Inghìria crastos


Nicolò Migheli interviene al convegno "Sa die de sa Sardigna 2011, il 3 giugno 2011, a Seneghe.

di Nicolò Migheli (l’articolo è uscito nel sito di Sardegna  Democratica il 13 giugno 2011)

 

Inghìria crastos e pistadores de abba. Mario Puddu, autore di un ponderoso dizionario della lingua sarda, ci definisce così. Gente che non riesce da affrontare i veri problemi, che gira intorno ai sassi, che pesta l’acqua nel mortaio ed è contento di essere così. Un popolo che non ha chiaro il proprio interesse, perennemente a rimorchio delle decisioni altrui, prigioniero della propria irrilevanza. Un panorama desolato e desolante. Una coazione a ripetere, quasi ci fosse una incapacità ad accettare il rischio di poter camminare da soli, di gestire in proprio il presente per costruirsi un futuro libero.
L’essere “liberi servi” per usare l’espressione di Giuliano Ferrara, è la massima aspirazione. Festeggiamo il 28 di aprile, la rivolta contro il potere savoiardo e ci dimentichiamo come furono i Sardi, per primi, a tradire Giovanni Maria Angioy. Quella vicenda ci segna nel profondo ancora oggi. Chiunque esca da una medietas è oggetto di risentimenti e negazioni. Tutti figli del no ti che coles, non andare oltre, perché sei come tutti gli altri. Ogni cosa ha un valore limitato e può rapidamente tramutarsi in disvalore. Ti teniamo sott’occhio, esercitiamo un controllo sociale che rassicura il nostro quotidiano. Signori del limite senza gli slanci per andare oltre. Legati alle catene invisibili ma piene del dolore del risentimento. Nessuno può eccellere, farebbe ombra.
Questo è il problema costitutivo del nostro essere al mondo. E’ figlio della nostra povertà di mezzi e di idee, che tronca il futuro e fa vivere male il presente, che innesca competizioni e conflittualità per gli avanzi che cadono dalla mensa del potente di turno. Tutti in corsa a volersi rispecchiare, riconoscere in lui, a riceverne lo sguardo benevolo e la promozione sociale ed economica. Un gioco di specchi e di proiezioni che lega le persone dentro interdipendenze negative. Una concezione del mondo e dei rapporti umani che rasenta il patologico. Lo spazio del politico è l’amplificazione della malattia costitutiva. Il luogo dove ogni scontro sul progetto diventa il conflitto tra le individualità.
Il contrasto non è sul quel che si pensa e si fa, ma su chi si è; sul fantasma di immagine che altri hanno costruito, dove l’idea di una qualsiasi competenza non è un pregio ma il suo esatto contrario. Perché spesso è lo specchio del proprio limite ed innesca il desiderio mimetico, non si vorrebbe essere come lui ma lui. Siamo sempre al dilemma dei porcospini di Schopenhauaer, vorremmo il “cerchio caldo comunitario” ma senza stringerci troppo perché corriamo il rischio di pungerci. Le parvenze comunitarie che costruiamo e viviamo agiscono solo sul negativo, demonizzano chi a nostro avviso si è fatto crescere gli aculei più lunghi. Per il resto un insieme di solitudini individuali.
Il semiologo Franciscu Sedda si chiede in un libro fortunato se i Sardi sono capaci di amare? Lo sono al di fuori della cerchia delle relazioni strette? Sono capaci di immaginarsi come simili che condividono un percorso comune? Di amare la loro terra, la propria nazione, di volerla libera? Riusciremo a far convivere i nostri personali obbiettivi con quelli di tutti? Avremo la capacità di ri-conoscerci? Forse è chiedere troppo dalla politica, perché la forma del nostro essere al mondo non riguarda solo lo spazio della rappresentanza ma tutto il nostro agire, anche quello privato.
Venti anni di berlusconismo hanno peggiorato questo stato di cose perché hanno agito nel profondo, hanno plasmato le anime, hanno dato giustificazione a pulsioni distruttive della convivenza civile. Berlusconi passerà presto si spera, e cadranno ancora una volta gli alibi. Eppure ci sono segni di novità. Il referendum consultivo sul nucleare ha visto, per una volta, i Sardi muoversi all’unisono, hanno accantonato le “divergenze in seno al popolo” per capire quale era l’interesse di tutti.
La vittoria di Massimo Zedda a Cagliari e quella di suoi coetanei in altri comuni, porta una forte ventata di novità e cambiamento. Lo è stata perché ha visto il ritorno dei giovani in politica, lo è stata perché fortemente innovativa nella comunicazione e nel desiderio di partecipazione. Lo sarà anche nella gestione, nei processi decisionali, nell’essere “casa di cristallo”, nel tenere un rapporto costante con i cittadini, come è successo in campagna elettorale?
Lo si spera ardentemente, perché loro possono con l’azione rompere la coazione a ripetere, la condanna storica che ci portiamo dietro. Siamo noi che abbiamo in mano le chiavi per il nostro futuro e possiamo farlo cambiando il nostro presente, rifiutando trasformismi e dipendenze da potentati esterni od interni che siano, anche se della medesima parte politica. “Cambia lo superficial/cambia también lo profundo/cambia el modo de pensar/cambia todo en este mundo” recitano i versi del poeta cileno Julio Numhausen. Speriamo che sia la volta buona anche per noi.

