L’ora dell’Africa, di Sandro Magister

Ha il più alto numero di convertiti alla fede cattolica. E ha anche il più alto numero di martiri. Come agli albori del cristianesimo. Passato e presente di un continente che ha sempre più peso nella Chiesa mondiale.


ROMA, 11 marzo 2015 – È il continente con il più alto numero di convertiti e di martiri. Eppure è anche il più trascurato e sottovalutato, da parte della vecchia cristianità occidentale.

O almeno, lo era fino a una stagione fa. Perché da quando la spada dell’islam si è fatta più feroce e non solo miete vittime in Africa, sopra e sotto il Sahara, ma estende la minaccia alla sponda nord del Mediterraneo, l’attenzione al cattolicesimo africano si è fatta ovunque più acuta e angosciata.

Non solo. L’Africa è la grande sorpresa anche negli equilibri mondiali della gerarchia cattolica. Il sinodo dello scorso ottobre ne è stata la prova clamorosa. Partito con marcata impronta eurocentrica, in primo luogo tedesca, si è trovato la strada sbarrata dall’inattesa resistenza dei vescovi africani a qualsiasi cambiamento della dottrina e della prassi in materia di matrimonio indissolubile e di omosessualità.

E ancor più agguerrita si prevede questa resistenza nella prossima tornata del sinodo, a giudicare da quanto anticipato da un loro cardinale dei più autorevoli, il guineano Robert Sarah, prefetto della congregazione per il culto divino, nel libro-intervista “Dieu ou rien”, curato da Nicolas Diat e pubblicato in Francia dalle edizioni Fayard:

“L’idea di mettere il magistero in una graziosa scatola separandolo dalla pratica pastorale – la quale può evolvere a seconda delle circostanze, delle mode e delle passioni – è una forma di eresia, di patologica schizofrenia. Io affermo solennemente che la Chiesa d’Africa si opporrà a ogni forma di ribellione contro il magistero di Cristo e della Chiesa”.

E ancora:

“Come accettare che dei pastori cattolici mettano ai voti la dottrina, la legge di Dio e l’insegnamento della Chiesa sull’omosessualità, sui divorziati risposati, come se la Parola di Dio e il magistero dovessero essere ratificati, approvati con il voto di una maggioranza? […] Nessuno, neanche il papa, può distruggere o cambiare l’insegnamento di Cristo. Nessuno, neanche il papa, può opporre la pastorale alla dottrina. Significherebbe ribellarsi contro Gesù Cristo e il suo insegnamento”.

Il cattolicesimo africano è considerato giovane – e quindi acerbo, immaturo – perché cresciuto solo nell’ultimo secolo, da un milione che erano i cattolici all’inizio del Novecento ai quasi duecento milioni di oggi.

Eppure basta il sangue dei martiri a smentire questa sua presunta immaturità, non ultimi i ventuno cristiani copti decapitati “in odium fidei” da musulmani sulle rive libiche del Mediterraneo:

> San Milad Saber e i suoi venti compagni

Ma poi c’è il fatto che le radici cristiane dell’Africa sono antiche, antichissime. La sponda africana del Mediterraneo e la valle del Nilo fino all’Etiopia sono state tra le prime direttrici d’espansione del cristianesimo. Erano africani i primi martiri di cui si sono narrate le storie. Erano africani – come Agostino – alcuni tra i più grandi padri e dottori della Chiesa dei primi secoli.

L’articolo che segue – uscito su “Il Foglio” del 7 marzo – aiuta a capire il cattolicesimo africano di oggi inquadrandolo nel suo sfondo storico reale.

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UNA CHIESA GIOVANE E ANTICHISSIMA

di Matteo Matzuzzi

Farebbe tanto bene “ai cristiani d’Europa prendere coscienza che una parte notevole delle loro radici cristiane latine si trova nel sud del Mediterraneo”, avvertiva quasi profeticamente al principio del terzo millennio l’allora vescovo di Algeri, Henri Teissier. Anche perché, scriveva lo storico francese Claude Lepelley, scomparso un mese fa, “il cristianesimo occidentale non è nato in Europa, ma nel sud del Mediterraneo”.

Pare strano a chi pensa che tutto abbia avuto origine con san Benedetto e la sua regola; e che prima di Montecassino e Cluny ci fossero solo i cristiani dati in pasto ai leoni nelle arene dai romani pagani, dopo essere stati sorpresi a pregare il Dio fattosi uomo.

