con i suoi coetanei, di lato agli impegni dell’istituto tecnico, un perlustratore per mestiere di curioso ma a vocazione di cronista, fino ad divenirne interprete accurato e pertinente , sulle righe.
Fu pressoché in quegli stessi anni, per lui ancora di formazione, che L’Unione Sarda ampliò la sua sede e cambiò i macchinari dopo aver cambiato il direttore. Al posto dell’anziano conte Spetia, arrivò 33enne (e bella famiglia in divenire) Fabio Maria Crivelli, pure lui spirito insieme meditativo ed esplorativo, accompagnato nella sua nuova avventura cagliaritana da due guide impareggiabili quali furono Antonio Ballero e Francesco Alziator. Si sarebbero incontrati non molti anni dopo, l’ancor giovane direttore romano di Capodistria e il peripatetico ventenne cagliaritano, che aveva sognato di fare il giornalista e che, entrato nella grande famiglia de L’Unione, avrebbe associato – non subito però – il compito di redazione a quello di corrispondente del maggior quotidiano romano, Il Messaggero.
Se ne potrebbe dire e si potrebbero raccogliere le maggiori corrispondenze di Giorgio Melis apparse, nella seconda metà degli anni ’70, sul giornale di proprietà dei fratelli Perrone. E valga qui una digressione… ambientale. Va ricordato che,nell’Isola e a Cagliari, una quota della grande stampa aveva avuto una sua presenza stabile e piena per lunghi anni, lunghissimi quelli de Il Giornale d’Italia,perché rimontante addirittura agli anni ’10 prebellici: continuava, oltre il ventennio, nel secondo dopoguerra e ancora in tutti gli anni ’60, il quotidiano che era stato di Bergamini, ad offrire al suo affezionato pubblico sardo una brava pagina tutta isolana. Così aveva cominciato a fare, già dai primissimi anni ’50, anche Il Tempo. Insomma, due testate, entrambe romane ed entrambe a presidio di aree moderate in bilanciamento dei notiziari inviati da Giuseppe Podda e dagli altri a l’Unità. Quando Melis cominciò la sua collaborazione a Il Messaggero, quella bella stagione era però, anche se da pochissimi anni, già finita. Restava Il Messaggero, con una ricca foliazione di grande formato e una bella grafica ariosa, che rimaneva nelle preferenze dei non pochi capitolini sistematisi, per ragioni soprattutto professionali, a Cagliari. Esso era, è, una testata con dieci anni più de L’Unione Sarda, e il vanto di tradizioni laiche consolidatesi già all’indomani della morte, in faccia al Tevere, dei due grandi avversari, Pio IX e Vittorio Emanuele II. (Può essere singolare, a voler trovare sempre spunti di relazione, che fin dal suo esordio quel quotidiano dette spazio rilevante alle cronache processuali che ebbero a protagonista, povera vittima d’un delitto, proprio un sardo: il capitano Fadda,abbondantemente biografato, allora, anche dal nostro L’Avvenire di Sardegna e di cui scrive brillantemente l’ultimo numero dell’Almanacco di Cagliari). Il giornale – Il Messaggero – era passato, all’indomani del secondo conflitto mondiale, alle cure di uomini di mestiere come Mario Missiroli ed anche, dal fronte ideale opposto, di Mario Pannunzio ed Arrigo Benedetti, che dalle file liberal-radicali avrebbero presto spaziato, con Il Mondo e poi L’Espresso, nell’edicola della grande stampa periodica. Nell’Isola si sarebbe riservato un pubblico (di stralcio romano) non vasto ma fedele .
Dunque… Il Messaggero (forse ancora sotto la direzione di Italo Pietra, già responsabile de Il Giorno, o forse appena passato a Luigi Fossati su una linea che si confermava social- progressista) e Giorgio Melis. La curiosità dov’è? A prenderla dal punto di vista strettamente cagliaritano, e più ancora a prenderla secondo gli umori relativamente recenti circa la visita di papa Montini in Sardegna, è che proprio Il Messaggero, perfino contraddicendo il senso delle cronache dei suoi inviati, era stato il giornale continentale che di più aveva strillato, sgangherato, sulla sassaiola diretta non certo al pontefice ma al seguito di protezione militare del pontefice. «Il Papa contestato», aveva titolato con pura invenzione, e in prima pagina, il giornale della capitale, forse ancora ferito per l’ottavo posto della Lazio e addirittura l’undicesimo della Roma nella classifica del campionato vinto ormai matematicamente dal Cagliari… Giorgio Melis, proprio lui che di più aveva criticato tanto semplicismo da parte dei suoi colleghi continentali a proposito di queste titolazioni sensazionalistiche, forse arrivava, anni dopo, come corrispondente proprio del giornale di via del Tritone, per pareggiare i conti morali e confermare che il papa era stato, ed era,rispettato e amato a Cagliari e in tutta la Sardegna.Un lustro di corrispondenze da Cagliari,press’a poco. Poi la rinuncia e il rimpiazzo con colleghi più giovani, d’indubbia valentia anch’essi: dapprima Giorgio Pisano, poi Marco Corrias, quindi Umberto Aime…
Arrivò al giornale, mi sembra, per quelle belle relazioni familiari che lo presentarono a Baccio Sorcinelli e lo mettevano – se clamorosamente non sbaglio – alla scuola di un maestro della penna come Mario Mossa Pirisino, al tempo ancora disputato dal giornalismo scritto e da quello radiofonico e anche da quello istituzionale alla presidenza della Regione. (Associo sempre il nome di Giorgio Melis – destinato anche lui pro tempore a un ufficio istituzionale, presso il Consiglio Regionale – a quello di Mario Mossa del quale Mauro Spignesi raccolse, nel 1992,una bella, anzi bellissima selezione di articoli e conversazioni al microfono della RAI, omaggio a un esemplare inviato nelle storie sarde di una certa parte del Novecento).
Davvero sarebbe giusto poter ricostruire la biografia professionale di Giorgio Melis. Non mancherebbero gli autori possibili, competenti, che raccontando di lui ben potrebbero ricostruire gli scenari pubblicistici ed editoriali che hanno costituito parte rilevante della vita civile isolana dell’ultimo cinquantennio (per L’Unione si pensi soltanto alla stagione dei Sorcinelli fino al 1970, poi di Rovelli e della sua petrolchimica, di Grauso infine dal 1985). Forse l’iniziativa potrebbe prenderla la stessa Associazione della stampa sarda, o l’Ordine, magari bandendo un concorso fra giovani ricercatori.
Quando entrò a L’Unione Sarda Giorgio Melis era prossimo ai 25 anni. Nelle modeste vivacissime stanzette del giornale aveva trovato, con il direttore Crivelli, alcuni fra i giornalisti migliori della Sardegna della seconda metà del Novecento, a cominciare a Franco Porru (vice direttore e direttore de L’Informatore) e Vittorino Fiori (capocronista). Della sua stessa stagione formativa e professionale era l’ancora attivo Giantarquinio Sini – figlio di tanto padre, il grande pittore-disegnatore, grafico e caricaturista (nonché geniale pubblicitario) Tarquinio Sini, caduto sotto i bombardamenti del 1943 –, per lunghi anni impegnato nelle pagine ora dello sport ora della cronaca (nera e bianca) cittadina, poi di tanto altro, fino alla vicedirezione del giornale.