13/06/2011

 

 

 

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    2 Comments to “Inghìria crastos”

    1. By mikkelj tzoroddu, 18 giugno 2011 @ 20:21

      I Sardi (e la Sardegna), il mio grande amore. Giammai ricambiato.
      La parte di essi ch’è arrivata in Continente e qui è rimasta, non saprei ove collocare culturalmente.
      Arrivati che furono alla agognata meta, essi posero in essere una abietta azione di spoliazione della propria dignità: dimenticarono i loro portentosi trascorsi storici (che datano al profondo Paleolitico) e si accanirono a somigliare ai Continentali, che poco hanno di che vantarsi circa il loro passato.
      Essi, di fatto, oggi non hanno alcuna identità: non sono Sardi, perché della Sardegna ricordano solo il Cannonau e su casu, mentre del Continente hanno assorbito appena la piatta dimestichezza con le scartoffie.
      Quelli rimasti nell’Isola rimasero e sono vittime degli eventi che non seppero e talune volte non vollero e non vogliono gestire, perché è meno faticoso seguire anche la polvere di taluno che rischiare di mangiarla quella polvere. E non parlo, Egregio Migheli, solo di quelli d’oggi, ma anche di quelli che si inginocchiarono di fronte alla Democrazia Cristiana, che impose le velleitarie cattedrali di Porto Torres prima e di Ottana poi, le quali prove di modernità, pressoché nulla portarono nelle tasche della Sardegna, che fu per decenni desco riservato a cani e porci non sardi.
      Ritengo che un pensiero rivolto alla antichissima storia della loro Terra potrebbe dare ad entrambe le categorie menzionate, vigore per un più nobile vivere la loro vita.
      Riguardo Lei, Egregio Migheli, ha presentato una discreta analisi, ma troppo ridondante. In più la caduta di stile nell’ultimo terzo della sua noticina, Le ha nociuto non poco.
      La saluto con cordialità.
      mikkelj tzoroddu

    2. By giovanni, 17 giugno 2011 @ 14:27

      Condivido pienamente l’analisi sulla realtà specialmente in sardegna; il “no ti che coles” portato alle estreme conseguenze, anche al male verso gli altri,soprattutto quelli che non si allineano, e al giustizialismo.Non condivido la parte finale del post e l’accostamento improprio e strumentale al berlusconismo/antiberlusconismo;anzi il “no ti che coles” lo vedo molto più omogeneo ad una certa sinistra(si potrebbe dire che sta nel suo DNA).
      Spero anch’io che i giovani recenti vincitori alle elezioni in diverse contrade siano portatori di novità e cambiamento;ma ho qualche dubbio quando,in certi casi, considero l’estrazione da bottega ideologico/partitica ,e peggio ancora familistica, di qualche eletto.