Eppure, questa è storia. Dopotutto, le più antiche opere di teologia cristiana composte in latino provengono da Cartagine, non dall’Italia.

All’epoca di Tertulliano, infatti, i cristiani della costa settentrionale dell’Africa scrivevano in greco e non in latino. Sarebbe stato proprio lui ad abbandonare la “koiné” di Aristotele per passare alla lingua di Virgilio, sì da raggiungere un pubblico più vasto come si fa oggi con i libretti tascabili a prezzi scontati immessi a getto continuo sul mercato. Un’opera monumentale e complessa, tanto che Tertulliano stesso già sulla Genesi si bloccò, incerto com’era sulla traduzione di “logos”: non era convinto che “sermo” fosse termine abbastanza esaustivo. E dall’Africa attraversavano il mare anche le più antiche versioni latine della Bibbia, ben prima che Girolamo la traducesse nella forma tramandata nei secoli e giunta pressoché uguale fin quasi al Vaticano II.

Il benedettino Pierre-Maurice Bogaert, cattedra a Lovanio in studi biblici, ne era convinto: “Quando si cominciò a sentirne la necessità, sicuramente dalla metà del II secolo nell’Africa romana, la Bibbia venne tradotta dal greco al latino. Fino a prova contraria, sono per l’origine africana delle traduzioni piuttosto che romana o italiana”.

E poi sant’Agostino, il vescovo di Ippona grazie al quale, diceva ancora il vescovo Teissier, “L’occidente latino ha conquistato la sua indipendenza teologica e con ciò anche la sua propria personalità cristiana”. Taluni, aggiungeva, “potrebbero disapprovare questa evoluzione, e preferire la lettura del cristianesimo proposta dai Padri greci. Ma tutti devono riconoscere che l’occidente latino deve soprattutto ad Agostino la sua propria lettura del messaggio biblico”.

E anche il monachesimo, in fin dei conti, trova in Africa la sua prima sedimentazione. Sarebbe stato sempre Agostino a organizzare i primi luoghi di vita monastica, a Tagaste, dopo aver scoperto nella biografia di sant’Antonio abate messa a punto da Atanasio lo stile di vita di diversi anacoreti convertiti alla vita ascetica.

Meta ideale è il deserto egiziano, “la regione popolata da coloro che per primi avevano messo in atto la rinuncia definitiva alla vita mondana”, ha scritto l’archeologa Francesca Severini: “Qui più che altrove il pellegrino poteva entrare in contatto con quella fede autentica che aveva chiamato Paolo di Tebe, Antonio il Grande, Pacomio e molti altri a ritirarsi in solitudine nel deserto, veri e propri modelli di vita ascetica volta al superamento della dimensione terrena attraverso lo studio delle Sacre Scritture, la preghiera, il digiuno e la penitenza”.

Di quegli insediamenti ne sopravvivono ancora molti, compreso il monastero di Santa Caterina, costruito nel VI secolo da Giustiniano nel Sinai meridionale, che pure un generale in pensione egiziano vorrebbe far radere al suolo perché “minaccia la sicurezza nazionale” a causa della presenza di “venticinque monaci ortodossi” tra le sue mura.

Quel modo di vivere, inizialmente unica speranza di salvarsi dalle persecuzioni anti cristiane, diventa poi un modello. “Nel corso del IV secolo, personalità di spicco dell’oriente cristiano si recano in occidente diffondendo con le parole e gli scritti i modelli del monachesimo egiziano e incoraggiandone l’imitazione”, aggiunge Severini. “Non c’è da stupirsi dunque se i modelli improntati sul rigoroso ascetismo orientale vengano accolti e assimilati a tal punto da modificare e forgiare le aspirazioni monastiche in occidente”.

Un cristianesimo vivace e fecondo, quello delle origini. Al tempo del Concilio di Cartagine, verso l’anno 200, si contano settanta vescovi nell’Africa romana. In Italia, tre. Nel secondo concilio di Cartagine, i vescovi africani sono novanta, mentre a Roma, al sinodo convocato da papa Cornelio, ne erano presenti solo sessanta. Prima, già nel 189, la rilevanza del cristianesimo africano era acclarata dall’elezione a pontefice di Vittore, probabilmente un berbero.