Gli anni di praticantato sono gli stessi di approvazione e avvio della applicazione della legge di Rinascita, che coincidono anche con la svolta di centro-sinistra tanto a livello nazionale quanto a livello regionale (qui anche con il protagonismo del Partito Sardo d’Azione alleato dei repubblicani, prima delle sbandate od ubriacature nazionalitarie/nazionaliste). A scorrere l’albo professionale (dal 1960, salvo errore, stralciatosi da quello interregionale del Lazio)si trovano, affollati in tre o quattro anni in quanto a data d’ iscrizione, alcuni fra i più bei nomi del giornalismo giovane di quel tempo, da Antonio Castangia a Bruno Josto Anedda (indimenticato scopritore del monumentale Diario politico di Giorgio Asproni, destinato a passare dalle corrispondenze al Sole 24 Ore alla responsabilità dell’AGI, alla redazione di Radio Cagliari), da Alberto Pinna (protagonista della prossima scissione redazionale de La Nuova Sardegna e oggi editore della EDES) a Mario Guerrini, da Piercarlo Carta (corrispondente de Il Giornale d’Italia e poi direttore-fondatore di Tuttoquotidiano e di altri quotidiani e altre riviste) a Giuseppe Podda,da Lucio Artizzu ad Alberto Aime e, appunto ancora fra Cagliari e Sassari, Sini, Sirigu, Rubino ecc.
Primo “supplizio”, per Melis, la disponibilità ad entrare, come consigliere, negli organi dirigenti dell’Associazione della stampa sarda (presidente allora, e per più mandati, dopo il fondatore Aldo Cesaraccio, Enrico Clemente), in mix fra professionisti e pubblicisti.
La visita di Paolo VI a Cagliari. Credo che la stagione più esaltante, per Melis, come per molti altri, fu quella attorno al 1970, ed a mirare a un focus cittadino si potrebbe magari dire di quell’aprile in cui il Cagliari vinse lo scudetto e il papa Paolo VI visitò Bonaria e disse messa davanti a centomila sardi fattisi tutti ca gliaritani quel giorno speciale. Ho sfogliato, in questi giorni, qualche collezione ingiallita digitalizzata de L’Unione, puntando a quell’aprile di meraviglie: un breve editoriale («Rivincita dell’uomo») sulla felice conclusione della drammatica avventura dell’Apollo 13, un anno dopo lo storico allunaggio; una terza pagina monografica sui «clamorosi retroscena dell’inchiesta sulle imprese dell’anonima sequestri». Titolo: «Il controspionaggio si occupò di Mesina per bloccare una manovra dei separatisti». Suo, negli stessi giorni (a mezza strada fra scudetto e visita papale, e sulle colonne della prima pagina de L’Informatore del lunedì), un altro lunghissimo pezzo sul processo in corso alle assise di Cagliari: «Il misterioso capo dell’Anonima aiutò Mesina dopo l’evasione». Uomo di ”cucina” redazionale per le glorie dei rossoblù e di Gigi Riva il santo – ed a lui avrebbe dedicato, Giorgio, uno dei suoi ultimi articoli per l’web, come ho ricordato – , ancora di cronista nel pool dei resocontisti chiamati a riferire della visita di Paolo VI a Cagliari: «Un incontro come un abbraccio con duemila malati alla Fiera». Incipit: «Una bimbetta di pochi mesi, un fagottino celeste che Paolo VI amorosamente mostrandolo ai mille e mille volti sui quali la commozione ha cancellato per un lungo, appassionato momento, la sofferenza abituale. Un’immagine intensa, indimenticabile. Una creaturina malata, simbolo doloroso sul quale il Papa si china con commozione, con amore, coprendolo di carezze rivolte alla piccina e a tutti gli infermi che piangono, pregano, applaudono, si inginocchiano…».
Cronaca esemplare, fotografica, filmica anzi, e sonora. I lettini, le barelle in prima fila, diecimila i presenti, con medici, infermieri, assistenti, parenti e soprattutto loro, i malati in numero spropositato, duemilaquattrocento, e preti, frati, suore, scout a contorno… Una copia fedele della statua di Bonaria, una insegna «Tu es Petrus», e le carrozzelle dei paraplegici, le stampelle, e giovani e vecchi e bambini giunti da tutta l’Isola, sinceri tutti, onesti e autentici, anche da Sassari, da Sennori, magari reduci dai viaggi a Lourdes organizzati dall’UNITALSI, fra tutti un bimbo nuorese di sei anni, Enzo Compostu, le cui ossa non si calcificano, il parroco di Tissi don Salvatore Monni semiparalizzato, la centenaria Luigia Murgia venuta da Macomer per la prima volta a Cagliari. Il pontefice arriva di mezzo pomeriggio e fatica, per la calca, a raggiungere il palco e mostrarsi a tutti. Nel tragitto, una bimba, Rita Bertocchi, «lo sguardo spento e triste incorniciato dalle treccine», gli viene avvicinata per una benedizione di più. I gesti e le parole di papa Montini, che legge prima di andare a braccio, come il cuore detta, poi… «Mentre Paolo VI scandiva le ultime parole, un giovane si è fatto largo dietro il palco. Teneva in braccio la piccina malata, Santina Paderi, di Quartucciu, che ha soli quattro mesi. La madre l’aveva affidata a braccia più robuste delle sue perché fosse portata fino al palco. Il Pontefice l’ha stretta al petto e l’ha mostrata alla folla , così come poche ore prima aveva fatto per l’agnellino donatogli da un pastore. E’ stato il momento più carico di pathos di un incontro che è stato come un abbraccio struggente. Attorno al palco decine di persone si accalcavano attorno a Paolo VI piangendo e acclamando…».
Dopo aver incontrato i malati, il papa raggiunge il Borgo Sant’Elia per salutarvi i residenti e fra essi, in modo speciale, la famiglia di una inferma allettata, Graziella Murgia: uno dei piccoli di casa, Paolo, è nato il giorno stesso della incoronazione del pontefice, che ci scherza su, amichevole. Altri incontri in quartiere, con le persone, non con una massa anonima, ancora bambini e giovani e vecchi – Paola Baldi, Antonio Masala, Carlo e Giuliano Portoghese, Enrico Fois, Mario Ermatosi… –,pescatori dopo il ciabattino Silvio Murgia che gli dona un disco con i suoni delle sardissime launeddas. Il cronista registra tutto, e cita non a caso nomi e cognomi, non esistono gli anonimi sulla faccia della terra, e neppure a Cagliari, neppure al Borgo Sant’Elia come neppure al padiglione della Fiera destinato ai malati…
La mattina davanti a centomila partecipanti, e la benedizione speciale alla squadra del Cagliari «di cui parla tutto il mondo». A chiudere la sera è la tappa al seminario arcivescovile per un incontro con il clero e gli studenti di teologia. Lo accoglie il giovane rettore don Pier Giuliano Tiddia cui giunge, proprio allora, l’eco di incredibili incidenti sorti contro il seguito del papa al termine della visita alle case minime di Sant’Elia, su cui molti speculeranno. Come se il Borgo, o Cagliari, o la Sardegna avessero risposto con l’offesa delle pietre alla signorile amabilità di papa Montini.
Giorgio Melis torna in argomento, due giorni dopo, con un lunghissimo articolo di prima pagina, per denunciare queste speculazioni: «Indignazione e proteste fra la gente del quartiere». Raccoglie le testimonianze di tutti, del vice parroco don Mura – che tranquillamente aveva depositato in casa di un comunista il calice offerto alla parrocchia dal pontefice – e di operai e pescatori, di ragazzi e giovanissimi disponibili alla confidenza, di Mariella Era e Luciano Galici, Danilo Usai e Vindice Valentino, Antonio Falchi e Franco Masala, Ninni Santus e Giampaolo Deidda… La conclusione del cronista: «Il rigetto di ogni responsabilità, l’unanime reazione accompagnata dal risentimento per le interpretazioni sommarie, sono il segno di una dignità profonda, di una strenua difesa del buon nome di una comunità che chiede rispetto. un segno della crescita civile di un nucleo della città che rifiuta classificazioni ingiuste e teme altri giudizi avventati. Per Sant’Elia la visita del Papa è finita nella casa di Silvio Murgia, il ciabattino dice che sua moglie è sollevata, almeno nello spirito, mentre i suoi sei ragazzi mostrano con orgoglio i doni del Pellegrino che si è chinato sulla loro dignitosa povertà. Ciò che è accaduto dopo, la sassaiola, gli scontri, non è cosa che riguarda il quartiere, non lo sminuisce, non deve mortificare l’ansia di rispettabilità».