Quali fattezze assuma poi il serpente che avrebbe distrutto questa specie di Eden, di cristianesimo vivace e fecondo, è facilmente spiegabile, dicono gli storici più affermati: le dispute dogmatiche, battaglie dai connotati ben poco cristiani su cui la travolgente novità musulmana, poi, avrebbe avuto gioco facile a imporsi. Alla fine del VII secolo, gli Omayyadi compiranno la grande conquista di tutto il nord Africa: l’islam trionfante sul cristianesimo delle Chiese nordafricane divise da sospetti, lotte intestine e reciproche accuse d’eresia. Il seguito è poi una storia di continua lotta per la sopravvivenza, di paria, di dhimmi tollerati nella grande umma rivelata dal profeta Maometto.

Una situazione pressoché cristallizzata: “Le nostre Chiese sono modeste e fragili; la partenza di alcune comunità religiose presenti da molto tempo nel Maghreb e la mobilità sempre più rapida dei membri delle parrocchie ci obbligano a contare sempre di più sulla solidarietà delle altre Chiese, soprattutto in termini di preti ‘fidei donum’ o di congregazioni in particolare africane”, scrivevano nel 2012 i vescovi della conferenza episcopale della regione del nord Africa. Il fatto è, chiosava Teissier, che “noi non facciamo numero. Facciamo segno. Segno dell’amore universale di Dio per tutti gli uomini”.

E come segno e presenza vitale bisogna rimanere lì. Lo sa bene il vescovo di Tripoli, Giovanni Martinelli, giunto lì all’indomani della rivoluzione che portò al potere Muammar Gheddafi e che di scappare dall’inferno della capitale libica non ne vuole proprio  sapere, anche se ormai è l’unico italiano rimasto: “Resto, devo restare. Bisogna farsi coraggio. In questo momento non ho paura, ma so che arriverà quel momento”.

Forse, il vescovo rimasto nella capitale libica con trecento lavoratori filippini ricorda cosa accadde nel 1908 al sacerdote francescano Giustino Pacini, superiore della missione di Derna. Ucciso a pugnalate, da tempo era in conflitto con la comunità musulmana locale perché rivendicava il diritto di difendere la propria attività missionaria. Se necessario, andando fino davanti al sultano di Istanbul.

Il cardinale nigeriano Anthony Okogie, settantottenne arcivescovo emerito di Lagos, aveva pronunciato parole simili a quelle del vescovo Martinelli poco dopo le prime stragi di Boko Haram: “Non scapperemo. Difenderemo le nostre chiese e le nostre case. Se servirà sacrificare la vita, lo faremo”.

Un refrain, triste, che da un capo all’altro del continente viene scandito da decenni. L’Algeria, con la sua lunga guerra civile ne rappresenta l’esempio più lampante: in quel conflitto ha perso il dieci per cento dei religiosi che erano rimasti lì. Nel 1996 l’arcivescovo di Orano, Pierre-Lucien Claverie, morì a causa di una bomba fatta esplodere nell’arcivescovado, pochi mesi dopo l’eccidio dei sette monaci trappisti di Tibhirine: sequestrati, finirono sotto la mannaia del boia.

“Bisogna viverlo come qualcosa di molto bello, di molto grande. Bisogna esserne degni. E la messa che celebreremo per loro non sarà in nero. Sarà in rosso”, disse frère Jean-Pierre, uno dei due superstiti di quella strage, quando un confratello in lacrime venne a riferirgli che i suoi compagni erano tutti morti. “Li abbiamo visti subito come martiri. Il martirio era il compimento di tutto quello che avevamo preparato da molto tempo nelle nostre vite. Eravamo pronti, tutti”, disse qualche anno fa in un’intervista data a Jean-Marie Guénois per “Le Figaro”.

È la croce del continente, che si trascina fin dai primi secoli dopo la venuta di Cristo. Non a caso, ricordano i vescovi del luogo, i più antichi testi sui martiri cristiani, gli “Acta Martyrum Scillitanorum”, sono africani. Si tratta della trascrizione in latino degli atti del processo e della condanna dei membri appartenenti a una comunità cristiana di una città di cui non si sa più nulla avvenuto nell’anno 180. Si tratta dei più antichi documenti di questo genere nella storia della letteratura cristiana.

Fu proprio il vescovo Claverie, quasi presentendo il compimento tragico della sua esistenza terrena, a spiegare il senso della fiammella cristiana in terre ostili: “La Chiesa adempie alla sua vocazione e alla sua missione quando è presente nelle divisioni che crocifiggono l’umanità nella sua carne e nella sua unità. Gesù è morto diviso tra il cielo e la terra, con le braccia distese per riunire i figli di Dio dispersi dal peccato che li separa, li isola e li mette gli uni contro gli altri e contro Dio stesso”.