Neppure una settimana prima della gran visita, Melis ha firmato un altro lunghissimo articolo che riempie una bellissima pagina monografica dedicata alla storia o al mito della fondazione trecentesca del santuario sul colle di Bonaria. Titolo: «Il profeta del miracolo». Denso il sommario: «Il miracoloso approdo del simulacro fu annunciato dopo una visione dal fondatore dell’ordine dei Mercedari in Sardegna – Inviato a Barcellona per un’ambasceria presso il re d’Aragona suo parente, ne tornò per iniziare un’esistenza di eremita nel convento da lui stesso costruito sul colle – Un prodigioso evento scaturito dal gesto sacrilego di un soldato consacra i cagliaritani al culto della Madonna – Il nucleo iniziale della basilica nasce dalla devozione di Alfonso IV che celebra la vittoria sui pisani facendo edificar una chiesa». Una storia avvincente, narrata con senso del ritmo, della sequenzialità delle scene, con precisi riferimenti temporali e nominali, con il gusto del colore e insieme della sobrietà descrittiva: un gioiello di scrittura evocativa. Forse anche un rimando di memorie giovanili, un rimbalzo di emozioni neppure così remote, vissute lungo le permanenze nel quartiere delle sue passioni tribunizie e delle sue amicizie adolescenziali, appunto fra il santuario-basilica di Nostra Signora e la cattedrale di Piola, Rigotti, Silvestri-Sandokan e Riva il santo.
Le tappe di una carriera a L’Unione Sarda, poi un anno di aspettativa. E’ nel 1974 che Melis passa all’ufficio stampa del Consiglio Regionale, siamo all’esordio della settima legislatura, quella che vedrà qualche luce con il progetto della unità autonomistica, dopo i disastri degli anni assembleari , delle intese sottobanco e clientelari, della spesa facile, fra DC e PCI. Mette mano a una nuova rivista periodica – Sardegna Autonomia –, con ottomila copie di tiratura e diffusione gratuita, capace di offrire un’informazione insieme istituzionale e giornalistica sul lavoro dell’Assemblea e delle commissioni. Occorre raggiungere ogni comune, ogni associazione civica o culturale, ogni organizzazione sindacale, perfino ogni scuola. Collabora con lui, per la parte grafica, sobria, moderna e gradevole, Alberto Rodriguez, e in quella redazionale lo affiancano Bruno Columbano e Roberto Puddu.
Nell’editoriale di presentazione enuncia alcune intenzioni: «Naturalmente il Notiziario non avrà solo la funzione di “bollettino burocratico”. Il suo contenuto potrà essere arricchito con ricerche e inchieste su problemi in corso di esame e che potranno interessare il Consiglio regionale; potrà ospitare pareri qualificati sugli argomenti più rilevanti, sarà integrato da una sintesi dei provvedimenti più significativi assunti nelle altre Regioni. Sarà in sostanza un Notiziario aperto e attento a quanto accade e si muove nella realtà isolana ma anche in quella delle altre Regioni, senza trascurare le decisioni del potere centrale che possono avere ripercussioni in Sardegna».
Quattro numeri per un anno. E’ l’anno che prepara l’accelerata, in Sardegna come in tutt’Italia, dell’affermazione elettorale amministrativa e poi politica della sinistra, soprattutto comunista nella declinazione berlingueriana. Nella politica isolana (e in quella nazionale)si profilano nuovi equilibri che trovano qualche riverbero anche nel mondo della stampa isolana, se è vero che dopo l’esordio, nell’estate 1974, di Tuttoquotidiano, il più antico giornale cittadino – pur restando nella stretta morsa proprietaria della finanziaria estera Pausania, che ha nel bolzanino avv. Salvadori del Prato il suo rappresentante pubblico (e amministratore delegato) ed in Nino Rovelli il vero padrone – risponde autoriformandosi tanto nella linea politico-editoriale quanto in quella degli assetti redazionali (con diverse nuove assunzioni) e della stessa grafica, sottoposta a radicale restyling. Già soltanto quel che accade fra 1974 e 1975 a L’Unione Sarda meriterebbe un lavoro di analisi ed ordinata esposizione, registrando appunto le nuove formazioni redazionali nei settori, la nuova efficacia estetica del prodotto, il nuovo e più deciso orientamento democratico presente nel commento politico e nella”stanza” riflessiva della terza pagina affidata ad Alberto Rodriguez. Aggiungerei al novero un’accresciuta convinzione dell’orgoglio professionale e dell’autonomia non come merce di mercato, proprio quanto avrebbe portato infine, l’anno successivo, alla revoca della fiducia dell’editore a Fabio Maria Crivelli, al rischio di una crisi grave interna al giornale superata grazie all’intelligente pragmatismo del direttore e del suo vice e subentrante.
E’ proprio nel 1975 che Melis ritorna a L’Unione, ma alla politica regionale continua a rivolgere molte delle sue attenzioni. Giusto quell’anno scrive un ricordo, vero e proprio bilancio di una vita, di Paolo Dettori, il migliore, con Soddu, fra i democristiani sardi (che anch’io conobbi per ragioni di studio del movimento cattolico organizzato nella Sardegna del primo Novecento). «Sull’ultima trincea» è il titolo dell’articolo che gli dedica: «Possedeva nella massima misura il senso, più che della Regione, dell’autonomia come fattore di crescita e di sviluppo… L’intesa fra le forze popolari – organica ed articolata, ma mai svilita in compromissioni di potere – è condizione essenziale per garantire il riscatto di una terra depressa come la nostra. In assenza di questo accordo, la divisione e la dispersione delle forze blocca o ritarda o riduce le possibilità di redenzione dal sottoviluppo».
1981: Corona, l’attentato a Wojtyla, l’aborto, la P2, i trasporti. Quanti saranno stati gli articoli curati da Melis in un solo anno? Trecento, forse quattrocento, e moltiplicali per gli anni di servizio… Ma per il più i suoi articoli non erano firmati, per obbligo di cucina redazionale. Di tanto in tanto, invece, ecco spuntare una firma a marcare soggettività e responsabilità di una analisi e di un giudizio.