Chiesa di minoranza e perseguitata, ma viva. Neppure un anno fa l’Annuario pontificio certificava la crescita esponenziale della presenza cattolica nel continente della speranza. Duecento milioni di fedeli, ritmo inversamente proporzionale al lento e inarrestabile declino dell’Europa cristiana, ma superiore anche all’eterna sfida asiatica, missione di papa Francesco e antico nervo scoperto della Santa Sede.

Una Chiesa giovane, quella africana, come ha detto il 2 marzo l’arcivescovo di Rabat e presidente delle conferenze episcopali nordafricane, in visita “ad limina” a Roma: “Sì, siamo per lo più stranieri, spesso di passaggio, ma le nostre chiese sono molto giovani. In Marocco la popolazione conta trentamila persone, ma l’età media dei fedeli è di trentacinque anni”.

Già a metà del decennio scorso, la vivacità della chiesa africana aveva investito come un ciclone il Vaticano. Dieci anni fa, si faceva notare come in ventisei anni lì i fedeli fossero triplicati, i sacerdoti aumentati dell’85 per cento, i seminaristi quadruplicati, i vescovi aumentati del 45 per cento. Tanto che si parlò di esportare il clero verso l’Europa sempre più secolarizzata e con le vocazioni al lumicino, quasi un’opera di rievangelizzazione del continente.

Un grande cardinale come il già decano emerito del collegio cardinalizio, Bernardin Gantin, primo africano chiamato a ricoprire incarichi di vertice in curia (sarà Paolo VI ad affidargli la segreteria dell’evangelizzazione dei popoli, prima di promuoverlo alla presidenza di Giustizia e pace e di “Cor Unum”. Giovanni Paolo II lo nominò successivamente prefetto della congregazione per i vescovi), parlò non a caso di “sacerdoti e religiosi f’idei donum’ al contrario. È la bontà della Chiesa in Africa, la missione è un dovere universale”, disse in un’intervista al mensile “30 Giorni” due anni prima della morte, avvenuta nel 2008. Lui che – come rivelò qualche tempo fa il cardinale nigeriano Francis Arinze – quando nel 2002 decise di lasciare l’Urbe alla volta del suo Benin disse che ci tornava “da missionario romano”.

Gantin, profeta che aveva vissuto in prima persona i drammi del colonialismo e della delicata decolonizzazione, suggeriva che i giovani e determinati preti usciti dai seminari africani non s’allontanassero troppo dalla madrepatria: “Poi, se il loro vescovo acconsentirà, potrebbero di nuovo tornare in occidente. Quello che bisogna evitare è che i sacerdoti africani, senza il consenso dei propri vescovi, vaghino per le diocesi del mondo occidentale più alla ricerca di un proprio benessere materiale che per un autentico zelo pastorale”. Inoltre, ammoniva le congregazioni religiose “europee agonizzanti o minacciate di estinzione” a “non andare a rinvigorirsi a buon prezzo tra le giovani chiese in Asia o Africa”.

Certo, c’è il problema delle liturgie, spesso travolte dallo spirito festoso e allegro di tante realtà sub-sahariane. Ma i primi a porre gli argini sono proprio loro, i vescovi africani, che a differenza di tanti sacerdoti delle parrocchie dell’occidente – soliti gestire le liturgie come farebbe un animatore turistico in un villaggio estivo – al culto del mistero ci tengono. Diceva Gantin: “Non bisogna mai staccarsi dal magistero della chiesa universale. E le nostre messe non devono essere troppo particolare. Non devono essere comprese solo da noi africani. Un qualsiasi cattolico che partecipa a una nostra funzione religiosa deve poterla riconoscere, deve potersi trovare a casa sua. Il cattolicesimo non è protestantesimo”.

Accanto alla Chiesa giovane e dinamica, in Africa c’è anche quella antichissima che affonda le radici nell’immediato dopo Cristo. Ci sono i milioni di copti egiziani che da secoli vivono da minoranza più o meno tollerata nel paese arabo più popolato al mondo, custodi della chiesa fondata da San Marco evangelista che ad Alessandria pose le basi della sua predicazione, prima di essere martirizzato con una corda stretta attorno al collo.