Registrazione di un flusso ininterrotto di avvenimenti, il giornale quotidiano deve fermare, volta a volta,un episodio meritevole di una speciale considerazione. Ho preso il 1981, avrei potuto preferire il 1979 o il 1983, o un altro anno qualsiasi con la sua casistica. «Una corsa assurda» è il titolo imposto al suo breve fondo di commento alle dimissioni di Armando Corona dalla presidenza del Consiglio Regionale, «le prime – scrive l’editorialista – nelle vicende dell’autonomia, “per impraticabilità di campo”, cioè di un’assemblea dove la funzione di arbitro viene proclamata impossibile». Melis, vice direttore de L’Unione, si fa eco dell’allarme per il degrado istituzionale cui i partiti, e gli uomini dei partiti, dopo la fine della stagione della unità autonomistica, hanno condotto l’Assemblea parlamentare isolana. Scrive: «La costituzione della giunta di sinistra e laica, col conseguente passaggio della Dc all’opposizione, ha innescato una battaglia campale che rischia di travolgere definitivamente la legislatura … Ormai è una lotta a coltello, il dibattito scade a faida e insulto personale, cade il rispetto fra i gruppi e gli uomini. Nessun freno è posto a diatribe apparentemente procedurali che in realtà riflettono una volontà di scontro da un lato per abbattere la giunta, dall’altro per sostenerla. Tutto il resto non è che mistificazione, quali che siano le parole usate per adornarla… L’unica speranza è che [le dimissioni di Corona] aiutino a bloccare questa assurda corsa verso la sfascio totale e irrimediabile. Ma il rumore delle armi non accenna a decrescere. Da partiti che appena tre mesi fa erano a un passo da un grande, “storico” patto unitario, vengono oggi – con diversa intensità e responsabilità – esempi gravissimi di disgregazione per la società sarda. Di questo passo si spingerà la gente a sperare nel porto della quiete di un proconsole romano, a desiderare un provvidenziale commissario governativo per quest’autonomia che risulterebbe evidentemente impossibile».
Sono mesi tutti d’allarme rosso i primi del 1981. Il tragico attentato al papa in piazza San Pietro prepara un’atmosfera di tensione generalizzata. Appena quattro giorni dopo, gli italiani vanno al voto referendario per decidere se l’ordinamento possa continuare ad accogliere una normativa regolativa dell’aborto volontario. A chiedere l’abrogazione della legge 194 sono da una parte i radicali, dall’altra i cattolici del Movimento per la vita. Gli elettori respingono, con alte percentuali, le sollecitazioni degli uni e degli altri, confermando la bontà (dolorosa bontà) della legge. Non si discostano granché da quelle nazionali le percentuali registrate nell’Isola (e così anche sulle altre materie: legge Cossiga, ergastolo, porto d’armi). Giorgio Melis – che si sa professarsi cattolico (o laicamente cattolico) – s’è preso l’incarico di una lettura critica dei risultati nelle quattro province sarde, registrando una sufficiente omogeneità degli orientamenti prevalsi. E confronta con le risultanze del 1974, quelle riguardanti la legge Fortuna-Baslini. L’incipit: «Come e meglio del 1974 per il divorzio. La Sardegna ha espresso un “no” più netto, deciso e omogeneo di sette anni fa». Osserva: «Dal punto di vista politico i risultati delle votazioni forniscono alcuni elementi di notevole rilievo. Intanto la vittoria delle forze laiche e di sinistra che sostenevano il mantenimento della legge 194. Il successo è andato oltre il tradizionale peso elettorale di queste forze. Esattamente come, sul fronte opposto, i ”sì” al Movimento per la vita sono risultati nettamente inferiori alla forza elettorale dei due partiti (Dc e missini) che chiedevano la abrogazione della legge sull’aborto. E’ fin troppo evidente che sull’indicazione di partito ha prevalso la scelta autonoma e responsabile di moltissimi cattolici, che abitualmente votano per la Dc. Il secondo punto è che ormai c’è ben poca differenza tra i comportamenti dei sardi e quelli medi nazionali in materia di diritti civili. Un terzo punto significativo e che stavolta, a differenza di quanto accadde per il divorzio, la valutazione dei sardi è stata praticamente omogenea nelle quattro province, senza differenze drastiche tra i grandi centri urbani e quelli minori dell’interno: segno di una maturazione diffusa, di una consapevolezza non elitaria ma capillare attorno a un problema drammatico come quello dell’aborto».
Due settimane ed ecco altri motivi per i titoli a caratteri di scatola per l’intera edicola nazionale. Il governo Forlani ha reso noti gli elenchi degli associati alla P2 di Licio Gelli. L’Unione fa la sua parte, ovviamente insistendo sui nominativi dei sardi coinvolti. D’intesa con il direttore Filippini, esempio di equilibrio anche in questa complessa e complicata vicenda, Melis combina appropriati menabò, mettendo in campo quasi l’intera squadra dei redattori di Terrapieno per gli approfondimenti del caso. Non entra, questa volta (come invece farà nel 1993 con altri elenchi, essendo allora a capo della redazione cagliaritana de La Nuova Sardegna), nel merito approfondito della vicenda. O meglio, tutto limita a un corsivo di prima pagina («Anche Gelli e il fisco nell’effimero»): «Qui si sente il puzzo delle jene. La carcassa che vogliono spolpare siamo noi, quest’Italia che non è però morta: conserva sacche di vitalità per resistere e sopravvivrà nonostante i becchini che la assediano».
Negli stessi giorni preferisce coprire un altro spazio: la crisi dei trasporti marittimi – leggi dei traghetti Tirrenia – e il richiesto intervento governativo. Firma al riguardo, un bellissimo corsivo in prima pagina: «Ma la pazienza è finita». Bastano forse poche righe per capire il senso del tutto: «La scintilla della guerra d’indipendenza americana, come si apprende a scuola, è stata una tassa. Quella che il governo inglese pretese di imporre sul commercio del the, riservandone il monopolio alla Compagnia delle Indie. Per il milione e mezzo di abitanti delle tredici colonie inglesi fu l’innesco della rivolta da cui nacquero gli Stati Uniti. Con un ugual numero di abitanti, nella stessa condizione di colonia (sia pure interna) la Sardegna non ha il problema di combattere per un’improbabile repubblica indipendente. Non può tuttavia esimersi dalla ribellione, essendo schiacciata da una tassa insostenibile. Non viene applicata solo su ogni merce. Anche su ogni sardo e su ogni forestiero che voglia venire nell’isola per lavoro o per turismo. E’ l’imposta sui trasporti, un pedaggio obbligato che i sardi debbono pagare per il privilegio d’essere italiani. E’ uno degli aspetti concreti del disavanzo di nazionalità che scontiamo in quanto isola, con l’applicazione del principio della frattura territoriale…». E più oltre: «Ci hanno scippati per 30 anni di un nostro diritto: non ci regaleranno niente senza che ce lo sudiamo. L’obbiettivo non è solo tariffario ma soprattutto politico. Deve comprende anche un’eventuale lotta per espellere la Tirrenia dai traffici con la Sardegna se continuerà a comportasi come una compagnia coloniale. Siamo stufi dei satrapi che nei ministeri e ai vertici della Tirrrenia decidono per noi e su di noi, senza neppure interpellarci. La misura della pazienza è colma, la stagione della rassegnata passività è agli sgoccioli. Siamo una colonia di un milione e mezzo di persone. Non dobbiamo sfidare con le armi, come i coloni americani del 1776, uno Stato oppressore per avere la nostra indipendenza. Tuttavia non accetteremo più oltre di pagare la tassa iniqua offensiva dell’inferiorità rispetto agli altri italiani».
Cadrà presto l’imbelle governo Forlani, seguirà quello di Giovanni Spadolini, autorevole per la presidenza più ancora che per la squadra, e per la specialissima tutela morale del presidente Pertini. L’Unione Sarda guarderà con simpatia e fiducia, come anche La Nuova Sardegna e pressoché l’intero panorama giornalistico italiano, lo svolgersi di quell’esperimento durato un anno e mezzo, dignitoso, fra mille difficoltà e l’avvilente miseria sempre più scoperta di democristiani e socialisti.
Promosso condirettore nel settembre 1982 (entrando nella gerenza lunedì 13), nel quadro anche del nuovo riassetto organizzativo e grafico del giornale (adesso anche con il numero del lunedì che ha assorbito la testata susiniana de L’Informatore) – affiancandosi al direttore Gianni Filippini, forse in una prospettiva di avvicendamento seppure non immediato, e con Vittorino Fiori vice direttore (e responsabile del numero del lunedì) e Arturo Clavuot capo-redattore – Giorgio Melis mantiene l’incarico tre anni circa. Lascia nel gennaio 1985 con una lettera di dimissioni motivate dalla presa d’atto (e /o con la forma della protesta) delle inadempienze della proprietà che, attenta ai bilanci e agli utili immediati d’impresa si rifiuta di guardare in prospettiva, e non compie gli investimenti necessari per l’adeguamento tecnologico degli impianti ai tempi nuovi ormai giunti. Tanto più che la bufera SIR ha portato alla novità, in quel di Sassari, di un giornale – La Nuova Nuova Sardegna dell’editore Caracciolo – che mostra crescente interesse ad una espansione anche nel sud isolano. L’assemblea dei redattori denuncia anch’essa la latitanza del management e la difficoltà di reggere la concorrenza dopo i successi anche diffusionali conquistati negli ultimi tempi.
Un libro periscopio. E’ di pochi mesi prima la pubblicazione di un libro – L’isola degli altri – in cui Melis raccoglie, classificandoli in nove capitoli, cinquanta articoli usciti in un arco temporale relativamente lungo – sette, otto anni, a cavallo di decennio fra ’70 ed ’80 – che meriterebbero, oso dire, una lettura corale, per poter suscitare poi dibattito, altro dibattito, fra consenso e distanza o dissenso. Uscito nell’anno stesso in cui Mario Melis – quale distanza, quale abisso dalla dirigenza sardista di questi ultimi anni! – dava vita alla prima delle sue tre giunte, e il Partito Sardo era chiamato a costituirsi baricentro degli indirizzi ideali e politici dell’Isola, il libro del condirettore de L’Unione Sarda godeva “tristemente” di andare controcorrente proprio mentre l’autore si radicava, culturalmente e anche politicamente, e però con surplus di intelligenza critica, in quell’area che contestava. Conoscendo la inconsistenza di tanto nazionalitarismo che pure pretendeva di dettare le nuove coordinate del nostro futuro come comunità regionale. L’indipendentismo? «Un’intuizione generica ma felice: funzionò. Superate le iniziali timidezze, è stata riproposta come formula di successo. Appunto perché indistinta e quasi prepolitica, ha sponsorizzato uno stato d’animo. Ha indirizzato un movimento alla ricerca di un partito, inizialmente svincolato dall’onere di precisare programmi e alleanze. Tutto ciò è stato possibile perché il PSd’Az – “prepartito di tutti i sardi” – non era la Liga Veneta o il Melone triestino. Aveva sessant’anni di vita, referenti prestigiosi a cominciare da Emilio Lussu… Ma con tutto questo passato, sembrava non aver più nulla da dire ai sardi degli anni Settanta, proiettati dall’ovile alla tecnologia d’avanguardia, dai pascoli stenti ai concimi e mangimi della petrolchimica dominante, dalla mastruca alla tuta. Smaltita la sbornia di benessere senza sviluppo e spente le illusioni quando si sono spente le ciminiere, si sono ritrovati sbandati e avviliti, in bilico tra rassegnata frustrazione e ribellismo strisciante: contro uno Stato mai interamente metabolizzato ma anche contro una Regione e un’autonomia che aveva no suscitato illimitate speranze. Coinvolto sino al collo in scelte fallimentari, il PSd’Az ha pagato un prezzo altissimo per le sue responsabilità e anche oltre, rischiando di sparire dallo scenario politico. C’è rimasto e vi si è rafforzato beneficiando, nel pieno della crisi isolana, del rigetto verso le altre forze politiche. Una scelta di vecchio-nuovo, nella quale la suggestione dell’indipendenza ha giocato come elemento di rottura, di differenziazione radicale rispetto agli altri partiti».
Ma per poi aggiungere: «Neanche i più temerari dirigenti sardisti potrebbero sostenere che la loro base elettorale pensi senza sorridere a uno Stato sardo. Rischierebbe d’essere al massimo una “Repubblica dei fichidindia”, caricaturale come quelle del Centro America spregiativamente intitolate alle banane. Il nodo riguarda piuttosto la possibile pericolosità di questa scelta… non è questione che si possa sottovalutare… Può nascere da questo movimento-partito un diffuso irredentismo? Ne mancano i presupposti. Occorre un antagonismo di nazionalità o d’altra natura per alimentarlo. Quello esistente in Sardegna è solo segno economico e sociale: non c’è stato e non esiste alcun fermento antitaliano. Anche i quattro mori vedono benissimo, nonostante le bende agli occhi, che l’arretratezza dell’isola non è l’effetto di una congiura: dipende dalla geografia e dalla storia. Oggi è soprattutto la risultante di un rapporto di forze che gioca a sfavore di una regione marginale e disunita, del prevalere degli interessi di aree più forti rispetto a quelle storicamente debolissime. Il vittimismo provinciale e inetto, con scadimenti sciovinistici, esiste e come. Ma non è più il connotato dominante delle rivendicazioni sarde. Sarde e non sardiste. Perché gli umori prevalenti non sono affatto appannaggio del PSd’Az, ma attraversano tutti i partiti…». Certamente si tratta di una lunga analisi per certi aspetti datata, ma non fissa, sensibile invece a dati permanenti del nostro spirito pubblico (e nella quale, per quel che conta,mi riconosco pienamente) .
Melis guardava anche in casa, al giornale, all’informazione, e alle conseguenze sociali di un fare bene o male il mestiere. «Nel decennio petrolchimico, la Sardegna era stata trasformata in un dominio privato (appaltato dallo Stato e dalla Regione), nei quali i sardi avevano smarrito il senso della loro cultura e della loro identità, conculcate anche attraverso il controllo della stampa locale funzionale a quel disegno, complice tanta parte della classe dirigente isolana. Smaltita la sbornia, nella bufera di un crollo industriale pagato con lacrime e sangue, per reazione e disperazione c’è stato un risveglio generalizzato, frammentario ma diffuso, disordinato imperioso, nella ricerca di se stessi, delle proprie radici. Per poter negare che il passato fosse un buco nero, un vuoto abissale di storia e di cultura, un’incapacità assoluta ad essere altro che vinti. E’ una ricerca orgogliosa e rabbiosa, condotta da generazioni non mortificate da complessi di inferiorità, non rassegnate. E’ una sfida interna che magari può proiettarsi all’esterno anche con la provocazione indipendentistica, astratta e impraticabile…».
Scriverà, a proposito di L’isola degli altri, acutissimo come sempre, un altro Melis, Guido il professore: «Abbiamo avuto in passato il giornalismo acriticamente entusiasta degli anni della prima industrializzazione, pronto ogni istante a sciogliere peana propiziatori alle magnifiche sorti e progressive del futuro petrolchimico della Sardegna. Questo di Melis è giornalismo disilluso e lucido da giorno dopo. Dall’eredità sconfortante del decennio petrolchimico deriva un giudizio di fondo sulla classe dirigente sarda (e specialmente sul personale politico) sostanzialmente critico, un pessimismo dell’intelligenza che si fa immediatamente chiave di lettura della realtà. Ma l’impietosità dell’analista, persino autocritica […] non impedisce a Melis di segnalare l’altra faccia della medaglia: “una ricerca orgogliosa e rabbiosa, condotta da generazioni non mortificate da complessi di inferiorità”…».