Centinaia di chilometri più a sud, nell’Etiopia scampata all’invasione islamica, s’annidano ancora vecchi monasteri dislocati qua e là tra gli altipiani. “La mia Chiesa è la più antica del mondo e la sua fondazione risale direttamente al tempo di Gesù, attorno all’anno 35, subito dopo la sua morte e resurrezione”, raccontava a “Jesus” abuna Paulos, patriarca della chiesa ortodossa etiope, scomparso tre anni fa. Chiesa antica ma viva: “Abbiamo cinquantamila e più chiese in tutto il paese. I nostri giovani vengono regolarmente a messa, con presenze pari al settanta per cento. In tutto, considerata la costanza con cui le fasce adulte e anziane vengono al culto, sfioriamo l’ottante per cento di popolo a messa ogni domenica”.

Come per l’Egitto, anche in Etiopia è fondamentale la presenza dei monasteri, eremi che hanno resistito alle traversie della storia: “Sempre più giovani chiedono di diventare monaci. Abbiamo milleduecento monasteri in tutto il paese e circa cinquecentomila religiosi. Abbiamo quarantacinque milioni di fedeli, se si calcolano i tantissimi cristiani etiopici che vivono all’estero”.

Il mese scorso, Papa Francesco ha voluto riconoscere il valore della Chiesa cattolica locale che, seppur piccola e minoritaria, rappresenta uno di quei “segni” di cui aveva parlato il vescovo Teissier. L’arcieparca di Addis Abeba, Berhaneyesus Demerew Souraphiel, è stato creato cardinale. Il secondo nella storia dell’Etiopia, dopo Paulos Tzadua. Ed è stato proprio il nuovo porporato a spiegare a Radio Vaticana la fede profonda del suo paese: “La gente prende la sua fede sul serio: la fede è un dono di Dio. E vivono così. Affrontano le cose vedendo che se Dio vuole, le cose possono cambiare. Non perdono la speranza. Per questo amano la vita, dal concepimento fino alla morte. E questo è importante”.

L’Africa continente della speranza, serbatoio di fede per l’avvenire che progressivamente vedrà l’Europa inaridita e le sue chiese sempre più vuote. “Mentre si tende a descrivere l’Africa in modo riduttivo e spesso umiliante, come il continente dei conflitti e dei problemi infiniti e insolubili”, al contrario “essa è per la chiesa il continente della speranza, il continente del futuro”, disse Benedetto XVI nel discorso ai membri della Fondazione Giovanni Paolo II per il Sahel, ricevuti in udienza nel febbraio del 2012.

Non a caso, i vescovi africani si sentono il baluardo contro tutto ciò che possa svilire o appannare il messaggio cristiano così come tramandato nei secoli. Lo si è visto bene al recente sinodo straordinario sulla famiglia, dove loro hanno fatto da capofila allo schieramento avverso allo “Zeitgeist”, lo spirito del tempo che tanto di moda va migliaia di chilometri più a nord, dove le Chiese hanno le casse piene e le navate vuote.

“L’Africa propone all’occidente i suoi valori sulla famiglia, l’accoglienza, il rispetto della vita. Gli ultimi papi hanno avuto grande fiducia nella chiesa d’Africa e questo è un invito a fare la nostra parte”, ha di recente scritto il cardinale guineano Robert Sarah, prefetto della congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, nel libro “Dieu ou Rien” edito in Francia da Fayard. “Affermo solennemente – prosegue il porporato – che la chiesa d’Africa si opporrà fermamente a ogni ribellione contro l’insegnamento di Gesù e del magistero”.

Una Chiesa piagata dalle persecuzioni ma tutt’altro che in ginocchio, come ha ricordato solo qualche settimana fa nel duomo di Milano il cardinale John Onaiyekan, arcivescovo di Abuja, in Nigeria. Lui, che ogni giorno conta i morti per mano di Boko Haram, ha dato un messaggio di fiducia a quell’occidente che passa le giornate a rimuovere presepi e a far tacere campane perché disturbano le coscienze e violano la sacra laicità razionale: “Sono stato nella basilica di Sant’Ambrogio, sulla tomba del grande vescovo che ha battezzato l’africano Agostino: segno di una eredità che risale sino ai primi che seguirono Gesù. Non è possibile che una Chiesa con questo fondamento non viva”.

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Il quotidiano da cui è stato ripreso l’articolo di Matteo Matzuzzi:

> Il Foglio

 

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