Il giornalismo di Giorgio Melis è un giornalismo apertamente politico. E l’altro Melis, Guido il professore,lo riconosce anche lui e sembra lo condivida e ne legittimi l’imprinting: «un giornalismo che, dopo decenni di fiancheggiamento o di cassa di risonanza, sa trovare in se stesso le risorse culturali necessarie per parlare orgogliosamente alla politica da pari a pari, interpretando anzi, negli anni della crisi politica e società, quei bisogni sociali (quelle diffuse convinzioni delle gente comune) che la politica, per la sua sclerotizzazione e la sua eccessiva professionalizzazione, non sa più capire. In quest’idea che i giornali possano fungere da canale di comunicazione per chi istituzionalmente sta fuori del Palazzo, dar voce alle istanze che la politica non sa più rappresentare, c’è evidentemente una forte dose di utopia. Specie in tempi nei quali, al contrario, troppi giornali e giornalisti sono essi stessi parte del Palazzo. Ma la forza e il significato morale del lavoro che in questi anni ha svolto Giorgio Melis sta soprattutto in questa utopia: vale la pena di dargliene atto».
Da Terrapieno a pre-Terrapieno e alla TV. Due settimane dopo le dimissioni da L’Unione Sarda ecco il passaggio a La Nuova Sardegna, con le funzioni di vice direttore: vice di Alberto Statera, responsabile delle edizioni sud del giornale sassarese, omologo di Alfredo Del Lucchese, che prende servizio anche lui e in contemporanea, incaricato della sovrintendenza dell’area nord de La Nuova. Il quotidiano del gruppo Editoriale L’Espresso punta ad uno slancio propriamente regionale della sua diffusione, implementando le sue redazioni periferiche, tanto più nelle aree relativamente scoperte come quelle del Cagliaritano, dell’Iglesiente, dell’Oristanese. Melis responsabile della redazione di Cagliari – dieci redattori e il doppio di collaboratori in un capiente ufficio presto passato da palazzo Serventi (Mazza) a palazzo Valdés – è l’ideale, tanto più che la foliazione accompagna la mission; così partono anche le edizioni, appunto, del Sulcis-iglesiente e di Oristano.
L’esordio, domenica 20 gennaio 1985, è accompagnato da un distico di presentazione a firma Statera: «Giorgio Melis, collega di lunga esperienza e vasta notorietà, assume da oggi su mia richiesta l’incarico di vicedirettore de La Nuova Sardegna. Nel dargli il benvenuto, ho la certezza che il suo contributo sarà prezioso per sviluppare le iniziative giornalistiche che hanno reso e sempre più renderanno La Nuova un giornale regionale particolarmente attento alle tematiche della società sarda, nella completezza dell’informazione nazionale e internazionale».
Da subito – nei giorni caldi della strage di Osposidda (quattro fuorilegge uccisi, caduto anche un sovrintendente di PS, cinque feriti in un’operazione volta a liberare un sequestrato con la partecipazione massiva e volontaria della popolazione di Oliena ed Orgosolo) – Giorgio Melis ha da dire. In prima pagina, il 22, artiglia: «Lo Stato non si vesta da giustiziere». La sua analisi, anche quando si fa polemica e graffiante, non smette l’abito equanime, razionale e misurato: «Per limitarsi al puro discorso repressivo, i successi clamorosi richiedono il concorso di circostanze straordinariamente favorevoli, quali una reazione e mobilitazione popolari che raramente si rincontrano. Oppure quell’oscuro, faticoso e ingrato lavoro di routine fatto di sorveglianza ininterrotta nei punti cruciali delle campagne, di logoranti appostamenti, pazienti indagini nei paesi, conquista della fiducia e del dialogo con le popolazioni, instancabile persuasione per la resa dei latitanti. Si son fatti grandi passi avanti in questo senso. E’ l’unica strada che porta a una graduale e duratura bonifica. Come dimostrano proprio gli eccezionali risultati ottenuti da qualche magistrato che singolarmente, poi, indulge in sortite ad effetto, con inevitabile e diffuso disagio. Per l’impatto possibile e imprevedibile tra carabinieri e agenti nel loro rapporto psicologico con le armi che impugnano nei servizi più rischiosi. Per i contraccolpi che possono prodursi in certi centri della Barbagia. C’è una violenza a fior di pelle che potrebbe volgersi in irrazionale sfida armata contro gli uomini in divisa anziché nelle faide o nei tragici e futili scontri interni». Si può, si deve collaborare, fra uomini dello Stato e popolazioni. Vien da pensare alle missioni di Forza Paris che proprio negli anni della presidenza di Mario Melis avranno presto utile attuazione nell’Isola più interna.
Per Giorgio Melis saranno tre lustri (perché a seguire Statera scorreranno, a La Nuova, Sergio Milani con Sergio Carlesi condirettore , e quindi Livio Liuzzi) da sommare ai quattro trascorsi a L’Unione Sarda, di attività intensa, frenetica forse, lucida. Al lavoro al giornale per qualche anno associa quello televisivo, curatore e conduttore di un programma di dibattito, un talk (come si dice oggi), a Videolina, dal titolo «A tu per tu». Alcune annate e poi, nel febbraio 1989, la rinuncia motivata dalle perplessità sulla piega editoriale presa dalla società di Nicola Grauso, candidata alle trasmissioni di insegnamento a distanza finanziate dalle Regione. La presa di posizione è, al riguardo, netta: «Si va realizzando un sistema incestuoso di relazioni paraeditoriali nel quale il potere d’informare viene pericolosamente stravolto. Viene usato, a me pare, come arnese da scasso affidato ad alcuni servizievoli uomini d’effrazione (il mercato ne trabocca) con compiti precisi. Devono disarmare eventuali resistenze, e peraltro sempre più limitate e pronte a mutarsi in accondiscendenti compagne di strada per viltà, convenienza o cinismo. L’obiettivo è trasparente. Affermare e perpetuare su una vasta scacchiera una prensile egemonia sul personale politico che detenga pro tempore il potere di spesa nelle istituzioni. E infatti si va instaurando un pieno dominio che poi vira in pulsione a servire, in un reazione a catena a maglie sempre più strette e…[…] questo disegno non lascia quasi scampo. Trasforma i mezzi di informazione da cani da guardia del potere in cani da presa sui mezzi amministrati da un potere complice-vittima. Credo che questo disegno sia destinato a pieno successo, con speculare e drammatico insuccesso di quella che si definiva una corretta dialettica democratica, stritolamento di uomini (compresi i chierici felloni), e rischi per tutti».
Sorpreso perché Grauso, noto per una visionarietà progressista, per una intelligenza anticipatrice e – s’è sempre detto – per una caratteriale avversione agli ingordi, si presenta ora come regista quasi di un business tutto a scapito delle casse pubbliche, Melis conclude rinunciando al contratto per la nuova serie di puntate tv: «Perciò siamo reciprocamente sciolti dall’impegno verbale di proseguire un’esperienza condotta per quattro anni: con gratificazione di entrambi, credo. E’ una rinuncia che a me pesa un poco, niente a te che notoriamente hai assoluta allergia al fattore umano e nessun rispetto per esso.Ma che dissenso sarebbe il mio, se non comportasse un qualche prezzo?».
Immediata la risposta dell’editore, datata 16 febbraio: «Non ti nascondo che, leggendo la tua lettera, la tentazione di mandarti a fare in c. è stata fortissima…». La replica di Melis, il 24 successivo, è limitata – egli scrive – «alla parte più qualificante» del messaggio pervenutogli: «apprezzo l’aereo esprit de finesse, che delizierebbe Lina Sotis. Un vero tocco di classe: fecale, direbbe Leonardo Sciascia. Ergo: anche editori si diventa. Ma plebei si nasce: e si resta».
Riprenderà la televisione, Giorgio Melis, dalle frequenze di Sardegna Uno. Chiamerà il nuovo programma, nei primi anni ’90, «Ad occhi aperti».
Anni ’90 e dopo. Tv a parte ed a parte anche qualche partecipazione a pubblici dibattiti, il lavoro al giornale è assorbente, in quel tratto del viale Regina Elena che avvia il passo verso la testata concorrente (la quale, passata la breve stagione della direzione di Massimo Loche ,si è intanto affidata per un quinquennio circa alla guida di Arturo Clavuot e per un altro quinquennio a quella… pre-renziana di Antonangelo Liori). Una citazione merita, fra le evasioni, un breve contributo al primo numero di Società Sarda, il bellissimo periodico promosso da Francesco Cocco nell’aprile 1996: «Bisogna dire chiaro e forte che siamo in una situazione terribile, un’economia col tracciato piatto, senza speranza di investimenti esterni che non trovano fattori di convenienza, un’amministrazione regionale inerte o nociva, l’incapacità di produrre almeno una parte dei prodotti per alimentarci senza importare tutto. Concludendo che siamo in un frangente forse paragonabile solo a quello dell’immediato dopoguerra. Ma con abitudini ed esigenze di vita incomparabilmente superiori, che non possiamo più soddisfare. Ed esposti a tensioni e degrado esplosivi perché i livelli di disoccupazione giovanile possono innescare fenomeni ribellistici di segno imprevedibile. Ecco, serve uno shock del presente per guardare al futuro con angoscia ma anche consapevolezza non rassegnata. Per innescare un processo che da una realistica quanto brutale presa di coscienza induca atteggiamenti privati e comportamenti pubblici in grado di riaprire un varco di speranza. Soprattutto per non renderci più complici del governare ed amministrare senza obbiettivi generali ma per interessi politico-elettorali ed oligarchici. Per non assecondare ma contrastare le spinte di un neo-tribalismo che rilancia le più becere divisioni tra i sardi, in una sterile guerra di tutti contro tutti: assecondata da cialtroni e imbecilli, nella quale tutti saremo sconfitti…».
Bisognerebbe dire, a questo punto, del tempo postNuova – quello del pensionamento cioè, dopo il Duemila – delle altre fatiche di Giorgio Melis: anche della direzione editoriale, durata qualcosa più d’un anno, a Il Giornale di Sardegna, sulla cui vicenda (così come su diverse altre intraprese di Nicola Grauso) ha scritto belle pagine, in diversi suoi saggi, Andrea Corda, ed anche della cura de L’Altra Voce, giornale web e saltuariamente cartaceo: sobrio, puntuto, necessario.
Le ho davanti a me queste collezioni delle ultime fatiche professionali – ma le definirei civico-professionali – di Giorgio Melis, ordinate in sequenza temporale, lungo tempi invariabilmente difficili, ingrati, ostili, non soltanto per il degrado morale e la nullità politico-amministrativa portati nelle istituzioni e nella gestione dell’interesse generale dai caporali e dagli attendenti periferici di un incredibile, risibile “uomo di stato” (tutto al minuscolo, anche lo stato), opportunisti pronti tutti alla camicia nera ove fossimo stati nel 1922…
Sono, quelle altre, ultime collezioni dei giornali cagliaritani fuori dal range delle maggiori querce, la prova provata anch’esse dell’eccellenza professionale di Giorgio Melis. Vorrei dirne qualcosa, appena possibile, e mi prenoto.
Omaggio personale. Ebbi con lui diversi incontri, ma direi, tutto sommato, piuttosto rapsodici, e non tutti empatici. Il primo ricordo è scolpito nitido, come si dice, nelle luci e nelle ombre di un’età per me ancora quasi adolescenziale, per lui già di raggiunta, precoce maturità e anche di responsabilità a L’Unione Sarda. Forse allora era capo-redattore e incaricato, con Gianni Filippini vice direttore, della terza pagina de giornale. Gli proposi la pubblicazione di un articolo, fu il primo mio di ormai circa cinquemila, che usciva dal perimetro della “pagina dei giovani”, curata fra 1971 e 1972 da Giantarquinio Sini e con la sottoregia dell’indimenticato Lucio Lecis Cocco Ortu, e cui collaboravamo con entusiasmo noi ventenni e meno che ventenni, fino a che i riferimenti critici ai tabù della disciplina e della giustizia militare, fra i pezzi intelligenti e critici firmati da amici di valore come Gigi Dessì e Antonello Mascia, indussero la direzione a mettere fine all’esperienza.
Nella pagina larga e “generalista” della cultura si trattò allora di rievocare le reazioni sarde alla presa di Roma, il 20 settembre 1870, quando anche cadde, fra i bersaglieri, un giovane sardo di Tempio: Andrea Leoni, cui i massoni galluresi avrebbero intitolato una loggia nel primo Novecento e nel cui nome, presente Sebastiano Satta, essi ed i bruniani celebrarono il primo congresso regionale del Libero Pensiero. Richiamai l’evento dopo avere compulsato per un mese intero, nel 1972, presso le sale della Biblioteca universitaria, le collezioni della stampa sarda, cagliaritana in particolare, esplorando guelfi antiunitari, liberal-monarchici e democratici mazziniani, saltando dalle colonne di giornale – Il Corriere di Sardegna e La Cronaca, La Verità e L’Osservatore… – alle delibere delle varie amministrazioni municipali (clericali quelle del Comune di Cagliari a sindacatura Roberti e ad influenza Delitala) ed allo spirito pubblico allora protagonista, in comparti ideologici fifty-fifty, della scena isolana. Melis accolse me con ruvidezza (e forse sufficienza) e quel giovanile dattiloscritto con qualche apprezzamento, passandolo infine su sei colonne della pagina culturale.
Pensai allora di continuare. E poiché, proprio in quell’estate, avevo incontrato, nella sua casa di via Cugia, Emilio Lussu, per raccoglierne la testimonianza su talune vicende politiche sarde degli anni fra ’10 e ‘20 e circa la singolare figura di un parlamentare del PPI migrato poi al fascismo – il sassarese Guido Aroca, legato al crollo della Banca Italiana di Sconto e, come si disse, agli incesti del giornalismo con i grandi interessi finanziari –,a lui, a Melis, offersi la disponibilità a mettere su carta una intervista al leader sardo-socialista, allora al termine della sua parabola nel PSIUP (scioltosi proprio quell’anno per la bruciante sconfitta elettorale). Ma la risposta fu scoraggiante (e obiettivamente inadeguata). Testualmente: «Lussu non è nella linea del giornale». E infatti egli era escluso da ogni riguardo, e anche soltanto dall’attenzione che il suo profilo umano, letterario, politico e storico avrebbe preteso.
L’inizio delle pubblicazioni, meno di due anni dopo, di Tuttoquotidiano, cambiò tutto, però, nel giornalismo cagliaritano: L’Unione, con uomini nuovi del valore di Alberto Rodriguez e altri – mentre la redazione si apriva a molte nuove energie provenienti dalle nostre facoltà umanistiche –, progressivamente rielaborò passati giudizi e si riposizionò sul presente. Lo fece non soltanto vivacizzando la grafica le titolazioni e lanciando molte pagine speciali, ma anche trasformando la terza pagina da luogo di raccolta di elzeviri, recensioni, memorie, commenti, estemporanei ed assortiti pezzi di curiosità stesi da collaboratori dei circuiti nazionali (cui partecipavano il più delle testate provinciali) a luogo di riflessione e confronto secondo un indirizzo editoriale più maturo: esplorando, attraverso la mobilitazione di numerose firme prima escluse, le realtà diverse della Sardegna davvero “quasi un continente” e insieme rapportando lo specifico isolano al “vasto mondo”, come l’avrebbe chiamato Gonario Pinna, in continua evoluzione nei fenomeni culturali, artistici, sociali, religiosi, economici, ecc. E Lussu, deceduto in quel capitale 1975, ebbe lì la sua rivincita, purtroppo soltanto post mortem, tornando con il suo patrimonio ideale e ideologico, con la sua esperienza sardista ed azionista-socialista, in molte pagine del giornale che anticiparono, va detto, l’uscita di quel bellissimo Cavaliere dei rossomori di Giuseppe Fiori che poi fece epoca. Fu in quella stagione, o da quella stagione, che Melis – che intanto era andato a compiere la sua temporanea esperienza all’ufficio stampa del Consiglio Regionale e da lì era già rientrato a L’Unione – collocò Emilio Lussu come stella polare del suo mondo etico-civile e anche politico.
Ci incontrammo di nuovo nel 1977 al giornale, all’indomani della morte drammatica, per il fuoco dei brigatisti rossi, di Carlo Casalegno, vice direttore de La Stampa. Eravamo pochi, a Cagliari, a dichiararci quel che eravamo e siamo rimasti, e siamo ancora nella scorza morale della nostra coscienza civile (rimpiango Gianfranco Contu!): democratici azionisti, partigiani degli ideali della sinistra storica, risorgimentale e novecentesca, antifascista, repubblicani e mazziniani, lussiani lato sensu, intendo nello spirito civile proprio della Sardegna. Si parlò di questo, con Giorgio Melis, nella tarda sera mi pare del 29 o 30 novembre: si parlò del lutto speciale che noi militanti dell’ideale, non dell’organizzazione, avvertivamo per quella morte ingiusta e tragica, per la fine di un grande giornalista e di una limpida coscienza repubblicana.
Negli anni della condirezione de L’Unione Sarda – dopo l’80 –, benché i miei rapporti più solidi e sperimentati fossero con Gianni Filippini, responsabile della testata, più volte gli mandai biglietti di condivisione circa i suoi fondi o corsivi, tanto più quando riguardanti la politica regionale o nazionale in cui mai si colmava il differenziale fra l’enormità dei problemi sociali e la statura (modesta e perfino misera) della cosiddetta classe dirigente all’opera.
Il più delle volte analista portato al giudizio tranchant, Melis feriva perché era convinto che il quarto potere fosse non una formula ma, in democrazia, un dovere di servizio alla collettività. Per questo, doveva essere il 1983, gli scrissi a proposito di un suo corsivo sulla «salsa cagliaritana» – così nel titolo – dei pessimi democristiani affaccendati in municipio, prospettando una categoria che in parallelo avevo anch’io profilato per disperazione: le dimissioni da cagliaritano… (un sentimento rivissuto, nello spettro della cittadinanza italiana, nel troppo lungo e volgare dominio del circo berlusconiano sulla patria morale che era stata di Goffredo Mameli e Mazzini).
In carica allora già da due anni un’amministrazione Di Martino, in quattro s’erano alzati a chiederne, a nome della Dc – che invero non s’era pronunciata in tal senso – le dimissioni, a tanto alleandosi con i socialisti «in vedovanza assessoriale». Per ciascuno dei moschettieri una pennellata, poi il tocco corale: «I quattro hanno tessuto la loro trama per mesi, cercando di trovare alleanze anche nell’opposizione, ma inutilmente, Infine hanno tratto dalla loro parte altri scontenti e frustrati della Dc e de Psi, consolidando lo schieramento con l’apporto o la neutralità di un influente “famiglione”. Dalla dichiarazione alla guerra guerreggiata. Non contro la Giunta ma contro la città. E infatti sono stati bocciati due mutui di massimo rilievo: per il completamento del teatro e per una nuova condotta idrica. Uno sfregio ai cittadini, che a tutto dicembre sono ancora a regime secco, con le ore d’acqua contate». (E davvero il male che i democristiani hanno fatto alla città è cosa che – lo debbo ripetere – soltanto la più recente miserevole arrogante sciatteria morale ed amministrativa dei forzisti, naturalmente a fronte del nanismo della sinistra, ha fatto dimenticare).
Gli incontri successivi furono tutti relativi alle polemiche sulla Massoneria. Quando s’alzò un polverone a seguito di alcune incaute dichiarazioni del sindaco Paolo De Magistris, nel 1986, e anche quando si pubblicarono con sovrana ipocrisia (e un pressapochismo certo non commendevole) le liste dei liberi muratori sardi, nel 1993. La visione di Giorgio Melis era opposta alla mia, la consideravo e la considero sbagliata nel merito e nella misura. Ne ho registrato ennesima conferma, alcuni mesi fa (ottobre 2014), in una sua lettera pubblicata dal blog di Vito Biolchini, all’indomani di una intervista rilasciata del segretario cittadino del PD: colpevole quest’ultimo di parentele che io, per poco che ne sappia, ritengo degne e Melis invece considerava problematiche se non inquietanti, per il che invocava, a conforto di legittimazione, opinioni e sentimenti trascorsi nientemeno che di Luigi Pintor.
Di Massoneria tra passato e presente parlammo allora nelle stanze della redazione cagliaritana de La Nuova Sardegna, a cui consegnai una cartella di tesi argomentate e di rimandi salutari a Bertold Brecht, poi usciti con buona evidenza sul giornale. Mi chiamò anche in una trasmissione televisiva, cui andai veramente controvoglia, ma andai per senso di dovere civico, a dare onore a una storia illustre e per testimonianza ad un presente rispettabile, assai migliore di quanto non si creda, ancorché non sempre all’altezza della chiamata.
Un’altra rilevante occasione di incontro fu di tutt’altra natura e, anzi, Melis lo vidi partecipe, emotivamente coinvolto, ad un’impresa che soltanto in parte avrei saputo concludere. Nell’aula magna del Brotzu, era il 2005, radunai duecento e oltre amici di Franco Oliverio – un grande, grandissimo della socialità medica e, direi, anche dell’umanitarismo democratico di Cagliari lungo una vita intera – per onorare la sua figura, troppo presto caduta, e dare materialità al suo lascito morale, con una casa d’accoglienza per i parenti dei malati ospedalizzati. Pur non riuscendo a soddisfare il proposito, riuscii comunque a raccogliere tanto da poterne riversare l’utile a pro di persone comunque impedite (convogliando, nel concreto, le risorse recuperate dalla vendita di un mio libro nella cassa di una comunità sulcitana, per l’allestimento di un percorso sensoriale e di vita). Giorgio Melis era lì, partecipe anche con le sue memorie di un Oliverio pienamente solidale con quanti, giovani di Sant’Elia, furono ingiustamente fermati e/o processati all’indomani dei disordini seguiti alla visita di Paolo VI a Cagliari, trentacinque anni prima.
Era lì, a trattenersi a parlare, parlare, parlare, anche dopo che gli altri se n’erano già tutti andati. Col bisogno forse anche lui di pagare un debito di memoria verso un amico comune, valoroso come pochi, scomparso per inganno del destino. Per me un’occasione d’incontro con un Giorgio Melis più dimesso forse da come mi si era presentatola prima volta e anche successivamente, oltre la cordialità formale imposta dall’educazione, forte allora della sua autorità al giornale: umile qui, desideroso di partecipare all’impresa da manovale, al pari mio e degli altri, con suor Maria Moro e il volontariato vincenziano, noi diversi per provenienza ideale, cattolici ed agnostici, progressisti e nazionalitari, massoni e socialisti…
Così è andata. Abbiamo perso Giorgio Melis, ma abbiamo i suoi scritti la cui rilettura critica potrebbe restituirci molto, se non tutto, di lui, dei suoi attraversamenti, delle sue sfide, delle sue ragioni e anche, non meno santi, dei suoi limiti. Potremmo lavorare su quella esperienza professionale, per raccontare pagine nuove del mondo giornalistico isolano che vediamo tristemente superato, senza importanti eredi.